Platone, L’innamoramento aiuta a comprendere (fedro)

Né cor fu mai piú saggio

che percosso d’amor, [...]

 (G. Leopardi, Amore e Morte, vv. 17-18)

 

Al contrario di quanto comunemente si ritiene, per Platone l’innamoramento favorisce la possibilità di comprendere quelle cose che a mente lucida risultano incomprensibili. Il dialogo si svolge fra Socrate e il suo giovane amico Fedro, che è stato ad ascoltare un discorso, tenuto dall’oratore Lisia, sull’amore. Trovato un luogo piacevolissimo lungo le rive dell’Ilisso, i due si fermano a discutere e Fedro legge il discorso di Lisia, in cui si sostiene la superiorità del comportamento di coloro che non amano rispetto a quello di coloro che amano. Riportiamo i brani in cui Socrate contesta questa posizione, e ad essa contrappone il racconto di un discorso del poeta Stesicoro.

 

Fedro, 244 a-b; 245 b

 

1      [244 a] [Socrate] – [...] Ed è cosí che deve dire: “Non è verace il discorso che ad un innamorato si debba preferire chi non ama, con il pretesto che l’uno delira e l’altro invece è sano e saggio. Ciò sarebbe detto bene se il delirio fosse invariabilmente un male; ora invece i piú grandi doni ci provengono proprio da quello stato di delirio, datoci per dono divino. Perché [b] appunto la profetessa di Delfi, le sacerdotesse di Dodona, proprio in quello stato di esaltazione, hanno ottenuto per la Grecia tanti benefici, sia agli individui che alle comunità; ma quando erano in sé fecero poco o nulla”. [...]

         [...]

2      [245 b] “Tante grandi e splendide opere, e ancora maggiori posso enumerarti come dono del delirio che viene dagli dèi! Non lo si tema quindi per se stesso, né ci sconcerti quell’argomento che ci mette in guardia per farci preferire un amico in senno in luogo di uno appassionato. Ma questa teoria canti vittoria, solo dopo aver dimostrato che l’amore è inviato dagli dèi all’innamorato e all’amato non per loro vantaggio. Sta a noi dimostrare il contrario, cioè che questa specie di delirio è la piú grande fortuna concessa dagli dèi”.

 

(Platone, Opere, vol. I, Laterza, Bari, 1967, pagg. 749 e 751)