La necessità razionale di un premio
per i giusti e di una punizione per i malvagi porta a questo mito, con cui si
conclude la Repubblica.
In esso troviamo un tentativo di spiegazione di due importanti dottrine sulla
conoscenza: quella sulla reminiscenza (conoscere come ricordare) e quella
sull’innatismo (presenza in noi di idee non derivate dall’esperienza
sensibile). Viene affermata la teoria della reincarnazione (anche in animali).
Per le anime è possibile una scelta libera solo nel primo momento della
reincarnazione, poi essa è soggetta al destino. Platone approfitta
dell’occasione per sottolineare il suo giudizio negativo sui tiranni.
Repubblica, 614 a-621 d
1 [614
a] Ecco dunque, dissi, quali sono i premi, le mercedi e i doni che il
giusto ottiene da vivo dagli dèi e dagli uomini, oltre a quei beni che la
giustizia procurava per se stessa. – Certo, ammise; beni belli e sicuri. – Ma
questo è nulla, replicai, per quantità e per grandezza, rispetto a ciò che
attende dopo la morte sia il giusto sia l’ingiusto. E bisogna parlarne, perché
ciascuno dei due riceva esattamente ciò che il discorso gli deve. – [b]
Parlane pure, rispose. Ben poche sono le cose che mi offrono maggiore diletto
quando le ascolto. – Non ti racconterò certo un apologo di Alcínoo, feci io, ma
la storia di un valoroso, Er figlio di Armenio, di schiatta panfilia. Costui
era morto in guerra e quando dopo dieci giorni si raccolsero i cadaveri già
putrefatti, venne raccolto ancora incorrotto. Portato a casa, nel dodicesimo
giorno stava per essere sepolto. Già era deposto sulla pira quando risuscitò e,
risuscitato, prese a raccontare quello che aveva veduto nell’aldilà. Ed ecco il
suo racconto. Uscita dal suo corpo, l’anima aveva camminato insieme con molte [c]
altre ed erano arrivate a un luogo meraviglioso, dove si aprivano due voragini
nella terra, contigue, e di fronte a queste, alte nel cielo, altre due. In
mezzo sedevano dei giudici che, dopo il giudizio, invitavano i giusti a
prendere la strada di destra che saliva attraverso il cielo, dopo aver loro
apposto dinanzi i segni della sentenza; e gli ingiusti invece a prendere la
strada di sinistra, in discesa. E anche questi avevano, ma sul dorso, i segni
di tutte le [d] loro azioni passate. Quando si era avanzato lui, gli
avevano detto che avrebbe dovuto descrivere agli uomini il mondo dell’aldilà, e
che lo esortavano ad ascoltare e contemplare tutto quello che c’era in quel
luogo. E lí vedeva le anime che, dopo avere sostenuto il giudizio, se ne
andavano per una delle due voragini, sia del cielo sia della terra; attraverso
le altre due passavano altre anime: dall’una, sozze e polverose, quelle che
risalivano dalla terra; dall’altra, monde, altre che scendevano dal cielo. E [e]
quelle che via via arrivavano sembravano venire come da un lungo cammino. Liete
raggiungevano il prato per accamparvisi come in festiva adunanza. E tutte
quelle che si conoscevano si scambiavano affettuosi saluti: quelle che
provenivano dalla terra chiedevano alle altre notizie del mondo celeste, quelle
che provenivano dal cielo notizie del mondo sotterraneo. Si scambiavano i
racconti, le prime [615 a] gemendo e piangendo perché ricordavano tutti
i vari patimenti e spettacoli che avevano avuti nel loro cammino sotterraneo
(un cammino millenario), mentre le seconde narravano i godimenti celesti e le
visioni di straordinaria bellezza. Molto tempo, Glaucone, occorrerebbe per i
molti particolari, ma la sostanza del suo racconto era questa: per tutte le
ingiustizie commesse e per tutte le persone offese da ciascuno, avevano pagato
la pena un caso dopo l’altro, e per ciascun caso dieci volte tanto (questo
avveniva ogni [b] cento anni, perché tale è la durata della vita umana).
Ciò perché il castigo subíto fosse il decuplo della colpa: perché ad esempio, i
responsabili della morte di molte persone per aver tradito città o eserciti, e
coloro che molte ne avessero ridotte in schiavitú o fossero stati complici di
altri misfatti, per ciascuno di tutti questi delitti riportassero sofferenze
decuple; e, viceversa, perché coloro che avessero fatto dei benefíci e fossero
stati giusti e pii, fossero premiati nella [c] medesima proporzione.
Altro diceva dei morti súbito dopo la nascita e dei vissuti breve tempo, ma
sono cose che non merita ricordare. Ancora maggiori, secondo il suo racconto,
erano le mercedi per l’empietà e la pietà verso gli dèi e i genitori e per
l’omicidio. Asseriva infatti di essersi appunto trovato accanto a uno cui un
altro chiedeva dove fosse il grande Ardieo. Questo Ardieo era stato tiranno in
una città della Panfilia, mille anni prima, e, come si [d] diceva, aveva
ucciso il vecchio padre e il fratello maggiore, e si era macchiato di molte
altre nefandezze. L’interrogato, riferiva Er, aveva risposto: “Non viene né
potrebbe venir qui”.
2 “Infatti
tra gli altri orrendi spettacoli abbiamo veduto anche questo. Come fummo presso
lo sbocco, lí lí per risalire e trovandoci ad aver subíto tutte le altre prove,
d’improvviso scorgemmo lui e altri, per lo piú tiranni, ma c’era anche gente
privata, colpevole di gravi peccati. Essi [e] credevano ormai che
sarebbero risaliti, ma lo sbocco non li riceveva, anzi emetteva un muggito ogni
volta che uno di questi scellerati inguaribili o uno che non avesse ancora
espiato nella misura dovuta tentava di salire”. Lí presso, raccontava, c’erano
uomini feroci, tutti fuoco a vedersi, che sentendo quel boato afferravano gli
uni a mezzo il corpo e li trascinavano via, ma ad Ardieo e ad altri avevano
[616 a] legato mani, piedi e testa, li avevano gettati a terra e scorticati,
e li trascinavano lungo la strada, dalla parte esterna, straziandoli su piante
di aspalato. E a coloro che via via sopraggiungevano, spiegavano quali erano le
ragioni di tutto questo aggiungendo che li conducevano via per gettarli nel
Tartaro. Laggiú, continuava, avevano provato molti terrori di ogni genere, ma
tutti li superava la paura che ciascuno aveva di sentire quel boato al momento
di salire. E ciascuno era stato molto contento di venir su senza sentirlo.
Queste erano all’incirca le pene e i castighi [b] e le corrispondenti
ricompense. Quando i singoli gruppi che si trovavano nel prato vi avevano
trascorso sette giorni, nell’ottavo dovevano levarsi di lí e mettersi in
cammino, per giungere nel quarto giorno in un luogo donde potevano scorgere,
tesa dall’alto attraverso tutto il cielo e la terra, una luce diritta come una
colonna, molto simile all’arcobaleno, ma piú intensa e piú pura. Vi erano
arrivati dopo un giorno di marcia e colà avevano veduto, [c] in mezzo
alla luce, tese dal cielo, le estremità dei suoi legami. Era questa luce a
tenere avvinto il cielo e, come le gomene esterne delle triremi, a tenere
insieme tutta la circonferenza. Alle estremità era sospeso il fuso di Ananke [la personificazione del Destino
immutabile], per il
quale giravano tutte le sfere. Il suo fusto e l’uncino erano di diamante, il
fusaiolo una mescolanza di diamante e di altre materie. Il fusaiolo aveva
questa natura: [d] per la figura era come quello che si usa in questo
nostro mondo, ma il racconto di Er deve far pensare che fosse costruito come se
entro un grande fusaiolo cavo e interamente intagliato fosse incastrato un
altro consimile, ma piú piccolo, come quei vasi che entrano esattamente l’uno [e]
nell’altro; e cosí un terzo, un quarto e altri quattro. Tutti insieme i
fusaioli erano otto, incastrati l’uno nell’altro, e superiormente mostravano i
loro orli circolari; costituivano il dorso continuo di un unico fusaiolo
accentrato sul fusto e il fusto passava da parte a parte l’ottavo fusaiolo
lungo l’asse mediano. Il primo fusaiolo, il piú esterno, aveva il cerchio
dell’orlo molto largo. Seguivano poi in ordine decrescente il sesto, il quarto,
l’ottavo, il settimo, il quinto, il terzo, il secondo. Il cerchio del maggiore
era variegato, quello del settimo lucentissimo, quello [617 a]
dell’ottavo riceveva il colore dal settimo che lo illuminava, quelli del
secondo e del quinto si somigliavano, ma erano piú gialli dei precedenti; il
terzo aveva una tinta bianchissima, il quarto rossastra, il sesto veniva al
secondo posto per bianchezza. Il fuso ruotava tutto volgendosi con moto
uniforme e nel girare dell’insieme i sette cerchi interni giravano lenti in
direzione opposta. Il piú rapido era l’ottavo, [b] secondi venivano,
tutti insieme, il settimo, il sesto e il quinto; terzo in questo moto rotatorio
era, come appariva a quelle anime, il quarto; quarto e quinto rispettivamente
il terzo e il secondo. Il fuso si volgeva sulle ginocchia di Ananke. Sull’alto
di ciascuno dei suoi cerchi stava una Sirena che, trascinata in quel movimento
circolare, emetteva un’unica nota su un unico tono; e tutte otto le note
creavano un’unica armonia. Altre tre donne sedevano in cerchio a [c]
eguali distanze, ciascuna su un trono: erano le sorelle di Ananke, le Moire, in
abiti bianchi e con serti sul capo, Lachesi Cloto Atropo. E cantavano in
armonia con le Sirene: Lachesi il passato, Cloto il presente, Atropo il futuro.
Cloto a intervalli toccava con la destra il fuso e ne accompagnava il giro
esterno, cosí come faceva Atropo con la sinistra per [d] i giri interni;
e Lachesi con l’una e con l’altra mano toccava ora i giri interni ora quello
esterno.Al loro arrivo, le anime dovevano presentarsi a Lachesi. E un araldo
divino prima le aveva disposte in fila, poi aveva preso dalle ginocchia di Lachesi
le sorti e vari tipi di vita, era salito su un podio elevato e aveva detto:
“Parole della vergine Lachesi sorella di Ananke. Anime dall’effimera esistenza
corporea, incomincia per voi un altro periodo di generazione mortale, preludio
a nuova [e] morte. Non sarà un dèmone a scegliere voi, ma sarete voi a
scegliervi il dèmone. Il primo che la sorte designi scelga per primo la vita
cui sarà poi irrevocabilmente legato. La virtú non ha padrone; secondo che la
onori o a spregi, ciascuno ne avrà piú o meno. La responsabilità è di chi
sceglie, il dio non è responsabile”. Con ciò aveva scagliato al di sopra di
tutti i convenuti le sorti e ciascuno raccoglieva quella che gli era caduta
vicino, salvo Er, cui non era permesso di farlo. Chi l’aveva raccolta vedeva
chiaramente il numero da lui sorteggiato. [618 a] Subito dopo
<l’araldo> aveva deposto per terra davanti a loro i vari tipi di vita, in
numero molto maggiore dei presenti. Ce n’erano di ogni genere: vite di
qualunque animale e anche ogni forma di vita umana. C’erano tra esse tirannidi,
quali durature, quali interrotte a metà e concludentisi in povertà, esilio e
miseria. C’erano pure vite di uomini celebri o per l’aspetto esteriore, per la
bellezza, per il [b] vigore fisico in genere e per l’attività agonistica,
o per la nascita e le virtú di antenati; e vite di gente oscura da questi punti
di vista, e cosí pure vite di donne. Non c’era però una gerarchia di anime,
perché l’anima diventava necessariamente diversa a seconda della vita che
sceglieva. Il resto era tutto mescolato insieme: ricchezza e povertà o malattie
e salute; e c’era anche una forma intermedia tra questi estremi. Lí, come
sembra, caro Glaucone, appare tutto il pericolo per l’uomo; e per questo
ciascuno [c] di noi deve stare estremamente attento a cercare e ad
apprendere questa disciplina senza curarsi delle altre, vedendo se riesce ad
apprendere questa disciplina senza curarsi delle altre, vedendo se riesce ad
apprendere e a scoprire chi potrà comunicargli la capacità e la scienza di
discernere la vita onesta e la vita trista e di scegliere sempre e dovunque la
migliore di quelle che gli sono possibili: ossia, calcolando quali effetti
hanno sulla virtú della vita tutte le cose che ora abbiamo dette, considerate
insieme o separatamente, sapere che cosa produca la bellezza mescolata a
povertà [d] o ricchezza, se cioè un male o un bene, e quale condizione
dell’anima a ciò concorra, e quale effetto producano con la loro reciproca
mescolanza la nascita nobile e ignobile, la vita privata e i pubblici uffici,
la forza e la debolezza, la facilità e la difficoltà d’apprendere, e ogni altra
simile qualità connaturata all’anima o successivamente acquisita. Cosí, tirando
le conclusioni di tutto questo, egli potrà, guardando la natura dell’anima,
scegliere una vita peggiore [e] o una vita migliore, chiamando peggiore
quella che la condurrà a farsi piú ingiusta, migliore quella che la condurrà a
farsi piú giusta. E tutto il resto lo lascerà perdere. Abbiamo veduto che è
questa la scelta migliore, da vivo [619 a] come da morto. Con questa
adamantina opinione egli deve scendere nell’Ade, per non lasciarsi neppure lí
impressionare dalle ricchezze e da simili mali, per non gettarsi sulle
tirannidi e altre condotte del genere e quindi commettere molti insanabili mali,
e per non patirne lui stesso di ancora maggiori; ma per sapere sempre scegliere
tra cotali vite quella mediana e fuggire gli eccessi nell’uno e nell’altro
senso, sia, per quanto è possibile, in questa nostra vita, sia in tutta la vita
futura. Cosí l’uomo può raggiungere [b] il colmo della felicità.
3 In
quel momento, dunque, secondo quanto narrava il nunzio che veniva di là,
l’araldo divino aveva parlato cosí: “Anche chi si presenta ultimo, purché
scelga con senno e viva con regola, può disporre di una vita amabile, non
cattiva. Il primo cerchi di scegliere con cura e l’ultimo non si scoraggi”. A
queste parole, raccontava Er, colui che aveva avuto la prima sorte si era
subito avanzato e aveva scelto la maggiore tirannide. A questa scelta era stato
spinto dall’insensatezza e dall’ingordigia, senza averne [c] abbastanza
valutato tutte le conseguenze. E cosí non s’era accorto che il fato racchiuso
in quella scelta gli riservava la sorte di divorarsi i figli, e altri mali.
Quando l’aveva esaminata a suo agio, si percoteva e si lamentava della scelta,
senza tenere presenti le avvertenze dell’araldo divino. Non già incolpava se
stesso dei mali, ma la sorte e i dèmoni, tutto insomma eccetto sé. Egli
apparteneva al gruppo che veniva dal cielo e nella vita precedente era vissuto
in un [d]8 regime ben ordinato, ma aveva acquistato virtú per abitudine,
senza filosofia. E per quanto se ne poteva dire, tra coloro che si lasciavano
sorprendere in simili imprudenze non erano i meno quelli che venivano dal
cielo: perché erano inesperti di sofferenze. Invece coloro che venivano dalla
terra, per lo piú non operavano le loro scelte a precipizio: perché avevano
essi stessi sofferto o veduto altri soffrire. Anche per questo, oltre che per
la fortuna nel sorteggio, la maggior parte delle anime permutava mali con beni
e beni con mali. Perché se uno, quando arriva a questa nostra vita, pratica
sempre sana filosofia, e se nel momento [e] della scelta la sorte non
gli cade tra le ultime, ha buone probabilità, secondo le notizie di lí riferite,
non solo di essere felice in questo mondo, ma anche di compiere il viaggio da
qui a lí e da lí a qui non per una strada sotterranea e aspra, ma liscia e
celeste. Meritava poi vedere, diceva, come le singole anime sceglievano le loro
vite. [620 a] Spettacolo insieme miserevole, ridicolo e meraviglioso! La
maggioranza sceglieva secondo le abitudini contratte nella vita precedente.
Diceva d’avere veduto l’anima che era stata un tempo di Orfeo intenta a
scegliere la vita di un cigno: non voleva nascere da grembo di donna per l’odio
che nutriva verso il sesso femminile che aveva cagionato la sua morte [disperato per non essere riuscito a
riportare dall’Ade alla vita terrena la sposa Euridice, orfeo vagava per le
montagne della Tracia sfogando il suo dolore, quando, imbattutosi in uno stuolo
di Baccanti, ne venne selvaggiamente dilaniato]; e l’anima di Tamiri [fu il primo dei cantori di corte; narrava la leggenda
che, insuperbitosi per la propria bravura, volle gareggiare con le Muse e ne fu
accecato per punizione]
scegliere la vita di un usignolo. Aveva visto anche un cigno che con la sua
scelta mutava la propria vita in quella umana, e cosí pure [b] altri
animali canori. L’anima che era stata designata ventesima dalla sorte aveva
scelto la vita di un leone: era quella di Aiace Telamonio, che rifuggiva dal
diventare uomo ricordandosi del giudizio relativo alle armi [si tratta della contesa per le armi
di Achille aggiudicate a Odisseo anziché ad Aiace che se ne riteneva piú
meritevole; di qui la ragione del corruccio dell’ombra di Aiace quando Odisseo
scende nell’Ade (Odissea, XI, 543-565)]. Dopo di lui veniva quella di Agamennone: anche questa,
per ostilità verso il genere umano dovuta alle sofferenze patite, aveva
scambiato la sua vita con quella di un’aquila. Posta dalla sorte nel gruppo di
mezzo, l’anima di Atalanta, come aveva scorto grandi onori riservati a un
atleta, non era stata capace di passare oltre e li aveva [c] raccolti [Atalanta, celebre per la velocità
nella corsa, fu vinta tuttavia da Ippomene che durante la gara le gettò
magnifiche mele che ella si fermò a raccogliere]. Dopo di lei, aveva visto l’anima di Epeo, figlio di
Panopeo [Epeo fu un
pugile che partecipò alla guerra di Troia; Omero ne ricorda l’incontro
avventuroso con Eurialo (Iliade, XXIII, 664-700) e la costruzione del
famoso cavallo di legno sotto la guida di Atena (Odissea, VIII, 492 e
segg.; XI, 523)],
assumere la natura di una donna operaia; lontano, tra gli ultimi, quella del
buffone Tersite penetrare in una scimmia [Tersite è il popolano guercio, zoppo e gobbo che vomita
ingiurie contro i comandanti greci e propone la ritirata da Troia dell’esercito
acheo, finché Odisseo non lo riduce al silenzio bastonandolo con lo scettro (Iliade,
II, 212-277)]. S’era
avanzata poi a scegliere l’anima di Odísseo, cui il caso aveva riservato
l’ultima sorte: ridotta senza ambizioni dal ricordo dei precedenti travagli, se
n’era andata a lungo in giro cercando la vita di un privato individuo schivo di
ogni seccatura. E non senza pena l’aveva [d] trovata, gettata in un
canto e negletta dalle altre anime; e al vederla aveva detto che si sarebbe
comportata nel medesimo modo anche se la sorte l’avesse designata per prima; e
se l’era presa tutta contenta. E nello stesso modo passavano dalle altre bestie
in uomini e dalle une nelle altre: le ingiuste si trasformavano in quelle
selvagge, le giuste in quelle mansuete. Si facevano mescolanze di ogni genere.
Dopoché tutte le anime avevano scelto le rispettive vite, si presentavano a
Lachesi nell’ordine stabilito dalla sorte. A ciascuno ella dava come compagno
il dèmone che quegli s’era preso, perché gli fosse guardiano durante la [e]
vita e adempisse il destino da lui scelto. Ed esso guidava l’anima anzitutto da
Cloto, a confermare, sotto la sua mano e sotto il giro del fuso, il destino che
s’era scelta dopo il sorteggio. Poi toccava questo e quindi la conduceva alla
trama tessuta da Atropo rendendo inalterabile il destino una volta filato. Di
lí senza volgersi <ciascuno> si recava sotto [621 a] il trono di
Ananke e gli passava dall’altra parte. Dopoché anche gli altri erano passati,
tutti si dirigevano verso la pianura del Lete in una tremenda calura e afa. Era
una pianura priva d’alberi e di qualunque prodotto della terra. Al calare della
sera, essi si accampavano sulla sponda del fiume Amelete, la cui acqua non può
essere contenuta da vaso alcuno. E tutti erano obbligati a berne una certa
misura, ma chi non era frenato dall’intelligenza ne beveva [b] di piú
della misura. Via via che uno beveva, si scordava di tutto. Poi s’erano
addormentati, quando, a mezzanotte, era scoppiato un tuono e s’era prodotto un
terremoto: e d’improvviso, chi di qua, chi di là, eccoli portati in su a
nascere, ratti filando come stelle cadenti. Lui, Er, aveva ricevuto divieto di
bere quell’acqua. Per dove e come avesse raggiunto il suo corpo non sapeva.
Sapeva soltanto che d’un tratto aveva aperto gli occhi e s’era veduto all’alba
giacere sulla pira. E cosí, Glaucone, s’è salvato il mito e non è [c]
andato perduto. E potrà salvare anche noi, se gli crediamo; e noi
attraverseremo bene il fiume Lete e non insozzeremo l’anima nostra. Se mi
darete ascolto e penserete che l’anima è immortale, che può soffrire ogni male
e godere ogni bene, sempre ci terremo alla via che porta in alto e coltiveremo
in ogni modo la giustizia insieme con l’intelligenza, per essere amici a noi
stessi e agli dèi, sia finché [d] resteremo qui, sia quando riporteremo
i premi della giustizia, come chi vince nei giochi raccoglie in giro il suo
premio; e per vivere felici in questo mondo e nel millenario cammino che
abbiamo descritto.
(Platone, Opere, vol. II, Laterza,
Bari, 1967, pagg. 447-455)