Durante il banchetto in onore di
Agatone, dagli illustri ospiti viene affrontato l’argomento dell’amore. Alla
fine interviene Socrate, che paragona l’amore alla filosofia. A questo punto
entra nella sala del banchetto Alcibiade, già mezzo ubriaco e, avendo visto
Socrate, ne tesse l’elogio. Ne esce un ritratto del filosofo particolarmente
significativo.
Platone, Simposio, 215a-222b.
1 Questo
elogio di Socrate, o amici, mi proverò a farlo cosí, per immagini. Lui crederà
che lo faccia per dire cose piú ridicole, ma l’imagine sarà per cogliere il
vero, non per far ridere. Io dico cioè che costui è somigliantissimo a quei
sileni esposti nelle botteghe degli scultori, che gli artisti figurano con
zampogne e flauti, i quali, se li apri in due, mostrano dentro simulacri degli
dèi. E dico ancora che lui assopmiglia al satiro Marsia; e che almeno
nell’aspetto tu sia uguale a costoro, o Socrate, nemmeno tu potresti negarlo; e
come somigli loro in tutto il resto, ascolta. Sei insolente, no? Se non
consenti produrrò dei testimoni. E non flautista? Sí, e molto piú meraviglioso
di Marsia. Costui almeno incantava gli uomini per mezzo dei suoi strumenti, con
la potenza che gli usciva di bocca, e ancora fa cosí chi esegue le sue melodie
– giacché quelle che suonava Olimpo le dico di Marsia che gliele ha insegnate.
Dunque le sue melodie, sia che le esegua un flautista valente, sia una
suonatrice da nulla, esse da sole, per la loro potenza divina, trasportando le
anime in deliri e discoprono quali d’esse hanno bisogno degli dèi e d’essere
iniziate. Ma tu sei diverso da lui solo in questo, che ottieni lo stesso
effetto senza strumenti e con le nude parole. Noi, certo, quando ascoltiamo
qualcun altro parlare, anche un bravo oratore, su altri argomenti, non ce ne
importa nulla, per dirlo chiaro, di nessuno; ma quando si ascolta te o qualcun
altro riporti, anche se è uno sciocco qualunque, i tuoi discorsi e li ascolti
una donna, o un uomo, o un ragazzo, ne rimaniamo sbigottiti ed invasati. Io,
sinceramente, o amici, se non fosse che potreste credermi ubriaco del tutto, vi
direi giurando quali profonde emozioni ho provato ai discorsi di quest’uomo e
provo tutt’ora. Perché quando lo ascolto, molto di piú che ai coribanti il
cuore mi salta dentro e mi prendono le lacrime per effetto delle sue parole e
vedo che anche moltissimi altri provano la stessa emozione. Ascoltando Pericle
e altri bravi oratori, sentivo che parlavano bene, ma non soffrivo niente di
simile, né l’anima mi tumultuava, né m’irritavo al pensiero di soggiacere come
uno schiavo. Ma per questo Marsia qui spesso, sí, mi son trovato in tale stato
da pensare di non poter piú vivere nelle condizioni in cui sono. E questo, o
Socrate, non dirai che non è vero. Ancor oggi debbo riconoscere a me stesso che
se soltanto fossi disposto a prestargli orecchio, non resisterei e proverei gli
stessi effetti. Perché lui mi piega a confessare che, mentre difetto di mille
cose, di me stesso non mi curo, ma m’occupo degli affari d’Atene. Facendomi violenza,
distraggo le mie orecchie da lui, come dalle Sirene, e mi allontano fuggendo,
perché non avvenga ch’io invecchi accoccolato vicino a lui. E solo di fronte a
quest’uomo io ho provato, cosa che nessuno sospetterebbe in me, la vergogna di
fronte a qualcuno. Ma io di lui solo provo vergogna perché riconosco in me
stesso che non sono capace di controbattere che ciò che lui pretende non si
debba fare; ma, appena mi allontano da lui, sono vinto dall’ambizione di onori
pubblici. Lo tradisco come schiavo fuggitivo e lo abbandono, e quando lo vedo,
mi assale vergogna per le cose che mi ha fatto riconoscere. E spesso sarei
felice se non fosse piú tra i vivi! Ma so bene che se ciò avvenisse, ne sarei
piú angosciato, cosí che non so proprio cosa farne di quest’uomo.
2 Proprio
dalle melodie del flauto di questo satiro qui, io e molti altri abbiamo provato
questi effetti. Ma ascoltate ancora come è simile a coloro ai quali l’ho
confrontato e il meraviglioso potere che possiede. Perché, sappiatelo bene,
nessuno di voi lo conosce! Ma io ve lo scoprirò giacché mi ci son messo. Voi
vedete che Socrate è sempre in amore con le belle persone, gli è sempre intorno
e ne è tutto turbato, poi ignora tutto e non sa nulla... almeno all’apparenza!.
E non è da sileno questo? Ma è tutto lui! Perché questa è la sua veste di
fuori, come nel sileno scolpito; ma, apritelo dentro, e immaginate mai, miei
cari bevitori, di quanta temperanza è pieno? Sappiate che, se uno è bello, a
lui non importa niente, ma lo sdegna quanto nessuno crederebbe, né gli importa
se è ricco o possiede qualunque altra fortuna di quelle strabenedette dalla
gente.. Lui ritiene che tutti questi possessi non valgono nulla e che noi siamo
nulla: ve lo dico io e passa il suo tempo a far l’ingenuo e a prendersi gioco della
gente: ma quando fa sul serio e si apre, non so se qualcuno ha mai visto i
simulacri che ha dentro! ma io una volta li vidi e li sentii cosí divini e
preziosi e cosí stupendi e meravigliosi che non mi rimase se non fare
all’istante ciò che Socrate voleva. Ora, poiché credevo che egli prendesse sul
serio la mia bellezza, pensai ch’ero ben fortunato ed avevo una straordinaria
occasione, perché potevo, compiacendo Socrate, ascoltare tutto quanto lui
sapeva. Perché della mia bellezza ero incredibilmente superbo. Pensato tutto
questo, mentre prima solevo starmi con lui insieme a un servo e mai solo, da
allora, congedato il servo, rimanevo solo con lui. Bisogna naturalmente che vi
dica tutta la verità: state attenti e se mento, Socrate, sbugiardami. Lo incontravo,
o amici, solo a solo e pensavo che presto mi avrebbe fatto quei discorsi che un
amante fa al suo amore quando si trovino soli, e ne ero pieno di gioia. Ma di
tutto ciò non avveniva nulla: discorreva con me secondo il solito, e trascorsa
insieme la giornata, mi piantava e partiva. Allora lo invitai a far ginnastica
insieme ed io mi esercitavo con lui sperando che lí avrei concluso qualcosa.
Ebbene egli faceva gli esercizi con me, e spesso la lotta, senza alcuno
presente, e che debbo dire? non ne veniva fuori nulla. Visto che in questo modo
non ci riuscivo, mi parve che fosse necessario attaccare quest’uomo con la
violenza, e non smettere, dal momento che avevo cominciato, finché la faccenda
non si fosse chiarita. Ed ecco che lo invito a cena proprio come un amante che
tende la trappola al suo amore. Ma neppure in questo mi dette retta alla
svelta, tuttavia col tempo si lasciò persuadere. Quando venne la prima volta,
appena finito di cenare voleva andarsene, e per allora, vergognandomi, lo
lasciai partire. Ma di nuovo ripetei la trappola, e dopo ch’ebbe cenato
m’intrattenni a parlare con lui fino a notte inoltrata e, quando volle
andarsene, lo convinsi a rimanere col pretesto che era tardi. Riposava dunque
sul letto vicino al mio, lí dove aveva cenato: nella stanza non dormiva
nessuno, solo noi. Fin qui il mio racconto andrebbe bene anche a raccontarlo a
chicchessia; ma da qui in avanti non udreste il mio racconto se, innanzitutto,
secondo il proverbio, il vino (con o senza fanciulli) non fosse veritiero; e poi
mi sembra ingiusto tralasciare un cosí superbo atto di Socrate, ora che mi son
messo a farne l’elogio. Ma ancora io mi sento come un uomo morso da una vipera:
dicono cioè che chi l’ha subito non sia disposto a raccontare com’è stato se
non ai compagni di sventura perché essi soli comprendono e possono scusare se
sotto l’azione di quella sofferenza ne combina e ne dice d’ogni colore. Io
pure, ferito dal morso piú straziante e nella parte piú dolorosa in cui si
possa essere addentati... perché nel cuore, nell’anima o come lo si voglia
chiamare, sono stato piagato e morso dai discorsi di filosofia che addentano
piú selvaggi d’una vipera quando s’attaccano a un’anima giovane e non ignobile,
e la inducono a fare e dire qualunque cosa... e poi vedo qui i Fedri, gli
Agatoni, gli Eurissimachi, i Pausania, gli Aristodemi, gli Aristofani – e di
lui, Socrate che dire? e quanti altri...? perché tutti siete accomunati dal
delirio e dal furore bacchico per la filosofia... perciò mi starete tutti a
sentire e scuserete i miei atti di allora e ciò che dico adesso. Ma i servi e
chiunque altro ci sia profano e rozzo, mettetevi spesse porte alle orecchie.
3 Quando
dunque, o amici, si spense il lume e i servi furono usciti, mi parve che non
fosse il caso di fare il sottile con lui, ma di dirgli liberamente quello che
pensavo. Cosí lo scossi e dissi: “Socrate, dormi?”. “No” mi rispose. “Sai
cos’ho pensato?”. “Che cosa mai?” disse. “Ho pensato – risposi – che tu se
l’unico amante degno che io abbia e vedo che esiti a dichiararti. Ora, io la
sento cosí: ritengo che sarebbe del tutto stupido se non ti compiacessi anche
in questo come in tutto quello di cui tu avessi bisogno, dei miei beni e dei
miei amici. Per me nulla è piú importante che divenire quanto è possibile
migliore, e io credo che per questo nessuno mi può essere di piú valido aiuto
che te. E certo di fronte alla gente che sa mi vergognerei di non concedermi a
un uomo come te, molto di piú che di fronte al volgo ignorante, se ti
compiacessi”. Egli mi stava a sentire e poi, con quella solita aria innocente
ed ironica, tutta sua: “Mio caro Alcibiade – disse – rischi di non essere
affatto sciocco se per caso son vere le cose che dici di me e se c’è dio sa
quale potere in me che ti potrebbe rendere migliore. Ecco tu vedresti in me una
irresistibile bellezza del tutto incomparabile pure alla grazia delle tue
forme: se avendola scoperta cerchi di appropriartene barattando bellezza con
bellezza, miri a guadagnarci non poco alle mie spalle! Via, in cambio di una
bellezza apparente tenti di guadagnarci una bellezza vera e calcoli, alla
lettera, di scambiare “oro con rame”. Ma, o beato, guarda meglio, che io non
sia nulla e tu non te ne accorgi! Certo la vista della mente comincia a vedere
piú acutamente quando quella degli occhi tende a declinare: e tu ci sei ancora
lontano”. Lo ascoltai e poi: “Da parte mia, dissi, è cosí, e non ti ho detto
niente di diverso da quello che penso. Decidi tu quel che sia meglio per te e
per me”. “Cosí parli bene, rispose, perché avremo tempo per decidere e faremo
ciò che ci parrà piú giusto in questa ed altre questioni”. Io naturalmente dopo
quello che aveve udito e quello che avevo detti, lanciando per cosí dire i miei
strali, credevo che egli fosse ferito. Mi rizzai e senza lasciargli dire piú
nulla lo ricopersi con il mantello che avevo (poiché era inverno), e,
sdraiatomi sotto questo suo solito gabbano, gettai le braccia attorno a
quest’uomo veramente demoniaco e straordinario e giacqui con lui l’intera
notte. E neppure adesso puoi dire, Socrate, che mento. Malgrado tutti questi
miei sforzi, costui di tanto mi superò, sdegnò e derise la mia bellezza, e la
offese ... eppure credevo che valesse qualcosa, o giudici (ché voi siete
giudici della superbia di Socrate) ... ebbene, sappiatelo, lo giuro per gli dèi
e per le dee, dormii con Socrate e mi levai né piú né meno che se avessi
dormito col padre o con un fratello maggiore.
4 Dopo
questo, come pensate che fosse il mio animo? Avere coscienza d’essere svilito
da lui, ma dovere ammirarne il suo essere, la sua temperanza e la sua fortezza.
Pensare d’essere capitato con un uomo quale mai certamente avrei piú potuto
trovare cosí sapiente e forte. Cosicché non ero capace d’essere in collera né
di privarmi della sua compagnia, né riuscivo a strologare come attirarlo a me.
Perché sapevo perfettamente che alla ricchezza era molto piú invulnerabile, da
ogni parte, che non Aiace alla spada, e nell’unica cosa con cui credevo di
poterlo catturare, m’era sfuggito. Ed eccomi, senza una via d’uscita, ridotto
schiavo da quest’uomo come nessuno mai da un altro non facevo che girargli
attorno. Tutti questi fatti mi erano già accaduti, quando in seguito fummo
insieme soldati al campo di Potidea, dove avevamo il rancio in comune. Per
cominciare, nelle fatiche non solo era superiore a me, ma a tutti quanti.
Quando, rimasti isolati in qualche parte, come avviene in guerra, ci capitava
di dover sostenere la fame, gli altri, in confronto, non valevano nulla in
resistenza. Ma nelle baldorie, invece, lui solo sapeva godere fino in fondo e a
bere, – non che lo volesse, ma quando lo si forzava – vinceva tutti; ma ciò che
piú meraviglia è che Socrate nessuno uomo mai l’ha visto ubriaco. E di ciò,
credo, presto se ne avrà la prova. Quanto a sopportare l’inverno (perché là
erano tremendi) faceva miracoli e, fra gli altri, una volta che c’era un gelo
da inorridire e tutti stavano rintanati dentro o se uno usciva si avvolgeva in
una incredibile quantità di panni, si calzava e si fasciava i piedi con feltri
e pellicce, lui, con un tempo simile, se ne usciva con questa gabbanina che ha
sempre, e scalzo camminava sul ghiaccio, piú tranquillo che gli altri tutti
iscarponati. E i soldati lo sbirciavano credendo che li volesse mortificare.
5 E
questo basti per tale argomento. “Ma che compí e sostenne il forte eroe”, una
volta, laggiú al campo, merita ascoltarlo. Tutto assorto in qualche idea s’era
piantato ritto lí, fino dall’alba, meditando; e poiché non ne veniva a capo,
continuava, ritto in piedi, la sua ricerca. E già era mezzogiorno e alcuni
uomini se n’erano accorti e meravigliati dicevano l’un l’altro: “Socrate se ne
sta lí impalato dall’alba in un qualche pensiero”. Alla fine, alcuni Ioni,
scesa la sera, dopo aver cenato – poiché allora era estate – portarono fuori i
giacigli e si misero a riposare all’aperto e nello stesso tempo a controllare
se stesse piantato là tutta la notte. Ed egli vi stette finché fu l’alba e si
levò il sole. Allora si mosse e se ne andò dopo aver fatto la sua preghiera al
sole. Se poi volete, eccolo nelle battaglie, perché è giusto riconoscergli
anche questo. Quando ci fu la battaglia per la quale gli strateghi mi
decorarono al valore, nessun altro mi salvò se non lui, che non volle
abbandonarmi ferito: anzi portò in salvo le armi e me stesso. Ed io, o Socrate,
anche allora pregai gli strateghi che premiassero te: né di ciò puoi biasimarmi
né dire che sia falso. Ma gli strateghi, considerando il mio grado sociale,
volevano insignire me, e tu stesso fosti piú sollecito di loro acché le insegne
le avessi io invece che te. Ancora, amici, meritava davvero di vedere Socrate
quando l’esercito si ritirava in rotta da Delio! Mi capitò appunto di essergli
accanto, io a cavallo e lui a piedi come oplita. Si ritirava dunque, rotte le
file, insieme a Lachete: ed io mi ci imbatto contro per caso. Appena li vedo li
esorto a star sú d’animo e dico che non li abbandonerò. Qui davvero veder
Socrate era spettacolo piú bello che a Poltidea. Io avevo meno da temere perché
ero a cavallo, ma lui, innanzitutto vedevo quant’era superiore a Lachete in presenza
di spirito; e poi mi pareva che anche là camminasse come qui, Aristofane, come
tu dici “tutto gonfio e sbirciando di traverso” e squadrava con calma amici e
nemici mostrando chiaro ad ognuno anche di lontano che se qualcuno avesse
toccato quest’uomo, con gran forza si sarebbe difeso. Anche per questo si
ritiravano sicuri lui e l’altro, perché coloro che hanno quest’animo in guerra,
si può dire che non sono toccati, ma viene inseguito chi fugge in disordine. In
molte altre cose e meravigliose si potrebbe lodare Socrate, ma di altre sue
qualità si potrebbero dire le stesse cose anche di un altro, invece che egli
non somigli ad alcuno fra tutti gli uomini antichi e moderni questa è la
maggior meraviglia. Cosí le qualità di Achille si potrebbero assomigliare a
quelle di Brasida e d’altri, e quelle di Pericle a Nestore e Antenore, e non
sono i soli; e tutti gli altri potrebbero essere confrontati in questo modo. Ma
un uomo come questo qui, con le singolarità sue e dei suoi discorsi, non lo si
troverebbe che gli somigli neppur di lontano, a cercarlo fra gli uomini d’oggi
né fra quelli di ieri; a meno che non lo si paragoni, non a uomini, ma a quelli
che dicevo, ai sileni e ai satiri, lui e i suoi discorsi. Perché c’è ancora
questo, che ho tralasciato all’inizio: i suoi discorsi sono quasi identici ai
sileni che si aprono in due.
6 Chi
dunque si mette a sentire i discorsi di Socrate, sulle prime li troverebbe del
tutto ridicoli, tali sono le parole e le espressioni di cui s’avvolgono di
fuori, qualcosa come la pelle d’un satiro insolente: parla di asini bastati, di
certi fabbri, ciabattini e conciapelli e con le stesse voci pare sempre che
ripeta le stesse cose. Cosicché ogni inesperto o sciocco potrebbe riderci sopra
a questi discorsi. Ma chi li veda aperti e vi penetri dentro, troverà
innanzitutto che essi soli, fra tutti i discorsi, hanno una mente, e poi che
sono i piú divini e pieni di ogni immagine di virtú e tendono a ciò che v’è di
piú grande, anzi a tutto quanto bisogna mirare per chi vuole diventare un uomo
nobile e eccellente. Ecco, amici, ciò per cui lodo Socrate: quanto ai biasimi,
ve li detti mescolati al resto, narrando come mi ha insultato. Ma non solo me
ha trattato cosí, ma anche Carmide, figlio di Glaucone, Eutidemo di Diocle, e
moltissimi altri che egli ha ingannato facendo l’innamorato con loro e poi
finendo piuttosto come amato invece che amante. E queste cose le dico anche a
te, Agatone, perché non ti lasci ingannare da costui, ma anzi reso esperto
dalle mie sventure, te ne stia in guardia e perché non t’accada, come dice il
proverbio “d’imparare a tue spese come uno sciocco”.
(Platone, Opere, vol. I,
Laterza, Bari, 1967, pagg. 712-720)