Queste considerazioni di Jean Piaget sul diritto
all’educazione nel mondo attuale fanno parte del suo commento all’art. 26 della
Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo che gli fu richiesto dall’UNESCO e fu pubblicato in lingua
francese nel 1972 nel Rapporto sulle strategie dell’educazione. Piaget
affronta qui il problema di come debba essere inteso oggi il diritto
all’educazione. Egli parte dalla constatazione che nell’essere umano
l’interazione sociale ed educativa è una condizione indispensabile dello
sviluppo. Il significato da dare all’educazione viene individuato in rapporto
alla formazione intellettuale e morale del giovane. Dai dati sperimentali che
emergono dalle ricerche di psicologia evolutiva, il pensiero e la logica – cosí
come le regole e i sentimenti morali – non sono da considerare caratteristiche
innate, ma si formano gradualmente nell’individuo e hanno bisogno di un
determinato ambiente sociale che favorisca la loro elaborazione attiva da parte
del soggetto e non si limiti a una semplice trasmissione e imposizione di
regole e di conoscenze precostituite. Il diritto all’educazione significa
quindi garantire a ciascun bambino il diritto alla costruzione delle proprie
strutture mentali e dei propri princípi morali, nella interazione con un
ambiente sociale di formazione (la scuola) in cui siano organizzati metodi e
tecniche adeguati alle leggi del suo sviluppo mentale.
J. Piaget, Dove va
l’educazione?
Lo sviluppo dell’essere umano è in funzione di due gruppi
di fattori: i fattori ereditari e di adattamento biologico, da cui dipende
l’evoluzione del sistema nervoso e dei meccanismi psichici elementari, e i
fattori di trasmissione o d’interazione sociale, che intervengono fin dalla
nascita ed hanno una funzione sempre piú importante, nel corso della crescita,
nel costituirsi delle condotte e della vita mentale. Parlare di un diritto
all’educazione significa dunque anzitutto constatare la funzione indispensabile
dei fattori sociali nella formazione stessa dell’individuo.
Solo alcune società animali di tipo inferiore sono
interamente regolate dal gioco degli istinti, vale a dire da dispositivi
ereditari che restano interni agli individui stessi. Già negli animali
superiori, il completamento di certe condotte, solo in apparenza esclusivamente
istintive o innate, richiede l’intervento di trasmissioni sociali esterne,
sotto forma di imitazioni, di addestramento, in breve, di un’educazione dei
piccoli da parte della madre o del padre. Uno psicologo cinese ha dimostrato,
ad esempio, che l’istinto di caccia dei gattini si sviluppa meno bene quando
questi vengono separati dalla madre che non quando la medesima condotta viene
rinforzata dalle stimolazioni e dall’esempio materno. Ma, nell’animale, la vita
di famiglia è breve e gli inizi di educazione che essa comporta restano assai
limitati; nelle piú dotate fra le scimmie antropoidi, gli scimpanzé, i rapporti
fra genitori e figli cessano dopo qualche settimana e, dopo il primo anno, il
piccolo è riconosciuto dalla madre soltanto in un caso su cinque.
La differenza essenziale fra le società umane e le società
animali consiste invece nel fatto che le più importanti fra le condizioni
sociali dell’uomo – i mezzi tecnici di produzione il linguaggio con l’insieme
delle nozioni di cui permette la costruzione, le usanze e regole di vario tipo
– non sono piú determinate dall’interno attraverso meccanismi ereditari già
pronti per essere attivati al contatto delle cose e degli altri esseri; queste
condotte vengono acquisite per trasmissione dall’esterno, di generazione in
generazione, vale a dire attraverso l’educazione, e si sviluppano soltanto in
funzione d’interazioni sociali molteplici e differenziate. Da quando gli uomini
parlano, ad esempio, nessun idioma si è fissato ereditariamente, ed è sempre
attraverso una azione educativa esterna dell'ambiente familiare sul bambino
piccolo che questo impara la propria lingua, chiamata, infatti “materna”.
Indubbiamente, le potenzialità del sistema nervoso umano permettono
un’acquisizione di questo genere, negata agli antropoidi, ed il possesso di una
certa “funzione simbolica” fa parte di queste disposizioni interne che la
società non crea, ma utilizza; tuttavia, senza una trasmissione sociale esterna
(va e a dire, innanzitutto, educativa), la continuità del linguaggio collettivo
rimarrebbe praticamente impossibile, Un fatto di questo genere indica, fin
dall’inizio, la funzione di questa condizione formatrice, non sufficiente da
sola, ma rigorosamente necessaria a quello sviluppo mentale che è l’educazione.
Ora, quel che è vero per il linguaggio – mezzo
d’espressione dei valori collettivi – lo è altrettanto per questi valori
stessi, come pure per le norme che li ordinano, a cominciare dai due sistemi di
valori e di norme piú importanti per l’adattamento ulteriore dell’individuo al
suo ambiente: la logica e la morale.
Si è creduto per molto tempo che la logica fosse innata
nell’individuo e che appartenesse, di fatto e di diritto, a quella “natura
umana” che il senso comune considera come anteriore alla vita sociale: di cui
l’idea corrente, ancora nel XVII e XVIII secolo, (e di cui l’opinione pubblica
è rimasta tributaria), che le “facoltà logiche” ecc., siano naturali, e perfino
le sole caratteristiche “naturali” in contrapposizione ai prodotti artificiali
della vita collettiva. Cosí Descartes considerava il “buon senso”, vale a dire
la capacità di ragionare logicamente, come la cosa piú diffusa nel mondo, e
Rousseau fondava tutto un sistema pedagogico sull'opposizione fra le perfezioni
congenite dell’individuo e le deviazioni ulteriori dovute alla vita sociale.
Sono queste le nozioni che hanno ispirato le dottrine della scuola
tradizionale: l'uomo preformato nel bambino e lo sviluppo individuale
consistente solo in una attualizzazione di facoltà virtuali, la funzione
dell’educazione si riduce allora ad una semplice istruzione; si tratta soltanto
di arricchire o di alimentare delle facoltà già formate, e non di formarle; in
definitiva, è sufficiente accumulare delle conoscenze nella memoria, invece di
intendere la scuola come un centro di attività reali (e sperimentali) svolte in
comune, tale che l’intelligenza logica vi si elabori in funzione della azione e
degli scambi sociali.
Ora, la logica non è innata nel bambino. Il risultato piú
evidente di un insieme di ricerche, che riguardano non soltanto il pensiero
verbale dei piccoli, ma anche la loro intelligenza pratica e le operazioni
concrete per mezzo delle quali essi costruiscono le loro classificazioni, le
loro nozioni di numero e di spazio, di ordine e di quantità, di movimento, di
tempo e di velocità ecc., ha permesso di mettere in evidenza il fatto che certi
ragionamenti, considerati logicamente necessari a partire da un certo livello
mentale, sono estranei alle strutture intellettuali anteriori.
Per fissare le idee con un esempio concreto, qualsiasi
bambino normale di 7-8 anni ammetterà che, se due bicchieri di forma diversa, A
e B, contengono la stessa quantità d’acqua, e se i due bicchieri B e C
contengono anch’essi la stessa quantità d’acqua, allora le quantità contenute
in A e in C sono uguali, anche quando i due bicchieri A e C sono di forma piú
dissimile che non A e B o B e C. Invece, per i piccoli di 4-5 anni, non vi è
alcun motivo di ammettere che le quantità A e C siano uguali, quando sono state
constatate le uguaglianze A = B e B = C, e non vi è neppure un motivo valido
perché l’acqua si conservi cambiando di recipiente. Quanto ai bambini da 7 a 10
o 11 anni, se trovano evidente il ragionamento A = B, B = C, dunque A = C
quando si tratta di una piccola quantità d’acqua, lo mettono in dubbio quando
si tratta di nozioni piú complesse (per esempio, di pesi), ed a maggior ragione
nel caso di ragionamenti semplicemente verbali (vale a dire senza manipolazione
di oggetti). La logica formale, nel significato corrente e adulto del termine
(intendo con questo, è evidente, la capacità di ragionare secondo una tale
logica, come M. Jourdain che faceva della prosa senza saperlo, e non la
conoscenza di questa disciplina), si costruisce realmente soltanto a partire da
11-12 anni, e occorre l’età di 14-15 anni perché si completi.
Questi dati di fatto ci sembrano tali da modificare
profondamente i termini classici del problema pedagogico e, di conseguenza, il
significato di diritto all’educazione: se la logica stessa si costruisce invece
di essere innata, ne consegue che il primo compito dell’educazione è di formare
la ragione. La proposizione “Ogni persona ha diritto all’educazione”, come
viene solennemente affermato all’inizio del nostro articolo 26, significa
dunque in primo luogo: “Ogni essere umano ha diritto di stare, durante la
propria formazione, in un ambiente scolastico tale da permettergli di elaborare
fino al loro completamento, quegli strumenti indispensabili di adattamento che
sono le operazioni della logica”. Ora, questa formazione è piú complessa di
quel che non sembri, e non occorre una particolare perspicacia per accorgersi,
esaminando gli individui adulti normali, rappresentativi della media degli
uomini, che le personalità veramente logiche e padrone del proprio ragionamento
sono rare quanto gli uomini veramente morali che esercitano la loro coscienza
in tutto il suo potere.
Quel che abbiamo detto circa gli strumenti del ragionamento
verrà ammesso anche piú facilmente per quel che riguarda la formazione morale,
in teoria almeno. Tutti ammetteranno che, se certe disposizioni innate
permettono all’essere umano di costruire le leggi e i sentimenti morali, questa
elaborazione presuppone l’intervento di un insieme di rapporti sociali
determinati, familiari dapprima, poi piú generali. Tutti riconosceranno dunque,
fino ad un certo punto, la funzione formatrice dell’educazione morale in
contrapposizione alle tendenze semplicemente ereditarie. Ma anche in questo
caso, e secondo un parallelismo, che l’analisi rende sempre piú evidente, fra
la formazione morale e la formazione intellettuale dell’individuo, si pone il
problema di sapere se l’apporto esteriore che ci si aspetta dall’educazione per
completare e plasmare le disposizioni individuali, possa limitarsi ad una
semplice trasmissione di regole e di conoscenze già pronte: si tratta dunque di
imporre certi compiti e una certa obbedienza, in analogia con l’obbligo
intellettuale di ricordare e di ripetere certe “lezioni”, oppure il diritto
alla formazione del ragionamento, un diritto a costruire realmente, o almeno a
partecipare alla elaborazione della disciplina che sarà impegnativa per coloro
stessi che avranno collaborato alla sua costruzione?
Si pone dunque, per l’educazione morale, un problema di
autodisciplina, parallelo a quello dell’auto-formazione della ragione in seno
ad una collettività di ricerca. Dobbiamo ad ogni modo sottolineare subito che
il diritto all’educazione intellettuale e morale implica piú che un diritto ad
acquisire delle conoscenze o ad ascoltare, e piú che un obbligo ad obbedire: si
tratta di un diritto a costruire certi strumenti spirituali, preziosi fra
tutti, e la cui costruzione richiede un ambiente sociale specifico, non fatto
esclusivamente di sottomissione.
L’educazione è quindi non soltanto una formazione, ma una
condizione formatrice necessaria allo sviluppo naturale stesso. Dire che tutti
gli esseri umani hanno diritto all’educazione, non significa dunque suggerire
unicamente, come lo presuppone la psicologia individualista tributaria del
senso comune, che qualsiasi individuo, destinato dalla propria natura
psicobiologica a raggiungere sicuramente un livello già elevato di sviluppo,
possiede in piú il diritto a ricevere dalla società l’iniziazione alle
tradizioni culturali e morali; significa al contrario, approfondendo la
questione, affermare che l’individuo non è in grado di acquisire le proprie
strutture mentali fondamentali senza un apporto esterno che esige un
determinato ambiente sociale di formazione, e che, a tutti i livelli (a partire
dai piú elementari fino ai piú elevati) il fattore sociale o educativo
costituisce una condizione dello sviluppo. Indubbiamente, prima dei 3-4 anni o
6-7 anni, secondo i paesi, non è la scuola ma la famiglia che ha la funzione di
educare. Forse mi si risponderà che, anche ad ammettere questa funzione
costruttiva delle interazioni sociali iniziali, il diritto all’educazione
riguarda innanzitutto il bambino già formato dall’ambiente familiare e pronto a
ricevere un insegnamento scolastico; non si tratterebbe piú allora di
formazione vera e propria, ma soltanto di istruzione. Tuttavia, dissociando
cosí il processo educativo in due periodi, o secondo due sfere di influenza, di
cui la prima soltanto sarebbe formatrice e la seconda si limiterebbe alla
trasmissione di conoscenze particolari, si impoverisce di nuovo il significato
di diritto all’educazione. Non soltanto si limita la portata costruttiva di
quest’ultima, ma si separa inoltre la scuola dalla vita; ora, il problema
essenziale è di fare della scuola l’ambiente formatore che la famiglia tende a
realizzare senza riuscirvi sempre sufficientemente e che costituisce la
condizione sine qua non di uno sviluppo intellettuale e affettivo
completo.
Affermare il diritto della persona umana alla educazione
significa dunque assumersi una responsabilità molto piú gravosa che non
assicurare a ciascuno l’acquisizione della lettura, della scrittura o del
calcolo; significa veramente garantire a ciascun bambino l’intero sviluppo
delle sue funzioni mentali e l’acquisizione delle conoscenze, come pure dei
valori morali che corrispondono all’esercizio di queste funzioni, fino
all’adattamento alla vita sociale attuale. Di conseguenza, significa
soprattutto assumersi l’impegno – tenendo conto della costituzione e delle
attitudini che distinguono ciascun individuo – di non distruggere o sciupare
nessuna delle possibilità che egli parta in sé e di cui la società è chiamata
ad avvantaggiarsi per prima, invece di lasciarne perdere importanti aliquote, e
di soffocarne altre.
Per questo la proclamazione di un diritto alla educazione
implica, se si ha la volontà di attribuirgli un significato che superi il
livello delle dichiarazioni verbali, l’utilizzazione delle conoscenze
psicologiche e sociologiche che possediamo circa le leggi dello sviluppo
mentale, e l’elaborazione di metodi e di tecniche adeguate agli innumerevoli
dati che questi studi forniscono all’educatore. Si tratterà allora di
determinare secondo quali modalità quell’ambiente sociale che è la scuola arriverà
ai migliori procedimenti di formazione, e se questa formazione consiste in una
semplice trasmissione di conoscenze e di regole, o se invece presuppone, come
abbiamo già intravisto, delle relazioni piú complesse fra l’insegnante e
l’alunno e fra gli alunni stessi. Vi ritorneremo a proposito del “pieno
sviluppo della personalità umana”, postulato dal nostro testo.
Limitiamoci, per il momento, a formulare il principio ed a
cercare quel che ne consegue dal punto di vista degli obblighi della società
verso il bambino. Questo principio è dunque che l’educazione non è un semplice
apporto che si aggiunge ai risultati di uno sviluppo individuale regolato in
maniera innata o che si effettua con l’aiuto della sola famiglia: dalla nascita
alla fine dell’adolescenza l’educazione è unica e costituisce uno dei fattori
fondamentali necessari alla formazione intellettuale e morale; di conseguenza,
la scuola ha una parte non trascurabile di responsabilità quanto al successo
finale o all’insuccesso dell’individuo nella realizzazione delle proprie
possibilità e nel suo adattamento alla vita sociale.
In una parola, l'evoluzione interna dell’individuo fornisce
soltanto un numero piú o meno grande, a seconda delle attitudini ai ciascuno,
di abbozzi suscettibili di essere sviluppati, distrutti o lasciati ad uno
stadio incompleto. Ma non sono che degli abbozzi, e soltanto le interazioni
sociali e educative li trasformeranno in condotte efficaci oppure li
distruggeranno per sempre. Il diritto all’educazione è dunque, né piú né meno,
il diritto dell’individuo a svilupparsi normalmente, in funzione delle
possibilità di cui dispone, e l’obbligo, per la società, di trasformare queste
possibilità in realizzazioni effettive e utili.
(F. Ravaglioli, Educazione
occidentale, Armando, Roma, 1988, vol. III, pagg. 354-359)