Presentiamo il famoso passo del Simposio in cui Platone mette
sulla bocca di Diotima la propria concezione di amore-Éros, figlio di Póros
e di Penía, dialettico, filosofo. Quando nella discussione sull’amore è
la volta di Socrate, egli – fedele all’immagine del saggio che non sa –
riferisce un discorso che dice di aver sentito dalla saggia Diotima. Come si
legge nel Fedro, per Platone amore è “delirio” e follia. Se qualcuno
considera l’Amore “bello” – continua Diotima – è perché ha pensato che “Amore
fosse l’amato, non l’amante”: l’oggetto dell’amore – l’amato – appare
indubbiamente bellissimo, ma Amore è il sentimento che afferra l’amante e lo fa
soffrire e delirare, è tormento e dramma nella ricerca dell’amato. Proprio per
questo Amore svolge una funzione positiva: esso è desiderio di ciò che non si
ha, desiderio del Bello e del Bene.
Simposio, 201 d-204 c, 206 a-e
1 [201
d] Dirò invece il discorso su Amore che ho ascoltato una volta da una
donna di Mantinea, di nome Diotima, la quale era dotta su questa e molte altre
questioni. Facendo fare dei sacrifici agli Ateniesi prima della peste, ritardò
l’epidemia di dieci anni; e fu proprio lei che mi istruí nelle cose d’amore ...
Mi proverò dunque a riportarvi cosí da me solo, per quanto mi riuscirà, il
discorso che mi tenne lei, partendo dai punti sui quali già siamo d’accordo io
e Agatone. Naturalmente, o Agatone, è bene discutere come tu hai spiegato, in
primo luogo [e] chi è Amore nella sua essenza e natura, e in seguito le
sue opere. Ora mi par piú facile parlarne nell’ordine che tenne allora la
straniera, interrogandomi. Perché anch’io le dicevo quasi le stesse cose che
ora Agatone sosteneva con me, che cioè Amore è un gran dio e ama le cose belle.
Lei allora mi provava, con gli stessi argomenti che ho tenuto ora contro di
lui, che Amore, secondo il mio stesso discorso, non era bello né buono. E io:
“Che dici mai, o Diotima? Amore è forse brutto e cattivo?”. E lei: “Non
bestemmiare;” rispose “o credi forse che ciò che non sia bello debba essere
brutto?”. [202 a] “Sicuramente!”. “E cosí ciò che non è sapiente,
ignorante? Ma non t’accorgi che c’è qualcosa di mezzo fra sapienza e
ignoranza?”. “Che cosa?”. “Giudicare con giustezza, anche senza essere in grado
di darne ragione. Non sai che ciò appunto non è scienza – perché dove non si sa
dar ragione come potrebbe esservi scienza? Né ignoranza – giacché ciò che
coglie il vero come potrebbe essere ignoranza? Orbene qualcosa di simile è la
giusta opinione, qualcosa di mezzo fra l’intendere e l’ignoranza”. “È
verissimo” le dissi. “Non conseguirne, dunque, che una cosa non bella sia
necessariamente brutta, né una cosa non buona, cattiva. Cosí anche Amore,
poiché tu stesso [b] concordi che non è buono né bello, non credere piú
in alcun modo che debba essere cattivo e brutto, ma qualcosa di mezzo fra
questi due estremi”. “E però, risposi io, tutti pensano d’accordo che sia un
grande dio”. “Quali tutti? Quelli che non sanno o anche quelli che sanno?”.
“Tutti, tutti, dico”. E lei ridendo: “E come possono mai [c] sostenere
concordi, o Socrate, che Amore sia un grande dio, coloro che affermano che egli
non è neppure dio?”. “E chi sono questi?” esclamai. “Uno, rispose, sei proprio
tu, un’altra, io”. E io: “Come sarebbe a dire?”. “È facile, rispose lei, perché
rispondimi: non ritieni tutti gli dèi felici e belli? Oseresti dire che qualche
dio non è bello e felice?”. “Per Giove, no di certo” risposi. “E del resto non
chiami felici coloro che possiedono bontà e [d] bellezza?”. “Sicuro!”.
“Ma Amore, l’hai ammesso, proprio perché è privo di bontà e bellezza, desidera
questi beni che non ha”. “Già, l’ho ammesso”. “E come potrebbe essere dio
quello a cui mancano bellezza e bontà?”. “Temo che non potrebbe in alcun modo”.
“Vedi dunque che anche tu pensi che Amore non sia un dio?”.
2 “Ma
cosa sarebbe allora, esclamai, questo Amore? un mortale?”. “Niente affatto”.
“Ma allora cos’altro è?”. “Come nel caso di prima, qualcosa di mezzo fra
mortale e immortale”. “Che è dunque, o Diotima?”. “Un demone grande, o Socrate.
E difatti ogni essere [e] demonico sta in mezzo fra il dio e il
mortale”. “E qual è la sua funzione?” domandai. “Di interpretare e di
trasmettere agli dèi qualunque cosa degli uomini, e agli uomini qualunque cosa
degli dèi; e di quelli cioè reca le preghiere e i sacrifici, di questi invece i
voleri e i premi per i sacrifici. In mezzo fra i due, colma l’intervallo sicché
il tutto risulti seco stesso unito. Attraverso di lui passa tutta la mantica, e
l’arte sacerdotale concernente i sacrifici, le [203 a] iniziazioni e gli
incantesimi e ogni specie di divinazione e di magia. Gli dèi non si mischiano
con l’uomo, ma per mezzo di Amore è loro possibile ogni comunione e colloquio
con gli uomini, in veglia o in sonno. E chi è dotto di queste arti, è un uomo
demonico, ma chi è conoscitore di altre tecniche o mestieri non è che un
generico. Ora, questi demoni sono molti e vari: uno di questi è anche Amore”.
“E suo padre e sua madre, domandai, chi sono?”. “È cosa un po’ lunga da
raccontare, rispose, ma a te la dirò. [b] Quando nacque Afrodite gli dèi
tennero un banchetto, e fra gli altri anche Poro (Espediente) figlio di Metidea
(Sagacia). Ora, quando ebbero finito, arrivò Penia (Povertà), siccome era stata
gran festa, per mendicare qualcosa; e si teneva vicino alla porta. Poro
intanto, ubriaco di nettare (il vino non esisteva ancora), inoltratosi nel
giardino di Giove, schiantato dal bere si addormentò. Allora Penia, meditando
se, contro le sue miserie, le riuscisse d’avere un figlio da Poro, gli si
sdraiò accanto e rimase incinta di [c] Amore. Proprio cosí Amore divenne
compagno e seguace di Afrodite, perché fu concepito il giorno della sua
nascita, ed ecco perché di natura è amante del bello, in quanto anche Afrodite
è bella. Dunque, come figlio di Poro e di Penia, ad Amore è capitato questo
destino: innanzitutto è sempre povero, ed è molto lontano dall’essere [d]
delicato e bello, come pensano in molti, ma anzi è duro, squallido, scalzo,
peregrino, uso a dormire nudo e frusto per terra, sulle soglie delle case e per
le strade, le notti all’addiaccio; perché conforme alla natura della madre, ha
sempre la miseria in casa. Ma da parte del padre è insidiatore dei belli e dei
nobili, coraggioso, audace e risoluto, cacciatore tremendo, sempre a escogitar
machiavelli d’ogni tipo e curiosissimo di intendere, ricco di trappole, intento
tutta la vita a filosofare, e terribile ciurmatore, stregone e sofista. E sortí
una natura né immortale né mortale, ma a [e] volte, se gli va dritta,
fiorisce e vive nello stesso giorno, a volte invece muore e poi risuscita,
grazie alla natura del padre; ciò che acquista sempre gli scorre via dalle
mani, cosí che Amore non è mai né povero né ricco. Anche fra [204 a]
sapienza e ignoranza si trova a mezza strada, e per questa ragione nessuno degli
dèi è filosofo, o desidera diventare sapiente (ché lo è già), né chi è già
sapiente s’applica alla filosofia. D’altra parte, neppure gli ignoranti si
danno a filosofare né aspirano a diventare saggi, ché proprio per questo
l’ignoranza è terribile, che chi non è né nobile né saggio crede d’aver tutto a
sufficienza; e naturalmente chi non avverte d’essere in difetto non aspira a
ciò di cui non crede d’aver bisogno”. “Chi sono allora, o Diotima” replicai
“quelli che s’applicano alla filosofia, se escludi i sapienti e gli
ignoranti?”. “Ma lo vedrebbe anche un [b] bambino, rispose, che sono
quelli a mezza strada fra i due, e che Amore è uno di questi. Poiché appunto la
sapienza lo è delle cose piú belle ed Amore è amore del bello, ne consegue
necessariamente che Amore è filosofo, e in quanto tale sta in mezzo fra il
sapiente e l’ignorante. Anche di questo la causa è nella sua nascita: è di
padre sapiente e ingegnoso, ma la madre è incolta e sprovveduta. E questa è
proprio, o Socrate, la natura di quel demone. [c] Quanto alla tua
rappresentazione di Amore, non c’è da meravigliarsi; perché tu credevi, per
quanto posso dedurre dalle tue parole, che Amore fosse l’amato, non l’amante; e
per questo, penso, Amore ti appariva bellissimo. E in realtà ciò che ispira amore
è bello, delicato, perfetto e beato; ma l’amante ha un’altra natura, come t’ho
spiegato”.
[...]
3 [206 a] [...] – Riassumendo
quindi, l’amore è desiderio di possedere il bene per sempre. – Verissimo, dissi
io.
4 [b] – Poiché dunque l’amore
è sempre questo, riprese lei, in quale modo e in quali azioni lo zelo e la
tensione di coloro che lo perseguono possono essere chiamati amore? Quale sarà
mai questa azione? Lo sai? – Certo non sarei sempre ammirato della tua
sapienza, o Diotima, né verrei a scuola da te per imparare proprio queste cose,
se le sapessi. – Te lo dirò io, allora: è la procreazione nel bello, secondo il
corpo e secondo l’anima. – Un indovino ci vuole, per capirti. Io non intendo. –
No, ma [c] te lo dirò io con piú chiarezza, riprese. Tutti gli uomini, o
Socrate, sono pregni nel corpo e nell’anima, e quando giungono ad una certa
età, la nostra natura fa sentire il desiderio di procreare. Non si può
partorire nel brutto, ma nel bello, sí. L’unione dell’uomo e della donna è
procreazione; questo è il fatto divino, e nel vivente destinato a morire questo
è immortale: la gravidanza e la riproduzione. [d] Ma è impossibile che
queste avvengano in ciò che è disarmonico. E il brutto è disarmonico a tutto
ciò che è divino; il bello invece gli si accorda; cosí che Bellezza fa da Sorte
(Moira) e da Levatrice (Ilitia) nella procreazione. Per questo quando la
creatura gravida si accosta al bello diventa gaia e tutta lieta si espande,
partorisce e procrea, ma quando si accosta al brutto, cupa e dolente si contrae,
si attorciglia in se stessa e si ritorce senza procreare, ma trattiene dentro
il suo feto soffrendo. Di qui s’ingenera l’impetuosa [e] passione per il
bello nell’essere gravido e già turgido, perché il bello libera dalle atroci
doglie chi lo possiede. E, a ben vedere, o Socrate, l’amore non è amore del
bello, come pensi tu! – Ma di che cosa, allora? – Di procreare e partorire nel
bello. – E sia, dissi. [...]
(Platone, Opere, vol. I,
Laterza, Bari, 1967, pagg. 696-700, 701-702)