Il passo è tratto dal quinto libro
della Repubblica,
nel quale Platone dà una definizione del filosofo come amante della Verità, cui
fa seguire la distinzione fra “scienza” (gnôsis), “ignoranza” (agnosía)
e “opinione” (dóxa), e tra “filosofi” e “filodossi”. A quest’ultima si
riferiscono le righe che seguono. L’interlocutore di Socrate è Glaucone.
Repubblica, 475 e-480 a
1 [475 e] [...] [Glaucone] Ma
quali sono per te i veri filosofi?, chiese. – Quelli, feci io, che amano
contemplare la verità. – Anche in questo, ammise, hai ragione; ma che intendi
dire? – Non è facile rispondere, ripresi, davanti a un’altra persona, ma credo
che sarai d’accordo con me su questo. – Su che cosa? – Che bello e brutto,
essendo opposti, [476 a] sono cose distinte. – Come no? – E se sono due,
ciascuna di esse non sarà anche una? – Giusto anche questo. – Lo stesso
discorso vale per il giusto e l’ingiusto, per il bene e il male, e per ogni
altra idea: ciascuna in sé è una, ma, comparendo dovunque in comunione con le
azioni, con i corpi e l’una con l’altra, ciascuna si manifesta come
molteplice. – Hai ragione, disse. – Ecco dunque la mia distinzione, feci io; da
un lato metto gli individui che or ora dicevi amatori di spettacoli, amanti delle
arti e uomini di azione; dall’altro quelli di cui stiamo [b] parlando,
gli unici che si potrebbero dire rettamente filosofi. – Come dici?, chiese. –
Secondo me, risposi, gli amanti delle audizioni e degli spettacoli amano i bei
suoni, i bei colori, le belle figure e tutti gli oggetti che risultano composti
di elementi belli; ma il loro pensiero è incapace di vedere e di amare la
natura della bellezza in sé. – È cosí, appunto, rispose. – E coloro che sono
capaci di giungere alla bellezza in sé e di vederla unicamente come [c]bellezza
non saranno rari? – Certamente. – Chi dunque riconosce che esistono oggetti
belli, ma non crede alla bellezza in sé e, pur guidato a conoscerla, non è
capace di tenere dietro alla sua guida, ti sembra che viva in sogno o sveglio?
Su, esamina. Sognare non vuole dire che uno, sia dormendo sia vegliando, crede
che un oggetto somigliante a una cosa non è simile, ma identico a ciò cui
somiglia? – Io direi proprio, fece, che una tale persona sta sognando. – E chi
invece crede all’esistenza del bello in sé ed è [d] capace di
contemplare sia questo bello sia le cose che ne partecipano, e non identifica
le cose belle con il bello in sé né il bello in sé con le cose belle, costui ti
sembra che viva sveglio o in sogno? – Sveglio, certamente, rispose. – E il suo
pensiero, in quanto pensiero di uno che conosce, non avremmo ragione di
chiamarlo conoscenza? e quello di un altro, in quanto pensiero di uno che
opina, opinione? – Senza dubbio. – E se costui al quale attribuiamo opinione e
non conoscenza, si arrabbiasse con noi e [e] sostenesse che non diciamo
il vero? Potremo un po’ calmarlo e persuaderlo con le buone, nascondendogli la
sua infermità mentale? – Sí, rispose, è nostro dovere. – Su dunque, esamina che
cosa gli diremo; o vuoi che, dicendogli che nessuno gli invidia ciò che
eventualmente sappia, e che anzi saremmo lieti di trovare chi sappia qualcosa,
lo interroghiamo cosí: “Su, rispondi a questa nostra domanda: chi conosce,
conosce qualcosa o niente?”. Rispondimi tu al suo posto. – Risponderò, disse,
che conosce qualcosa. – Una cosa che è o una che non è? – Che è: come potrebbe
conoscerne una che non è? [477 a] – Ecco dunque un punto bene acquisito,
anche se piú volte ripetessimo il nostro esame: ciò che è in maniera perfetta è
perfettamente conoscibile, ma ciò che assolutamente non è, è completamente
inconoscibile. – Conclusione perfettamente soddisfacente. – Bene: ma se una
cosa è tale da essere e non essere nello stesso tempo, non sarà intermedia tra
ciò che assolutamente è e ciò che non è in nessun modo? – Intermedia. – Ora, la
conoscenza non si riferisce a ciò che è, e la non conoscenza, necessariamente,
a ciò che non è? E per questa forma intermedia non si deve cercare anche
qualcosa di intermedio [b] tra l’ignoranza e la scienza, sempre che
esista qualcosa di simile? – Senza dubbio. – E l’opinione, diciamo, è qualcosa?
– Come no? – Una facoltà diversa dalla scienza o la medesima? – Diversa. –
Quindi, a una cosa è ordinata l’opinione e a un’altra la scienza: ciascuna
secondo la facoltà sua propria. – Cosí. – Ora, per sua natura la scienza non ha
per oggetto ciò che è, ossia conoscere come è ciò che è? Mi sembra anzi che
occorra una distinzione preliminare, cosí. – Come?
2 [c] – Definiremo le facoltà un
genere di enti che permettono, sia a noi sia a qualunque altro soggetto che
possa, di fare ciò che possiamo. Dico, ad esempio, che alle facoltà
appartengono la vista e l’udito, se pur comprendi quale specie intendo dire. –
Ma sí che comprendo, rispose. – Senti dunque che cosa penso delle facoltà. Di
una facoltà io non vedo né colore né figura alcuna né alcuna simile proprietà,
come invece la vedo di molte altre cose che mi basta guardare per definirle fra
me, queste in un modo, quelle in un altro. Quanto alla facoltà, [d] ne
guardo soltanto l’oggetto e l’effetto, e in questa maniera a ciascuna facoltà
ho dato il suo nome: questa, ordinata all’identico oggetto e dotata
dell’identico effetto, la chiamo identica; quella, ordinata a un oggetto
diverso e dotata di diverso effetto, la chiamo diversa. E tu, come fai? – Cosí,
disse. – Torniamo dunque al punto, mio ottimo amico, ripresi. La scienza, per
te, è una facoltà? O come la classifichi? – Cosí, rispose, anzi tra tutte le
facoltà è la piú [e] potente. – E l’opinione, la riporteremo a una facoltà
o a un’altra specie? – Per nulla, disse; perché ciò che ci permette di opinare
non è altro che opinione. – Ma poco prima convenivi che scienza e opinione non
s’identificano. – Già, rispose, come potrebbe mai chi ha senno identificare
l’infallibile con quello che non lo è? – Bene, feci io; noi siamo evidentemente
d’accordo che [478 a] l’opinione differisce dalla scienza. – Sí, ne
differisce. – Ora, ciascuna di esse, dato che diverso è il suo potere, non ha
naturalmente un oggetto diverso? – Per forza. – E la scienza non ha per oggetto
ciò che è, ossia conoscere come è ciò che è? – Sí. – E l’opinione quello,
diciamo, di opinare? – Sí. – Conosce forse l’identico oggetto della scienza? e
l’identico sarà conoscibile e insieme opinabile? O è una cosa impossibile? –
Impossibile, rispose, in base a quello che s’è convenuto: se una facoltà, per
sua natura, ha un oggetto e un’altra un altro, e se opinione e scienza sono
ambedue facoltà e ambedue, come diciamo, [b] diverse, queste premesse
non ci autorizzano a concludere per l’identità di conoscibile e opinabile. – E
se il conoscibile è ciò che è, l’opinabile non sarà diverso da ciò che è? –
Diverso. – Ora, l’opinione opina forse ciò che non è? O è pure impossibile
opinare ciò che non è? Su, rifletti. Chi ha un’opinione non la riferisce a una
cosa? O è possibile avere un’opinione anche senza riferirla a un oggetto? –
Impossibile. – Ma chi ha un’opinione l’ha di una cosa almeno? – Sí. – D’altra
parte, a rigore, si potrebbe dire che ciò che non è, non è una cosa, ma è nulla?
– Senza dubbio. – Però a ciò che non è, non abbiamo dovuto per forza assegnare
l’ignoranza, e a ciò che è, la conoscenza? – Esattamente, disse. – Allora,
l’opinione non opina né ciò che è né ciò che non è. – No. – E l’opinione non
potrà dunque essere né ignoranza né conoscenza. – Sembra di no. – È forse al di
fuori di esse, superando in chiarezza la conoscenza o in oscurità l’ignoranza?
– Non è né questo né quello. – E allora, feci io, l’opinione ti sembra piú
oscura della conoscenza, ma piú luminosa dell’ignoranza? [d] – Sí,
certo, rispose. – E sta tra le due? – Sí. – L’opinione sarà dunque intermedia
tra scienza e ignoranza. – Precisamente. – Ma prima non affermavamo che, se una
cosa risultasse, per modo di dire, nel medesimo tempo come essere e non essere,
sarebbe intermedia tra ciò che assolutamente è e ciò che non è affatto? e che
non sarebbe l’oggetto né della scienza né dell’ignoranza, ma di ciò che
risultasse a sua volta come intermedio tra l’ignoranza e la scienza? – Giusto.
– E ora appunto non risulta intermedia tra le due quella che chiamiamo
opinione? – Sí, risulta.
3 [e] – Ci rimane dunque da scoprire,
sembra, quest’altro elemento, che partecipa insieme dell’essere e del non
essere e che, rettamente parlando, non si potrebbe dire né l’uno né l’altro in
senso assoluto, affinché, se si manifesterà, possiamo dire a buon diritto che è
l’opinabile, e assegnare quindi ai termini estremi gli estremi, agli intermedi
gli intermedi; non è cosí? – Cosí. – Con queste premesse, dirò, mi dica e mi
risponda quel bravo [479 a] uomo che non crede al bello in sé né ad
alcuna idea del bello in sé che permanga sempre invariabilmente costante; e che
invece ammette la molteplicità delle cose belle; quell’amatore di spettacoli
che non sopporta in nessun modo chi eventualmente gli vada a parlare
dell’unicità del bello e del giusto, e cosí via. Di queste molte cose belle,
diremo, ce n’è qualcuna, nostro ottimo amico, che non ti apparirà brutta? e tra le giuste qualcuna che non ti
apparirà ingiusta? e tra le pie qualcuna che non ti apparirà empia? – No,
disse, è inevitabile che le stesse [b] cose belle sotto qualche aspetto
appaiano anche brutte, e cosí tutte le altre che mi chiedi. – E le molte cose
doppie? Non appaiono tanto mezze quanto doppie? – Sicuro. – E per le cose
grandi e piccole, e per le leggere e pesanti si useranno di piú questi nomi che
diciamo che i nomi opposti? – No, rispose, ma per ciascuna andranno bene sia
questi sia quelli. – E ciascuna di queste molte cose, piuttosto che non essere,
è forse ciò che la si dice essere? – Questo, disse, sembra uno di quei giochi a
doppio senso che si fanno nei banchetti, e quell’enigma che si propone [c] ai bambini sull’eunuco e sul
colpo tirato al pipistrello, dove c’è da indovinare con quale oggetto e dove lo
colpisce. Anche queste cose sembrano a doppio senso, e di nessuna di esse si
può avere certezza che sia o non sia, né che sia le due cose insieme, né alcuna
delle due. – Ebbene, feci io, sai ciò che ne dovrai fare? Dove meglio le potrai
collocare che tra l’essere e il non essere? Perché non appariranno [d]
piú scure di ciò che non è, in quanto non ne superano il grado di non essere,
né piú luminose di ciò che è, in quanto non ne superano il grado di essere. –
Verissimo, disse. – Allora, sembra, abbiamo scoperto che i molti luoghi comuni
della maggioranza a proposito della bellezza e di tutto il resto vagano, in
certo modo, nella zona intermedia tra ciò che assolutamente non è e ciò che
assolutamente è. – L’abbiamo scoperto. – Ma prima avevamo convenuto che, se una
simile cosa fosse venuta fuori, bisognava definirla opinabile, ma non
conoscibile, perché a coglierla vagante nella zona intermedia è la facoltà
intermedia. – Sí, d’accordo. – Allora, coloro che contemplano la [e]
molteplicità delle cose belle, ma non vedono il bello in sé e non sono capaci
di seguire chi colà li guidi, e che contemplano la molteplicità delle cose
giuste, ma non il giusto in sé, e cosí via, diremo che su tutto hanno opinioni,
senza però conoscere niente di quello che opinano. – È una conclusione
necessaria, disse. – E coloro che contemplano le singole cose in sé, sempre
invariabilmente costanti? Non diremo che conoscono e non opinano? – conclusione
necessaria anche questa. – E non diremo pure che essi fanno festa e amano gli
oggetti della conoscenza, e gli altri [480 a] invece quelli
dell’opinione? Non ricordiamo di avere detto che questi ultimi amano e
apprezzano belle voci, bei colori e simili cose, ma non tollerano affatto che
il bello in sé sia una cosa reale? – Ce ne rammentiamo. – Sbaglieremo dunque se
li chiameremo amanti d’opinione, cioè filodossi, anziché amanti di sapienza,
cioè filosofi? E se la prenderanno molto con noi se li definiremo cosí? – No,
se mi danno retta, rispose; ché non è lecito prendersela per ciò che è vero. –
E quelli che amano ciascuna cosa che è, essa per se stessa, li dobbiamo
chiamare filosofi, ma non filodossi? – Senz’altro. [...]
(Platone, Opere, vol. II,
Laterza, Bari, 1967, pagg. 300-305)