L’ottavo libro della Repubblica prende in esame le
diverse forme di potere politico esistenti e le cause della loro degenerazione.
Proponiamo la lettura delle pagine dedicate alla democrazia. L’interlocutore di
Socrate è Adimanto.
a) la democrazia (Repubblica,
555 b-557 c, 558 c-559 d)
1 [555 b]
[...] – Dopo di che, sembra, dobbiamo esaminare la democrazia: come nasca e,
quando è nata, quale sia il suo carattere, affinché, dopo aver a sua volta
conosciuto l’indole dell’uomo democratico, possiamo porgliela accanto e
giudicare. – Certo che, rispose, questo modo di procedere sarà coerente con
quello che abbiamo seguíto finora. – Dunque, ripresi, l’oligarchia non si
trasforma in democrazia pressappoco cosí, perché si è insaziabili del bene cui
si aspira, che è diventare ricchi piú che si può? – Come? [c] – Quelli
che governano in essa [nell’oligarchia], credo, governano perché posseggono
molto e perciò non vogliono impedire legalmente a tutti i giovani dissoluti di
spendere e di dilapidare i propri beni. Lo fanno per acquistarne le sostanze,
per esercitare l’usura e diventare cosí ancora piú ricchi e onorati. – Sí, a
questo tengono piú di tutto. – E in uno stato non è evidente ormai che i
cittadini non possono pregiare la ricchezza pervenendo nel contempo a un [d]
soddisfacente grado di temperanza, ma che si trascura per forza l’una delle
due? – È abbastanza evidente, ammise. – Ora, nelle oligarchie i governanti,
poiché sono negligenti e permettono una vita dissoluta, talvolta hanno
costretto alla povertà uomini non ignobili. – Certo. – Allora costoro, credo,
se ne stanno oziosi nella città, muniti di pungiglioni e di armi: chi è carico
di debiti, chi senza diritti civili, chi poi gravato dei due mali. E pieni di odio
tramano insidie a chi ha acquistato i loro beni e agli altri, bramosi di una
rivoluzione. – È cosí. – Gli [e] uomini d’affari, a testa bassa, fanno
finta di non vederli nemmeno; e chi dei rimanenti dà via via segno di cedere,
lo feriscono buttandogli denaro e, riportando moltiplicati i frutti di quel
padre, moltiplicano nello stato i fuchi e [556 a] i poveracci. – E come
non moltiplicarli?, chiese. – Un simile funesto incendio, feci io, non vogliono
estinguerlo né come s’è detto (impedendo a uno di disporre a suo piacere dei
propri beni) né in quest’altra maniera che, con un’altra legge, permette di
risolvere la questione. – Quale legge? – Quella che segue all’altra e che
obbliga i cittadini a non trascurare la virtú. Se infatti si [b]
prescrivesse che la maggior parte dei contratti volontari venisse stipulata a
proprio rischio e pericolo, essi farebbero i loro affari nello stato con minore
spudoratezza, e meno numerosi vi sorgerebbero quei mali che or ora abbiamo
detto. – Certo, disse. – Per tutte le ragioni accennate, ripresi, ai nostri
giorni i governanti riducono cosí nello stato i governati. Se poi parliamo di
loro stessi e dei loro figli, non rendono forse i giovani persone [c]
voluttuose, schive delle fatiche fisiche e intellettuali, incapaci di sopportare
piaceri e dolori, e pigre? – Sicuramente. – E non rendono se stessi incuranti
d’altro che non sia far denari, senza curare la virtú piú di quanto la curino i
poveri? – Non se ne curano proprio. – Supponiamo dunque che, con siffatte
disposizioni, i governanti e i sudditi si trovino fianco a fianco nelle marce o
in altre azioni comuni, in sacre ambascerie o in spedizioni militari, o siano
compagni di navigazione o di milizia; o che, ancora, [d] l’un l’altro
osservandosi nel colmo del pericolo, i poveri questa volta non siano affatto
sprezzati dai ricchi, ma che spesso un povero, macilento, bruciato dal sole,
schierato in battaglia accanto a un ricco allevato nell’ombra e coperto di
abbondante carne superflua, lo veda tutto ansante e imbarazzato. Credi che il
povero non pensi allora che è la codardia di loro stessi, i poveri, ad
arricchire simili persone? e che, quando i poveri s’incontrano separatamente
tra loro, non si passino la parola dicendo: “Li abbiamo in [e] mano
nostra, perché non valgono nulla”? – Per conto mio, rispose, so bene che fanno
cosí. – Ora, come a un corpo malsano basta risentire un piccolo influsso
esterno per cadere ammalato, e talvolta si trova discorde con se stesso anche
senza cause esterne, cosí anche per lo stato che sia nella sua identica
condizione, non basta un lieve pretesto (mentre i partiti cercano alleanza
all’estero, chi da uno stato oligarchico, chi da uno democratico) per farlo
ammalare e contrastare con se stesso? e talvolta non si trova discorde anche
senza cause esterne? – Sí, e [557 a] molto. – Ora, credo, la democrazia
nasce quando i poveri, dopo aver riportata la vittoria, ammazzano alcuni
avversari, altri ne cacciano in esilio e dividono con i rimanenti, a condizioni
di parità, il governo e le cariche pubbliche, e queste vi sono determinate per
lo piú col sorteggio. – Sí, disse, cosí s’instaura la democrazia, sorga essa
per via di armi o della paura che fa recedere l’altro partito.
2 –
Ebbene, disse, in che modo si amministrano questi [b] uomini? E poi,
quale è il carattere di una simile costituzione? Un tale uomo, è chiaro, si
manifesterà un democratico. – È chiaro, rispose. – Ora, in primo luogo, non
sono liberi? e lo stato non diventa libero e non vi regna libertà di parola? e
non v’è licenza di fare ciò che si vuole? – Sí, rispose, almeno lo si dice. –
Ma dove c’è questa licenza, è chiaro che ciascuno può organizzarvisi un suo
particolare modo di vita, quello che a ciascuno piú piace. – È chiaro. – È
soprattutto in [c] questa costituzione, a mio avviso, che si troveranno
uomini d’ogni specie. – E come no? – Forse, ripresi, tra le varie costituzioni
questa è la piú bella. Come un variopinto mantello ricamato a fiori di ogni
sorta, cosí anche questa, che è un vero mosaico di caratteri, potrà apparire
bellissima. E bellissima, continuai, saranno forse molti a giudicarla, simili
ai bambini e alle donne che contemplano gli oggetti di vario colore. –
Certamente, [d] ammise. –
3 [...]
– Considera ora, feci io, quale è, individualmente, l’uomo democratico. Non
dobbiamo anzitutto esaminare, come abbiamo fatto per la costituzione, in che
modo si forma? – Sí, disse. – Non forse cosí? Quell’individuo parsimonioso e
oligarchico avrà bene, credo, un [d] figlio allevato dal padre nei suoi
propri sentimenti morali, no? – Certamente. – Anch’egli, dunque, governerà con
la forza i piaceri che insorgono in lui, tutti quelli che comportano spese
senza procurare beneficio finanziario, e che sono detti superflui. – È chiaro,
rispose. – Ebbene, ripresi, per evitare una discussione oscura, vuoi che
definiamo prima gli appetiti necessari e i superflui? – Voglio, sí, disse. –
Non sarà giusto chiamare necessari quelli che non riusciamo a stornare via [e]
e tutti quelli che, se soddisfatti, ci danno dell’utile? Perché la nostra
natura è forzata a sentire tutte due queste specie di appetiti. No? –
Certamente. – Sarà giusto [559 a] che li qualifichiamo “necessari”. –
Giusto. – E quelli di cui ci si potrebbe liberare se ci si stesse attenti fin
da giovani, e che con la loro presenza non danno luogo a bene alcuno, e taluni
anzi a un male? Se li dicessimo tutti superflui, non avremmo ragione? –
Ragione. – Vogliamo ora scegliere un esempio da ambedue le categorie, per
farcene un concetto generale? – Dobbiamo, sí. – Ebbene, il desiderio di
mangiare fino al punto di conservare salute e di sentirsi bene, limitatamente a
pane e [b] companatico, non sarà un appetito necessario? – Credo di sí.
– La voglia del pane, ad ogni modo, è necessaria per due ragioni: è utile ed è
condizione indispensabile di vita. – Sí. – E necessaria è quella del
companatico, se giova a sentirsi bene. – Senza dubbio. E l’appetito che non si
limita a pane e companatico e che comprende anche cibi diversi da questi, e
che, se frenato ed educato fin da giovani, può essere allontanato dalla maggior
parte della gente? quell’appetito che, come nuoce al corpo, cosí nuoce
all’anima tanto per l’intelligenza quanto [c] per la temperanza? Non è
giusto dirlo superfluo? – Giustissimo. – Possiamo dunque affermare che gli
appetiti superflui fanno spendere e i necessari danno profitto, perché ci
giovano nel nostro operare? – Certamente. – Diremo lo stesso per quelli d’amore
e per gli altri? – Lo stesso. – E con colui che or ora chiamavamo fuco, non
intendevamo dire chi raccoglie in sé un mucchio di simili piaceri e appetiti ed
è governato dai superflui? e con parsimonioso e oligarchico chi è governato [d]
dai necessari? – Sicuramente.
4 –
Ebbene, ripresi, ripetiamo come dall’oligarchico nasce il democratico. Mi
sembra che per lo piú nasca cosí. – Come? – Quando un giovane, allevato come or
ora dicevamo, senza cultura e nella parsimonia, comincia a gustare il miele dei
fuchi e frequenta fiere focose e terribili, capaci di escogitare piaceri d’ogni
sorta, svariati e in fogge diverse, credi pure che a questo punto [e] la
sua intima <natura> oligarchica comincia a trasformarsi in democratica. –
Per forza, rispose. – Ora, come si trasformava lo stato per l’aiuto che un
alleato esterno dava al partito avversario per effetto della loro mutua
somiglianza, non si trasforma cosí anche il giovane se una delle due specie di
appetiti che sono in lui riceve a sua volta un aiuto esterno da una specie
congenere e simile? – Senz’altro. – E se, a mio avviso, la parte oligarchica
che è in lui riceve aiuto in senso opposto da qualche suo alleato (come possono
essere il padre o gli altri [560 a] familiari con le loro ammonizioni e
rampogne), ecco che nascono allora in lui sommossa, controsommossa e battaglia
contro se stesso. – Certamente. – Talvolta, immagino, è la parte democratica
che ha ceduto all’oligarchica. Alcuni appetiti sono stati distrutti, altri
cacciati via, perché nell’anima del giovane è nato un certo pudore; e cosí il
buon ordine si è ristabilito in lui. – Sí, ammise, qualche volta succede. – Ma
un’altra volta, credo, altri appetiti dello stesso genere di quelli cacciati
via, man mano alimentati, si sono moltiplicati e fatti vigorosi perché il [b]
padre non ha saputo educare. – Di solito succede cosí, rispose. – Allora hanno
trascinato il giovane nelle medesime compagnie e con unioni furtive si sono
assai moltiplicati. – Sicuro. – E infine, immagino, hanno conquistato
l’acropoli dell’anima sua, accorgendosi che è totalmente senza cultura, nobili
studi e veri discorsi, i quali appunto costituiscono ottime scolte e guardie
nei [c] pensieri di uomini cari agli dèi. – Sí, certo, rispose. – Allora
discorsi e opinioni false e proprie di ciarlatani, credo, correndo su al loro
posto, hanno occupato in tale persona
il luogo che sarebbe spettato a quelli. – È proprio cosí, disse. – E il
giovane, ritornato presso quei Lotòfagi, non abita apertamente con loro? E se i
suoi familiari tentano di dare qualche aiuto alla parte parsimoniosa dell’anima
sua, quei discorsi ciarlataneschi non sbarrano le porte del regale castello in
lui, senza lasciar passare quell’alleanza stessa e senza accogliere come [d]
ambasciatori i discorsi di privati piú anziani? e non vincono loro la
battaglia? e non cacciano in disonorevole esilio il pudore chiamandolo
dabbenaggine, e non espellono la temperanza dicendola viltà e coprendola di
improperi? e, sostenuti da molti e vani appetiti, non mettono al bando la
moderazione e lo spendere modico facendoli passare per rusticità e grettezza? –
Proprio cosí. – E quando hanno vuotato e purificato di tutto ciò l’anima di
colui su [e] cui dominano e che iniziano a grandi mistici riti, eccoli
subito dopo ricondurre con imponente corteo, risplendenti e coronate, la
tracotanza, l’anarchia, la [561 a] sregolatezza e l’impudenza; e le
esaltano con belle parole, chiamando la tracotanza buona educazione, l’anarchia
libertà, la sregolatezza magnificenza, l’impudenza coraggio. Non è pressappoco
cosí, continuai, che da persona allevata tra appetiti necessari un giovane si
trasforma sino a liberare e scatenare i piaceri superflui e vani? – Certo,
disse, è pienamente evidente. – Dopo di che, immagino, un tale individuo vive
spendendo per i piaceri necessari tanto denaro, fatica e tempo quanto ne spende
per i superflui. Se però è fortunato e non indulge a frenesia smodata, e [b]
se, un po’ anche per l’età, quando è passato il colmo del tumulto, raccoglie
nuclei di esiliati e non si lascia guidare completamente dai nuovi venuti,
allora egli equilibra pressappoco i piaceri e tira avanti, affidando il governo
di sé a quel piacere che volta a volta si presenti, come fosse la sorte a
decidere, finché se ne sente sazio; e poi a un altro, senza spregiarne alcuno,
ma nutrendoli tutti ugualmente. – Senza dubbio. – E, continuai, senza
accogliere e lasciar entrare nella rocca il discorso vero: se gli si dice [c]
che alcuni piaceri sono propri degli appetiti nobili e buoni, e altri di quelli
malvagi, e che bisogna coltivare e onorare i primi ma reprimere e soggiogare i
secondi, in tutti questi casi fa segno di no e dice che tutti i piaceri sono
simili e meritevoli di eguale onore. – Sí, rispose, quando uno si trova in
questo stato d’animo, si comporta proprio cosí. – E poi, ripresi, vive giorno
per giorno compiacendo cosí il primo appetito che capita: ora si sbornia e
suona l’aulós per poi bere acqua e dimagrire, ora fa ginnastica [d]
per poi rimanersene pigro e noncurante di tutto, ora fa mostra d’interessarsi
di filosofia. Spesso si dà alla politica e salta su a dire e a fare qualunque
cosa gli passi per la testa; e se mai invidia uomini di guerra, eccolo volgersi
da questa parte, se affaristi, da quest’altra; e per la sua vita non conosce né
ordine né necessità alcuna, ma chiama dolce, libera e beata questa sua vita e
la pratica sempre. – Hai descritto perfettamente, disse, la [e] vita di
un uomo egualitario. – E la credo multiforme, feci io, e piena di infiniti
caratteri, e credo anche che quest’uomo sia l’individuo bello e variopinto che
somiglia a quello stato: per la sua vita molti uomini e donne potrebbero
invidiarlo, perché porta in sé numerosissimi modelli di costituzioni e di
indoli umane. – È cosí, rispose. – [562 a] Ebbene, un tale uomo possiamo
giustapporlo alla democrazia, poiché è giusto chiamarlo democratico? – Sí,
possiamo, ammise. [...]
(Platone, Opere, vol. II, Laterza, Bari, 1967, pagg.
382–390)
b) la tirannide (Repubblica,
562a-566d)
1 [562 a]
[...]– E ora, ripresi, ci resterebbero da esaminare la piú bella costituzione e
il piú bel tipo umano, ossia tirannide e tiranno. – Precisamente. – Su, caro
amico, qual è il carattere della tirannide? È pressoché chiaro che risulta da
una trasformazione della democrazia. – È chiaro. – Ora, non nascono in maniera
pressappoco [b] identica la democrazia dall’oligarchia e la tirannide
dalla democrazia? – Come? – Quel bene, dissi, che i cittadini si erano proposti
come obiettivo e che comportava l’instaurazione dell’oligarchia, era la
ricchezza eccessiva, non è vero? – Sí. – A rovinare l’oligarchia furono dunque
l’insaziabilità di ricchezza e la noncuranza del resto, provocata
dall’avarizia. – È vero, disse. – Ora, a distruggere anche la democrazia non è
pure l’insaziabilità di ciò che essa definisce un bene? – Secondo te, che cosa
definisce cosí? – La libertà, risposi. In uno stato democratico sentirai dire
che la libertà è il [c] bene migliore e che soltanto colà dovrebbe
perciò abitare ogni spirito naturalmente libero. – Sí, ammise, è una frase
molto comune. – Ebbene, feci, come or ora stavo per dire, l’insaziabilità di
libertà e la noncuranza del resto non mutano anche questa costituzione e non la
preparano a ricorrere fatalmente alla tirannide? – Come?, chiese. – Quando,
credo, uno stato democratico, [d] assetato di libertà, è alla mercé di
cattivi coppieri e troppo s’inebria di schietta libertà, allora, a meno che i
suoi governanti non siano assai miti e non concedano grande libertà, li pone in
stato d’accusa e li castiga come scellerati e oligarchici. – Sí, si comporta
cosí, disse. – E coloro, continuai, che obbediscono ai governanti, li copre
d’improperi trattandoli da gente contenta di essere schiava e buona a nulla,
mentre loda e onora privatamente e pubblicamente i governanti che sono simili
ai governati e i governati che sono simili ai governanti. Non è inevitabile [c]
che in uno stato siffatto il principio di libertà si allarghi a tutto? – Come
no? – E cosí, mio caro, dissi, vi nasce l’anarchia e si insinua nelle dimore
private e si estende fino alle bestie. – Come possiamo dire una cosa simile?,
chiese. – Per esempio, risposi, nel senso che il padre si abitua a rendersi
simile al figlio e a temere i figlioli, e il figlio simile al padre e a non
sentire né rispetto né timore dei genitori, per poter essere libero; e che il
meteco si parifica al cittadino e il cittadino al meteco, e [563 a] cosí
dicasi per lo straniero. – Sí, avviene cosí, rispose. – A questo si aggiungono,
ripresi, altre bagattelle, come queste: in un simile ambiente il maestro teme e
adula gli scolari, e gli scolari s’infischiano dei maestri e cosí pure dei
pedagoghi. In genere i giovani si pongono alla pari degli anziani e li emulano
nei discorsi e nelle opere, mentre i vecchi accondiscendono ai giovani e si [b]
fanno giocosi e faceti, imitandoli, per non passare da spiacevoli e dispotici.
– Senza dubbio, disse. – Però, mio caro, feci io, l’estremo della libertà cui
la massa può giungere in un simile stato si ha quando uomini e donne comperati
sono liberi tanto quanto gli acquirenti. E quasi ci siamo scordati di dire
quanto grandi siano la parificazione giuridica e la libertà nei rapporti
reciproci tra uomini e [c] donne. – Ebbene, fece, con Eschilo non
“diremo quel che ora è venuto alle labbra”? – Senza dubbio, risposi, cosí dico
anch’io. Consideriamo le bestie soggette agli uomini: nessuno potrà
persuadersi, senza farne esperienza, di quanto siano piú libere qui che in un altro
stato. Le cagne, per stare al proverbio, sono esattamente come le loro padrone;
e ci sono cavalli e asini che, abituati a camminare in piena libertà e
solennità, cozzano per le strade contro i passanti, se non si scansano. E
dappertutto [d] c’è questa libertà. Mi stai raccontando proprio il mio
sogno, rispose; quando vado in campagna, questo caso mi succede spesso. – Ora,
ripresi, non pensi quanto l’anima dei cittadini si lasci impressionare dal
sommarsi di tutte queste circostanze insieme raccolte, al punto che uno, se gli
si prospetta anche la minima schiavitú, si sdegna e non la tollera? E tu sai
che finiscono con il trascurare [e] del tutto le leggi scritte o non
scritte, per essere assolutamente senza padroni. – Certo che lo so, disse.
2 –
Ecco dunque, mio caro, ripresi, qual è a mio parere l’inizio, bello e
gagliardo, donde viene la tirannide. – Gagliardo, sí, rispose; ma che cosa
viene poi? – Quell’identico morbo, dissi, che, sorto nell’oligarchia, l’ha
portata a rovina, sorge anche nella democrazia nascendo dalla licenza, e, piú
intenso e forte, la riduce schiava. In realtà ogni eccesso suole comportare una
grande trasformazione nel senso opposto: cosí nelle stagioni come nelle piante
e [564 a] nei corpi e anche, in sommo grado, nelle costituzioni. – È
naturale, disse. – L’eccessiva libertà, sembra, non può trasformarsi che in
eccessiva schiavitú, per un privato come per uno stato. – È naturale, sí. – È
naturale quindi, continuai, che la tirannide non si formi da altra costituzione
che la democrazia; cioè, a mio avviso, dalla somma libertà viene la schiavitú
maggiore e piú feroce. – È logico, ammise. – Però, risposi, secondo me non
domandavi questo. Tu chiedevi quale sia il morbo che, [b] nascendo
identico nella democrazia e nell’oligarchia, riduce schiava la prima. – Dici il
vero, ammise. – Ebbene, ripresi, parlando di quel morbo intendevo dire la
classe degli uomini oziosi e spendaccioni. Di essi il gruppo piú coraggioso
dirige, il piú codardo segue; e sono quelli che paragonavamo a fuchi, gli uni
forniti, gli altri sforniti di pungiglioni. – E con ragione, rispose. – Ora,
feci io, questi due gruppi, quando sorgono, producono turbamenti in qualunque
costituzione, come nel corpo il catarro e la bile; e il bravo medico e il bravo
legislatore [c] di uno stato, non meno che l’apicultore sapiente, devono
fare attenzione per tempo a questi due mali, cercando anzitutto che non
insorgano, e, se insorgono, che siano tagliati via al piú presto insieme con i
favi stessi. – Sí, per Zeus, disse, senz’altro. – Ebbene, feci io, affrontiamo
cosí la questione, per vedere meglio il nostro obiettivo. – Come? – Dividiamo,
a parole, uno stato democratico in tre parti. Del resto è cosí nella realtà. [d]
La prima è, se non erro, la classe di cui s’è detto: essa vi si forma, non meno
che nello stato oligarchico, a causa della licenza. – È cosí. – Però in questo
stato essa è molto piú fiera che in quello. – Come? – Mentre nell’oligarchia,
sprezzata com’è e tenuta lontana dai pubblici uffici, è fuori esercizio e
snervata, nella democrazia essa forma, con poche eccezioni, l’elemento
predominante; ed è la sua parte piú fiera che parla e agisce, mentre il resto,
seduto attorno alle tribune, rumoreggia senza tollerare chi parli diversamente:
cosí, in una simile [e] costituzione, ogni cosa, con poche eccezioni, è
amministrata da questa classe. – Sí, certo, fece egli. – Inoltre dalla massa
popolare si distingue sempre un’altra classe. – Quale? – Tra tutti coloro che
s’industriano a far denari, per lo piú divengono molto ricchi quelli che per
natura sono i piú ordinati. – È naturale. – Ora, a mio parere, è di qui che i
fuchi possono cavare moltissimo miele, e con grande comodità. – E come si
potrebbe cavarne, rispose, da chi ne possiede poco? – Allora, credo, sono
questi ricchi che vengono detti pastura di fuchi. – In genere sí, ammise.
3 [565 a]
– La terza classe poi è il popolo: tutti coloro che lavorano per sé e si
astengono dalla vita politica, gente che possiede ben poco. Questa classe
forma, in democrazia, il gruppo piú numeroso e sovrano, tutte le volte che
viene radunata. – Sí, disse; ma non vuole farlo spesso, a meno che non ottenga
una parte di miele. – Beh!, feci io, l’ottiene sempre, quel tanto che resta
dopo che i capi, sottraendo il patrimonio a chi possiede e distribuendolo al
popolo, si sono fatti la parte del leone. – Sí, [b] ammise, l’ottiene
cosí. – Ora, credo, i colpiti dalle sottrazioni sono costretti a difendersi,
parlando e agendo come possono davanti al popolo. – E come no? – E allora,
anche se non aspirano a rivoluzioni politiche, sono accusati dagli altri
d’insidiare il popolo e di essere oligarchici. – Sicuramente. – E infine,
poiché vedono il popolo accingersi a fare loro ingiustizia non di [c]
proposito, ma perché ignorante e ingannato dai calunniatori, ecco che, volenti
o nolenti, diventano veramente oligarchici: non deliberatamente, perché anche
questo male è generato dalle punture di quel fuco. – Precisamente. – Sorgono
dunque denunce, giudizi e dibattiti reciproci. – Certo. – Ora, il popolo non è
sempre solito mettere alla propria testa, in posizione eminente, un solo
individuo, mantenerlo, farlo crescere e ingrandire? – Sí, è solito [d]
farlo. – Allora è chiaro, feci io, che, tutte le volte che nasce un tiranno,
esso spunta dalla radice del protettore, e non da altra parte. – È molto
chiaro. – Come s’inizia dunque la trasformazione da protettore a tiranno? Non è
chiaro che s’inizia quando il protettore comincia a comportarsi come è
detto nel mito che si racconta sul tempio
di Zeus Liceo nell’Arcadia? – Quale mito?, chiese. – Chi ha gustato il viscere
umano spezzettato e mescolato tra i visceri di altre vittime, diventa [e]
inevitabilmente lupo. Non hai sentito la storia? – Io sí. – Non è cosí anche di
chiunque si trovi a proteggere il popolo e disponga di una massa molto
remissiva e non si astenga dal sangue dei compatrioti ma li trascini nei
tribunali coprendoli di ingiuste accuse, come appunto amano fare? e si macchi
di omicidio sopprimendo una vita umana, gustando con empie labbra e lingua il
sangue di un familiare? e condanni all’esilio e alla morte, e faccia [566 a]
sperare rescissioni di debiti e ridistribuzione di terra? Ebbene, dopo aver
fatto questo, un simile individuo non dovrà fatalmente perire per mano nemica o
essere tiranno e da uomo divenire lupo? – Per forza, rispose. – È costui,
dunque, continuai, che eccita la rivolta contro i capitalisti. – Lui, sí. – E
se viene bandito e ritorna nonostante l’opposizione degli avversari, non
ritorna perfetto tiranno? – È chiaro. – Se poi non riescono a [b] cacciarlo
via o a farlo condannare a morte con calunnie che lo screditano davanti alla
cittadinanza, complottano di farlo perire di nascosto, di morte violenta. – Di
solito accade proprio cosí, ammise. – Ecco allora giunto il momento in cui
tutti coloro che si sono spinti innanzi fino a questo limite avanzano la ben
nota richiesta propria del tiranno: domandano al popolo guardie del corpo per
assicurare l’incolumità del suo protettore, nell’interesse del popolo stesso. –
Certo, rispose. – E il popolo gliele concede, m’immagino, pieno di timore per
lui e di fiducia[c] per sé. – Certamente. – Ebbene, quando un uomo
danaroso che, oltre ai denari, ha taccia di essere avverso al popolo, vede
questa situazione, conforme al vaticinio ricevuto da Creso egli allora, amico
mio,
lungo
l’Ermo ghiaioso
sen fugge, senza fermarsi e senza vergogna
d’essere vile.
4 – Sí,
disse, non potrebbe vergognarsene una seconda volta. – Certo, credo, feci io;
se catturato, viene giustiziato. – Per forza. – Ed è chiaro dunque che quel protettore
non giace “grande in grande spazio”, [d] ma che, dopo aver gettato giú
molti altri, se ne sta ritto sul cocchio dello stato, da protettore fattosi
tiranno completo. – Farà certo cosí, ammise.
(Platone, Opere, vol. II, Laterza, Bari, 1967,
pagg. 390-395)