Platone descrive il cammino che si
deve compiere per raggiungere l’Idea del Bello. Esso parte dalla bellezza
fisica e, attraverso sei tappe, giunge all’Idea di Bellezza. Socrate sta
riferendo il discorso che gli ha fatto Diotima di Mantinea sull’amore.
Simposio, 209 e-212 c
1 [209 e]
[...] “Ora, o Socrate, fino a questo punto dei misteri d'amore forse anche tu
potresti essere iniziato; ma [210 a] quanto alla perfezione e alla
rivelazione, ai quali mirano questi primi, se si procede giustamente, non so se
ne saresti capace. Comunque io te ne parlerò con tutta la premura possibile.
Cerca di seguirmi, se puoi. Chi vuol rettamente procedere a questo fine” disse
“conviene che fin da giovane cominci ad accostarsi ai bei corpi e dapprima, se
il suo iniziatore lo inizia bene, conviene che s'affezioni a quella persona
sola e con questa produca nobili ragionamenti; ma in seguito deve comprendere
che la bellezza di un qualsiasi [b] corpo è sorella a quella di ogni
altro e che, se deve perseguire la bellezza sensibile delle forme, sarebbe
insensato credere che quella bellezza non sia una e la stessa in tutti i corpi.
Convinto di ciò deve diventare amoroso di tutti i bei corpi e allentare la
passione per uno solo, spregiandolo e tenendolo di poco conto. Dopo ciò giunga
a considerare che la bellezza delle anime è piú preziosa di quella del corpo,
cosicché se qualcuno ha l'anima buona ma il corpo fiorisca di poca bellezza,
egli ne sia pago lo [c] stesso, lo ami, ne sia premuroso, e produca e
ricerchi ragionamenti tali da rendere migliori i giovani per esser poi spinto a
contemplare la bellezza nelle attività umane e nelle leggi, e a vedere come
essa è dappertutto affine a se stessa finché non si convinca che la bellezza
del corpo è ben piccola cosa. Ma dopo le attività umane, l'iniziatore lo deve
condurre alle varie scienze perché veda ancora la loro bellezza e, ormai fatto
l'occhio a una bellezza cosí vasta, non [d] sia piú affezionato, come un
servo di casa, a un solo aspetto della bellezza, di un fanciullo o di un uomo,
o di una sola attività, né sia piú, come un servo, sciocco e frivolo, ma,
rivolto a contemplare il vasto mare della bellezza, cavi fuori da sé un gran
numero di nobili ragionamenti e splendidi pensieri, nell'illimitata aspirazione
alla sapienza, finché, rinvigoritosi e sviluppatosi, possa scorgere una scienza
unica e siffatta che è la scienza delle bellezze che ti dirò. Sforzati [e]
ora di offrirmi il massimo della tua attenzione.
2 Chi sia stato educato fin qui nelle
questioni d’amore attraverso la contemplazione graduale e giusta delle diverse
bellezze, giunto che sia ormai al grado supremo dell’iniziazione amorosa,
all’improvviso gli si rivelerà una bellezza meravigliosa per sua natura, quella
stessa, o [211 a] Socrate, in vista della quale ci sono state tutte le
fatiche di prima: bellezza eterna, che non nasce e non muore, non s’accresce né
diminuisce, che non è bella per un verso e brutta per l’altro, né ora sí e ora
no; né bella o brutta secondo certi rapporti; né bella qui e brutta là, né come
se fosse bella per alcuni, ma brutta per altri. In piú questa bellezza non gli
si rivelerà con un volto né con mani, né [b] con altro che appartenga al
corpo, e neppure come concetto o scienza, né come risedente in cosa diversa da
lei, per esempio in un vivente, o in terra, o in cielo, o in altro, ma come
essa è per sé e con sé, eternamente univoca, mentre tutte le altre bellezze
partecipano di lei in modo tale che, pur nascendo esse o perendo, quella non
s’arricchisce né scema, ma rimane intoccata. Ecco che quando uno partendo dalle
realtà di questo mondo e proseguendo in alto attraverso il giusto amore dei
fanciulli, comincia a penetrare questa bellezza, non è molto lontano dal
toccare il suo fine. [c] Perché questo è proprio il modo giusto di
avanzare o di essere da altri guidato nelle questioni d’amore: cominciando
dalle bellezze di questo mondo, in vista di quella ultima bellezza salire
sempre, come per gradini, da uno a due e da due a tutti i bei corpi e dai bei
corpi a tutte le belle occupazioni, e da queste alle belle scienze e dalle
scienze giungere infine a quella scienza che è la scienza di questa stessa
bellezza, e conoscere all’ultimo gradino ciò che [d] sia questa bellezza
in sé. Questo è il momento della vita, caro Socrate – continuava la forestiera
di Mantinea –, o mai piú altro, degno di vita per l’uomo, quando contempli la
bellezza in sé. Che se un giorno mai tu la scorga, ella non ti parrà da
commisurarsi con la ricchezza o il lusso, o gli stupendi fanciulli e giovani,
vedendo i quali ora rimani smarrito, e sei pronto, tu e molti altri, pur di
tener gli occhi addosso sui vostri amori e di starvene insieme, a non mangiare,
se fosse possibile, a non bere, ma solo a contemplarli e a conviverci. Che cosa
allora dovremmo pensare, [e] se capitasse ad uno di vedere la bellezza
in sé, pura, schietta, non tocca, non contagiata da carne umana né da colori,
né da altra vana frivolezza mortale, ma potesse contemplare la stessa bellezza
divina nell’unicità della sua forma? [212 a] Forse credi che sia una
vita da sciocco quella di un uomo che tenga lo sguardo su di lei e la contempli
con il mezzo che le conviene e viva insieme a lei? O non pensi che solo qui,
mirando la bellezza per mezzo di ciò per cui è visibile, potrà produrre non
simulacri di virtú, in quanto non è a contatto di un simulacro, ma virtú vera,
perché è a contatto col vero; e che avendo dato alla luce e coltivato vera
virtú, potrà riuscire caro agli dèi e, se mai altro uomo lo [b] divenne,
immortale? – Proprio cosí, o Fedro e voi altri tutti, parlava Diotima ed ella
m’ha convinto. E cosí persuaso cerco di persuadere anche gli altri che per
questo acquisto non sarebbe facile alla natura umana trovare un aiuto migliore
di Amore. Ecco perché io dico che ogni uomo ha il dovere di tenere caro Amore
ed io stesso onoro la sua disciplina, e particolarmente la esercito mentre
esorto anche gli altri, ed ora e sempre lodo la potenza e la forza di Amore,
per quanto ne sono capace. Ecco dunque, o [c] Fedro, considera questo
discorso, se vuoi, detto come encomio di Amore; se no, chiamalo come ti piace.
[...]
(Platone, Opere, vol. I,
Laterza, Bari, 1967, pagg. 706-709)