Nel pensiero di Platone l’uomo
costituisce un ponte fra il mondo sensibile e il Mondo delle Idee: l’anima
dell’uomo, precipitata sulla Terra dal Mondo iperuranio, riacquista le ali
grazie a Éros, e
può tornare a contemplare la perfezione delle Idee. L’imperfezione del mondo
sensibile giustifica la difficile e drammatica riconquista del Cielo da parte
degli uomini; la perfezione delle Idee e del loro mondo non giustifica
l’esistenza del mondo sensibile. Nel Timeo Platone spiega il “mito
verosimile” del Demiurgo, la cui azione ordinatrice collega il Mondo delle Idee
al mondo fisico, trasformandolo da materia informe in kósmos, anzi, in
un “essere vivente”.
Timeo, 27 c-31 b
1 [27 c] Timeo – Ma tutti, o
Socrate, anche se poco assennati, nel tentare qualsiasi impresa, o piccola o
grande, sempre invocano qualche dio. E noi che siamo per parlare dell’universo,
com’è nato o se anche è senza nascimento, se proprio non deliriamo, è
necessario che, invocando gli dèi e le dee, li preghiamo che ci facciano dire
ogni cosa soprattutto secondo il loro pensiero e anche coerentemente [d]
a noi stessi. E cosí siano invocati gli dèi: ma bisogna invocare anche l’opera
nostra, affinché molto facilmente voi apprendiate e io pienamente vi dichiari
quel che penso degli argomenti proposti. Prima di tutto, secondo la mia
opinione, si devono distinguere queste cose. Che è quello che sempre è e non ha
nascimento, e che è quello che nasce sempre e mai non è? L’uno è apprensibile
[28 a] dall’intelligenza mediante il ragionamento, perché è sempre nello
stesso modo; l’altro invece è opinabile dall’opinione mediante la sensazione
irrazionale, perché nasce e muore, e non esiste mai veramente. Tutto quello poi
che nasce, di necessità nasce da qualche cagione, perché è impossibile che
alcuna cosa abbia nascimento senza cagione. Ora, quando l’artefice, guardando
sempre a quello che è nello stesso modo e giovandosi di cosí fatto modello,
esprime la forma e la virtú di qualche opera, questa di necessità [b]
riesce tutta bella: non bella invece, se guarda a quel ch’è nato, giovandosi
d’un modello generato. Dunque, intorno a tutto il cielo o mondo o, se voglia
chiamarsi con altro nome, si chiami pure cosí, conviene prima considerare quel
che abbiamo posto che si deve considerare in principio intorno ad ogni cosa, se
cioè è stato sempre, senz’avere principio di nascimento, o se è nato,
cominciando da un principio. Esso è nato: perché si può vedere e toccare ed [c]
ha un corpo, e tali cose sono tutte sensibili, e le cose sensibili, che son
apprese dall’opinione mediante la sensazione, abbiamo veduto che sono in
processo di generazione e generate. Noi poi diciamo che quello ch’è nato deve
necessariamente esser nato da qualche cagione. Ma è difficile trovare il fattore
e padre di quest’universo, e, trovatolo, è impossibile indicarlo a tutti.
Pertanto questo si deve [29 a] invece considerare intorno ad esso,
secondo qual modello l’artefice lo costruí: se secondo quello che è sempre
nello stesso modo e il medesimo, o secondo quello ch’è nato. Se è bello questo
mondo, e l’artefice buono, è chiaro che guardò al modello eterno: se no – ciò
che neppure è lecito dire –, a quello nato. Ma è chiaro a tutti che guardò a
quello eterno: perché il mondo è il piú bello dei nati, e dio il piú buono
degli autori. Il mondo cosí nato è stato fatto secondo modello, che si può
apprendere con la ragione e con l’intelletto, e che è sempre nello stesso modo.
E se questo sta cosí, è assoluta necessità che questo mondo [b] sia
immagine di qualche cosa. Ora in ogni questione è di grandissima importanza il
principiare dal principio naturale: cosí dunque conviene distinguere fra
l’immagine e il suo modello, come se i discorsi abbiano qualche parentela con
le cose, delle quali sono interpreti. Pertanto quelli intorno a cosa stabile e
certa e che risplende all’intelletto, devono essere stabili e fermi e, per
quanto si può, inconfutabili e immobili, e niente di tutto questo deve mancare.
Quelli poi intorno a cosa, che raffigura quel modello ed è [c] a sua
immagine, devono essere verosimili e in proporzione di quegli altri, perché ciò
che è l’essenza della generazione, è la verità alla fede. Se dunque, o Socrate,
dopo che molti han detto molte cose intorno agli dèi e all’origine
dell’universo, non possiamo offrirti ragionamenti in ogni modo seco stessi
pienamente concordi ed esatti, non ti meravigliare; ma, purché non ti offriamo
discorsi meno verosimili di quelli di qualunque altro, dobbiamo essere
contenti, ricordandoci che io che parlo e voi, giudici miei, abbiamo [d]
natura umana: sicché intorno a queste cose conviene accettare una favola
verosimile, né cercare piú in là. Socrate – Molto bene, o Timeo, e
bisogna accettarla senz’altro, come tu dici. Già abbiamo accolto il tuo
preludio con molto diletto, e ora seguitando fa che noi ascoltiamo il tuo
canto.
2 Timeo – Diciamo dunque per qual
cagione l’artefice [e] fece la generazione e quest’universo. Egli era
buono, e in uno buono nessuna invidia nasce mai per nessuna cosa. Immune dunque
da questa, volle che tutte le cose divenissero simili a lui quanto potevano. Se
alcuno accetta questa dagli uomini prudenti come la principale cagione della
[30 a] generazione e dell’universo, l’accetta molto rettamente. Perché
dio volendo che tutte le cose fossero buone e, per quant’era possibile, nessuna
cattiva, prese dunque quanto c’era di visibile che non stava quieto, ma si
agitava sregolatamente e disordinatamente, e lo ridusse dal disordine
all’ordine, giudicando questo del tutto migliore di quello. Ora né fu mai, né è
lecito all’ottimo di far altro se non la [b] cosa piú bella. Ragionando
dunque trovò che delle cose naturalmente visibili, se si considerano nella loro
interezza, nessuna, priva d’intelligenza, sarebbe stata mai piú bella di
un’altra, che abbia intelligenza, e ch’era impossibile che alcuna cosa avesse
intelligenza senz’anima. Per questo ragionamento componendo l’intelligenza
nell’anima e l’anima nel corpo, fabbricò l’universo, affinché l’opera da lui
compiuta fosse la piú bella secondo natura e la piú buona che si potesse. Cosí
dunque secondo ragione verosimile si deve dire che questo mondo è veramente un
animale animato e intelligente generato dalla provvidenza di dio. [c]
Posto ciò, occorre che passiamo in séguito a dire a somiglianza di qual animale
l’abbia fatto l’artefice. Certo non reputeremo che l’abbia fatto a somiglianza
d’alcuno di quelli che hanno forma di parte, perché niente assomigliato a cosa
imperfetta può mai esser bello: ma lo porremo somigliantissimo a quello, del
quale sono parti gli altri animali considerati singolarmente e nei loro generi.
Perché quello ha dentro di sé compresi tutti gli animali intelligibili, [d]
come questo mondo contiene noi e tutti gli altri animali visibili. E dio
volendolo rassomigliare al piú bello e al piú compiutamente perfetto degli
animali intelligibili, compose un solo animale visibile, che dentro di sé
raccoglie tutti gli animali che gli sono naturalmente affini. Ma abbiamo [31 a]
detto noi rettamente che uno è il cielo oppure era piú retto dire che sono molti
e infiniti? Uno è il cielo, se è stato fatto secondo il modello. Perché non può
essere secondo con un altro quello che comprende tutti gli animali
intelligibili: se no, a sua volta vi dovrebbe essere un altro animale, che
contenesse quei due, che sarebbero sue parti, e allora non già a quei due, ma a
quello che li contiene si direbbe piú rettamente che questo mondo somigliasse.
[b] Affinché dunque questo mondo, per esser solo, fosse simile
all’animale perfetto, per questo il fattore non fece né due né infiniti mondi,
ma v’è questo solo unigenito e generato cielo, e ancora vi sarà. [...]
(Platone, Opere, vol. II,
Laterza, Bari, 1967, pagg. 476-481)