Piaget, La psicologia del bambino

Jean Piaget (1896-1980) in queste pagine tratte da Le scienze dell’uomo (1970) considera il ruolo fondamentale che ha avuto lo studio della psicologia del bambino secondo un approccio genetico per comprendere come lo sviluppo consista sempre in una costruzione di strutture le quali evolvono secondo stadi “la cui successione può essere accelerata ma non soppressa”. Esaminando le posizioni espresse dai diversi studiosi sui fattori che possono spiegare lo sviluppo del bambino – quali la maturazione, l’interazione con l’adulto, l’esperienza sociale – Piaget sottolinea la necessità di considerare il ruolo svolto dal fattore di “equilibrazione” (cioè dalla compensazione attiva da parte del soggetto nei confronti delle modificazioni esterne) che permette di spiegare la successione degli stadi secondo un ordine fisso. In relazione, infine, alla teoria dell’intelligenza, Piaget sottolinea il contributo dato dallo strutturalismo che riconosce l’esistenza di “strutture operatorie” e prende le distanze sia dalle concezioni associazionistiche sia da quelle della Gestalt (le quali riconoscono l’esistenza delle strutture, ma le riducono tutte a un unico tipo, quello della percezione). La specifica caratteristica delle strutture intellettuali è stata individuata grazie all’analisi psicogenetica (cioè alla ricostruzione del loro processo di formazione): esse non sono innate né acquisite, ma sono il risultato di una costruzione graduale da parte del soggetto. Tale concezione dello sviluppo dell’intelligenza è definito anche “costruttivismo”.

 

J. Piaget, Le scienze dell’uomo

 

Il grande futuro della psicologia è senza dubbio legato ai metodi comparativo e psico-genetico, poiché solo seguendo il processo di formazione dei comportamenti e dei loro meccanismi, nell’animale e nel bambino (nella prospettiva di studiare anche le pre-percezioni e i movimenti nei vegetali), se ne può comprendere la natura e il funzionamento nell’adulto. Il motivo per cui è stato necessario un tempo considerevole per comprendere quanto rappresenta ormai una tendenza largamente diffusa, è che si è a lungo considerato il bambino come il protagonista passivo di un processo di apprendimento limitato a “registrare” ciò che nel mondo dell’esteriorità già organizzata è inscritto in anticipo, e soprattutto ciò che l’adulto gli insegna. Ebbene, due grandi lezioni ci vengono da una migliore conoscenza del bambino: l'universo non è, in realtà, organizzato che alla condizione di avere reinventato poco a poco tale organizzazione, strutturando gli oggetti, lo spazio, il tempo e la causalità e costituendoli in complesso logico; mai nulla si apprende dai maestri se non ricostruendo, allo stesso modo, il loro pensiero: senza questa organica appropriazione, esso non potrebbe mai fissarsi nell’intelligenza e nemmeno nella memoria (cosa che si constata direttamente). In una parola, la psicologia del bambino ci insegna che lo sviluppo è una costruzione reale, al di là di innatismo ed empirismo, e che non si risolve in un’accumulazione additiva di acquisizioni isolate, ma è una costruzione di strutture.

 

A. Ad una prima considerazione della linea evolutiva dell’etologia, o psicologia animale, sorprende constatare come essa abbia conosciuto fasi parallele a quelle della psicologia dell’infanzia, senza che sia intervenuta nessun’altra influenza diretta nell’uno o nell’altro senso, giacché l’etologia è soprattutto opera di zoologi. Dopo una fase di osservazioni isolate, la psicologia animale si è fatta in laboratorio secondo rigorosi canoni di ispirazione associazionista (teorie dell’apprendimento). In seguito, è venuta la scuola detta “obiettivista”, il cui assunto ha significato ricollocare la ricerca nell’ambito della natura stessa, cioè nel complesso indissociabile organismo + ambiente, conducendo tuttavia l’analisi in modo sistematico: di qui la riscoperta dell’istinto, ma col sostegno di una larga abbondanza di fatti nuovi, che ne attestano la complessa realtà. Infine, alla generazione che ha fondato questa etologia in natura, è seguita una seconda generazione di studiosi, diffidenti nei confronti di un puro innatismo e perciò orientati a cercare la spiegazione in un complesso di inneità e di esercizio, e che insistono sulla costruzione delle strutture piuttosto che sull’idea di preformazione semplice.

Ebbene, la psicologia dell’infanzia è passata attraverso fasi abbastanza corrispondenti. Dopo un primo stadio di osservazioni isolate e, per cosí dire, soprattutto “biografiche”, si è sottoposto il bambino ad ogni sorta di test standardizzati, concludendo con delle indicazioni quantitative piú che con idee sui meccanismi propri dello sviluppo. Questa fase è stata seguita da studi soprattutto clinici, nei quali il bambino è stato considerato nel suo contesto di vita e di attività, e a questo punto l’accento è stato posto, in modo analogo, soprattutto sui fattori di mutazione interna del sistema nervoso (Gesell e Wallon), dando spazio naturalmente al fattore sociale generale, ignoto all’animale nella forma di trasmissioni educative prolungate. Finalmente, l'attenzione si è incentrata sulla costruzione stessa delle strutture, superando nello stesso tempo i presupposti a lungo resistenti dei fattori organici e dell’azione dell’adulto.

[...]

B. È lo studio della psicogenesi nel bambino che rende agibile l’analisi di questa costruzione delle strutture. Studi di questo genere vengono intrapresi con sempre maggiore intensità in numerosi paesi, secondo molteplici tendenze di cui segnaleremo le piú importanti.

Agli inizi, Gesell e Wallon hanno insistito sul ruolo della maturazione nervosa, fattore indiscutibile e i cui effetti sono constatabili ai livelli sensorio-motori iniziali (per esempio, nella mielinizzazione del fascio piramidale che rende possibile il coordinamento della visione e della prensione). Tuttavia, nella misura in cui lo sviluppo procede, la maturazione nervosa (che dura fino intorno ai 15-16 anni almeno) si limita sempre piú a offrire delle possibilità senza intervenire con la necessità di una programmazione già fissata, né, del resto, le possibilità danno luogo ad attuazioni multiple, se non nella misura in cui intervengono altri fattori. Wallon, in particolare, ha insistito sul ruolo della maturazione del sistema posturale che, pur essendo strettamente legato al gioco delle emozioni, da lui considerato un fattore positivo, prefigura già gli aspetti figurativi del pensiero (immagini, ecc.).

Un altro fattore fondamentale, sul quale i medesimi autori si basano, accettando piú o meno esplicitamente l’idea che la vita mentale si risolve in un intreccio di fattori organici e sociali, è il ruolo giocato dalla società ambiente: Wallon, la vecchia Scuola di Vienna (Ch. Bühler) e, attualmente, soprattutto gli psicologi sovietici, nel solco della tradizione di Vygotskij, hanno contribuito a mettere in evidenza un gran numero di fattori importanti a questo proposito. Anche da questo settore di studi, tuttavia, emergono due punti egualmente significativi. Il primo è che la disponibilità del bambino alle influenze adulte esiste, nella misura in cui riesce ad assimilarle. J.S. Bruner ha certo sostenuto che, in principio, si può insegnare al bambino qualsiasi cosa a qualsiasi età, ma un contraddittore, nel corso di un dibattito su questo tema, chiedeva quanto tempo sarebbe necessario per insegnare la teoria della relatività al proprio vicino che non fosse né un fisico né un matematico: alla risposta “tre o quattro anni”, lo stesso ha aggiunto: “d’accordo, ma se si incominciasse al livello del neonato, ne occorreranno forse uno o due di piú, e anche se ciò non fosse, tre o quattro anni ci riportano alla questione degli stadi” la cui successione può essere accelerata, non però soppressa.

In secondo luogo, è da considerare che, oltre al rapporto di socializzazione che si istituisce tra adulti e bambini, esistono le relazioni sociali dei bambini fra loro stessi, e queste si sviluppano solo gradualmente. Se le ricerche eseguite in passato sull’egocentrismo del linguaggio infantile non hanno conciliato tutte le opinioni, rimane acquisita però l’idea di una necessaria decentrazione del pensiero, controllabile cosí sul piano dei rapporti sociali (azioni in comune, giochi collettivi, ecc.) come su quello delle strutture del pensiero.

Il terzo fattore comunemente invocato è il peso dell'esperienza sullo sviluppo dell’intelligenza: il suo è un ruolo indispensabile e come tale riconosciuto da tutti gli studiosi. È necessario, tuttavia, fare una precisazione importante. Esiste, in effetti, un’esperienza che potremmo dire, in senso lato, fisica: quella cioè che consiste nell’agire sugli oggetti per derivarne delle conoscenze, attraverso un processo di astrazione che opera direttamente sull’oggetto stesso (colori, peso, ecc.). È il tipo di esperienza al quale ci si riferisce comunemente, e che costituisce l’oggetto specifico dell’empirismo. Ma esiste ancora, d’altra parte, un’esperienza che può chiamarsi logico-matematica e che gioca un ruolo assai importante nel periodo che precede l’apparizione delle operazioni deduttive: anche questo tipo di esperienza si esercita sugli oggetti, ricavando però le sue conoscenze non dall’oggetto in quanto tale, bensí dalle azioni per mezzo delle quali opera su esso; è, per esempio, il tipo di esperienza che interviene allorché il bambino verifica la commutatività, cambiando l'ordine degli oggetti e contandoli di nuovo; poiché l’ordine e la numerazione sono in questo caso dovuti esclusivamente all’azione stessa. Si è voluto contestare tale distinzione, sostenendo, per esempio, che l’ordine e il numero sono, in questo caso, negli oggetti in quanto tali: ma resta da spiegare allora chi ve li abbia messi: l’azione del soggetto o la loro natura fisica di per sé?

Sia questa distinzione, sia lo studio dell’intelligenza senso-motoria che si costituisce prima del linguaggio e dunque indipendentemente da esso, inducono allora ad ammettere che le operazioni intellettuali, quelle logico-matematiche in special modo, sono nate dall’azione (quella del riunire, per esempio) e consistono in azioni interiorizzate (l'addizione), il cui specifico carattere è la reversibilità (all’addizione corrisponde il suo inverso, o sottrazione), esprimendo esse le coordinazioni piú generali (la relazione consistente nella riunione non si applica agli oggetti, ma a quasi tutte le coordinazioni di azioni). Ma lo studio delle operazioni dimostra, soprattutto, che esse non compaiono mai allo stato isolato e sono solidali fra loro in sistemi d’insieme le cui manifestazioni sono, per esempio, una classificazione, una seriazione, la successione dei numeri, delle corrispondenze uno a uno o uno a molti, delle matrici, ecc. Dal punto di vista logico, queste totalità dipendono da note strutture di “gruppi”, “reticoli”, “corpi”, “anelli”, ecc., e l’analisi psicologica prova che tali strutture sono, in effetti, “naturali”, vale a dire che si costituiscono spontaneamente con le operazioni stesse, partendo d’altronde da strutture piú elementari di “raggruppamenti” vari.

È dunque indispensabile, oltre ai fattori comunemente assunti a spiegazione dello sviluppo, quelli cioè di maturazione, vita sociale o esperienza, considerare un fattore di coordinazione delle azioni, non innato, la cui presenza e funzione sono tuttavia indissociabilmente legate allo stesso processo di svolgimento funzionale delle azioni, e che si può definire come fattore di equilibrazione. Non si tratta di una bilancia di forze nel senso gestaltista, quanto proprio di un’autoregolazione, nel senso della biologia e della cibernetica, di un fattore cioè che dimostra il rapporto di natura “essenziale” che lega l’intelligenza a tutto quanto si viene scoprendo intorno alle molteplici omeostasie proprie della vita organica. L’equilibrazione, concepita in questi termini, deve inoltre basarsi sulle compensazioni attive del soggetto nei confronti delle modificazioni esteriori, e in tal modo rende agibile una spiegazione causale della reversibilità, altrimenti riducibile nei limiti di un carattere propriamente logico delle operazioni.

Ancora, tale fattore di equilibrazione non solo spiega il carattere sequenziale degli stadi individuati nel processo di costruzione delle strutture, ma è capace di fornire, nello stesso tempo, un’interpretazione probabilista della loro successione: un qualunque stadio S non si pone come il piú probabile all’inizio dello sviluppo, ma diviene il piú probabile, una volta che l’equilibrio sia stato raggiunto allo stadio S – 1, intanto perché le acquisizioni in S - 1 sono necessarie alle costruzioni in S, e d’altra parte perché un equilibrio già conseguito non concerne che un settore limitato, dunque parziale, incompleto, ed è perciò la condizione di nuovi squilibri ai quali appunto andrà la responsabilità del passaggio da S– 1 a S.

 

C. Nell’ambito della teoria dell’intelligenza, l’insieme di queste constatazioni sembra allora autorizzare alcune conclusioni, che è difficile non scorgere. La prima è che l’intelligenza è assai piú ricca e complessa degli aspetti di cui il soggetto prende coscienza, poiché quest’ultima non approda che ai risultati esteriori di essa, tranne nel caso in cui, in forza di un impegno riflessivo sistematico e retroattivo, la logica e la matematica giungano a formalizzare, senza tuttavia occuparsi in generale del problema delle loro origini, delle strutture le cui radici naturali si trovino già nell’intelligenza in atto. Quanto al soggetto medio, egli non conosce l’intelligenza se non nelle sue prestazioni, le strutture operatorie gli sfuggono allo stesso modo del resto di tutti, quasi, i meccanismi propri dei suoi comportamenti e, ancora di piú, del suo organismo. Le strutture esistono, dunque, ma tocca all’osservatore rivelarle e analizzarle: il soggetto le ignora, infatti, nella loro qualità di strutture, e di esse è capace di individuare solo le operazioni particolari da lui utilizzate (e nemmeno tutte: utilizza continuamente l’“associatività” e la “distributività”, senza sospettarlo, ed è spesso cosí anche per la commutatività).

Non appare dunque sorprendente che lo strutturalismo abbia impiegato tanto tempo per imporsi, seppure a titolo di tendenza i cui esiti possibili sono lontani dall’essere tutti raggiunti. [...] La psicologia della Gestalt ha scoperto delle strutture, ma ha voluto però tutte ridurle ad un unico tipo, facendone il carattere specifico della percezione e delle funzioni conoscitive inferiori ed escludendone l’applicazione all’intelligenza. Sono stati necessari la psicogenetica e l’individuazione dei diversi stadi preoperatori per rivendicare la specificità delle strutture intellettuali.

L’analisi psicogenetica, tuttavia, non vanta solo il merito di questo strutturalismo. Un altro servizio ch’essa rende è altrettanto essenziale, e si risolve nel costruttivismo. Le strutture operatorie dell’intelligenza non sono innate, si sviluppano anzi nel corso di un processo laborioso, che abbraccia i primi quindici anni dell’esistenza, nelle condizioni sociali piú favorevoli. E se si è negato che esse “giacciano” preformate nel sistema nervoso, nemmeno è da credere appartengano a priori al mondo fisico, nel quale non resterebbe che scoprirle. Le strutture, dunque, sono il risultato di una reale costruzione, che procede per gradi, su ciascuno dei quali è necessaria una preliminare ricostruzione dei risultati ottenuti al grado precedente, prima di ampliare il proprio ambito e di promuovere una nuova costruzione: le strutture nervose servono quale strumento all’intelligenza senso-motoria, ma questa è in grado di costruire una serie di nuove strutture (oggetto permanente, gruppo degli spostamenti, schematismo dell’intelligenza pratica, ecc.); le operazioni del pensiero, a loro volta, assumono a proprio fondamento l’azione sensorio-motrice dalla quale prendono origine, ma esse ricostruiscono ciò che era acquisito a livello pratico, elaborandolo in forma di rappresentazioni e concetti, prima di ampliare considerevolmente la gamma delle strutture iniziali; il pensiero riflessivo o astratto, finalmente, ristruttura le iniziali operazioni mentali, situando il dominio concreto in quello dell’ipotesi e della deduzione proposizionale o formale. Nell’adulto che crea, tale movimento di costruzioni incessanti si prolunga indefinitamente, e le forme di pensiero tecnico e scientifico ne sono l’indiscutibile testimonianza.

 

(L. Mecacci, Introduzione alla psicologia, Laterza, Bari, 1994,  pagg. 160-162; 164-169)