Planck, Relatività e assoluto

La relatività di Einstein non sopprime l’assoluto nella natura. Non siamo noi che creiamo il mondo esterno come ci fa comodo, esso ci si impone. L’assoluto non è un oggetto da afferrare, ma una meta ideale che ci sta sempre davanti, senza che noi possiamo raggiungerla.

 

M. Planck, La conoscenza del mondo fisico, trad. di E. Persico e A. Gamba, Boringhieri, Torino, 1964, pagg. 172-174

 

La scoperta di Einstein che i nostri concetti di spazio e tempo, che Newton e Kant ponevano a base del loro pensiero come forme assolute e date della nostra intuizione fenomenica, hanno invece un significato relativo per l'arbitrio che è implicito nella scelta del sistema di riferimento e del metodo di misurazione, è forse fra quelle che piú intaccano le radici del nostro pensiero fisico. Ma negando il carattere assoluto dello spazio e del tempo non si elimina l'assoluto dall'universo, lo si sposta semplicemente piú indietro nella metrica della molteplicità quadridimensionale, che consiste nel fondere insieme spazio e tempo in un continuo unitario per mezzo della velocità della luce. Questa metrica è una cosa a sé, distaccata da qualunque arbitrio, e quindi è un assoluto.

Cosí anche la teoria della relatività, troppe volte male interpretata, non solo non sopprime l'assoluto, ma al contrario mette in evidenza in modo ancor piú netto che la fisica si fonda sempre su di un assoluto posto nel mondo esterno. Poiché se l'assoluto, come pretendono molti teorici della conoscenza, esistesse solo nell'esperienza vissuta di ognuno, dovrebbero esserci tante fisiche quanti sono i fisici, e non potremmo affatto comprendere come mai sia stato possibile, almeno fino a oggi, costruire una scienza fisica che è la stessa per le intelligenze di tutti gli scienziati, nonostante le differenze delle loro esperienze vissute. Non siamo noi che creiamo il mondo esterno perché ci fa comodo, ma è il mondo esterno che ci si impone con violenza elementare: ecco un punto su cui è necessario insistere, nel nostro tempo impregnato di positivismo. Quando, nello studio di ogni fenomeno naturale, procuriamo di passare da ciò che è particolare, convenzionale e casuale a ciò che è generale, obiettivo e necessario, non facciamo altro che cercare dietro il dipendente l'indipendente, dietro il relativo l'assoluto, dietro il transitorio il perenne. E, per quanto mi consta, questa tendenza non è rilevabile soltanto nella fisica, ma in ogni scienza, e non solo nel campo del sapere, ma anche in quello del buono e del bello [...].

Concluderò con una domanda assai ovvia ma imbarazzante. Chi ci garantisce che un concetto, a cui oggi ascriviamo un carattere assoluto, non si rivelerà relativo domani, e non dovrà cedere il posto a un concetto assoluto piú alto? La risposta non può essere che una sola: nessuno al mondo può assumersi una garanzia di tal genere. Anzi, possiamo esse sicuri che l'assoluto vero e proprio non sarà mai afferrato. L'assoluto è una meta ideale che abbiamo sempre dinanzi a noi senza poterla mai raggiungere. Sarà questo forse un pensiero che ci turba, ma a cui ci dobbiamo adattare. La nostra condizione è paragonabile a quella di un alpinista che non conosce le montagne per cui cammina e non sa mai se dietro la cima che vede dinanzi a sé e che vuole raggiungere non ne sorga per caso un'altra piú alta. A lui come a noi potrà servire di consolazione il sapere che si procede comunque sempre piú avanti e sempre piú in alto, e che non c'è nessun limite che ci impedisca di continuare ad avvicinarci alla meta. Spingersi verso questa meta sempre piú innanzi e sempre piú dappresso è il vero sforzo costante di ogni scienza, e possiamo dire con Lessing che non il possesso della verità, ma la lotta vittoriosa per conquistarla fa la felicità dello scienziato; ché ogni sosta stanca e finisce per snervare. Una vita forte e sana prospera solo col lavoro e il progresso. Dal relativo all'assoluto.

 

Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. IV, pagg. 854-855