Il tiranno di Siracusa Dionisio il
giovane si dichiara innamorato della filosofia e chiede insistentemente a
Platone di raggiungerlo. Seppur pieno di dubbi, il filosofo si rassegna a un
terzo viaggio in Sicilia. La delusione per le scarse attitudini filosofiche del
discepolo lo spinge a una riflessione sulla vera filosofia: essa non è
acquisizione di sapere, ma impegno di vita; vi sono dottrine che devono essere
trasmesse solo a pochi; l’intuizione intellettuale è una luce improvvisa:
l’intelligenza che si accende nell’anima.
Lettere, VII, 339 d-344 e
1 [339 d] [...] Mi giungevano
intanto anche altre lettere, di Archita e di quelli di Taranto, e tutti
esaltavano l’amore di Dionisio per la filosofia, e tutti mi dicevano che, se
non fossi andato súbito, avrei distrutto l’amicizia che per opera mia avevano
stretta con lui, amicizia di grande importanza politica. Tali erano le
pressioni che mi si facevano perché partissi; da una parte mi trascinavano gli
amici d’Italia e di Sicilia, dall’altra veramente mi spingevano, per dir cosí,
[e] gli amici d’Atene con le loro preghiere; e sempre mi ripetevano gli
stessi discorsi, che non dovevo tradire Dione e gli amici e gli ospiti di
Taranto: del resto, io stesso non trovavo strano che un giovane intelligente,
sentendo esporre pensieri profondi, fosse preso dal desiderio di vivere nel
modo piú bello: dovevo dunque sperimentare come stavano le cose, e non
disinteressarmene, rendendomi colpevole di cosí grande vergogna, ché tale
sarebbe [340 a] effettivamente stata, se qualcuno aveva detto la verità.
Vi andai dunque, nascondendomi la verità con questo ragionamento, ma, com’è
naturale, temendo assai e mal presagendo: e per la terza volta dovetti
ringraziare Zeus Salvatore, perché ebbi fortuna e mi salvai ancora. Ne devo
grazie, oltre che al dio, anche a Dionisio, perché, contro il parere di molti
che mi volevano uccidere, ebbe per me un [ b] certo riguardo. Appena
giunto, pensai di dover per prima cosa sperimentare se davvero Dionisio era
acceso dall’ardore filosofico come da un fuoco, o erano infondate le molte
notizie giunte ad Atene. Ora, v’è un modo non affatto volgare per fare questa
prova, ma veramente opportuno quando s’ha a che fare con tiranni, soprattutto
quando sono imbevuti di formule imparate: ed era appunto questo il caso di
Dionisio, come súbito m’accorsi. A questa gente bisogna mostrare che cos’è
davvero lo studio filosofico, e [c] quante difficoltà presenta, e quanta
fatica comporta. Allora, se colui che ascolta è dotato di natura divina ed è
veramente filosofo, congenere a questo studio e degno di esso, giudica che
quella che gli è indicata sia una via meravigliosa, e che si debba fare ogni
sforzo per seguirla, e non si possa vivere altrimenti. Quindi unisce i suoi
sforzi con quelli della guida, e non desiste se prima non ha raggiunto
completamente il fine, o non ha acquistato tanta forza da poter progredire da
solo senza l’aiuto del maestro. Cosí [d] vive e con questi pensieri, chi
ama la filosofia: e continua bensí a dedicarsi alle sue occupazioni, ma si
mantiene in ogni cosa e sempre fedele alla filosofia e a quel modo di vita
quotidiana che meglio d’ogni altro lo può rendere intelligente, di buona
memoria, capace di ragionare in piena padronanza di se stesso: il modo di vita
contrario a questo, egli lo odia. Quelli invece che non sono veri filosofi, ma
hanno soltanto una verniciatura di formule, come la gente abbronzata dal sole,
vedendo quante cose si devono imparare, [e] quante fatiche bisogna
sopportare, come si convenga, a seguire tale studio, la vita regolata d’ogni
giorno, giudicano che sia una cosa difficile e impossibile per loro; sono [341 a]
quindi incapaci di continuare a esercitarsi, ed alcuni si convincono di
conoscere sufficientemente il tutto, e di non avere piú bisogno di affaticarsi.
Questa è la prova piú limpida e sicura che si possa fare con chi vive nel lusso
e non sa sopportare la fatica; sicché costoro non possono poi accusare il
maestro, ma se stessi, se non riescono a fare tutto quello ch’é necessario per
seguire lo studio filosofico. In questo modo parlai anche a Dionisio. Non gli
spiegai [b] ogni cosa, né, del resto, egli me lo chiese, perché
presumeva di sapere e di possedere sufficientemente molte cognizioni, e anzi le
piú profonde, per quello che aveva udito dagli altri. In seguito, mi fu
riferito, egli ha anche composto uno scritto su quanto allora ascoltò, e fa
passare quello che ha scritto per roba sua, e non affatto come una ripetizione
di quello che ha sentito; ma di questo io non so nulla. Anche altri, io so,
hanno scritto di queste cose, ma chi essi siano, neppur essi sanno. Questo
tuttavia io [c] posso dire di tutti quelli che hanno scritto e
scriveranno dicendo di conoscere ciò di cui io mi occupo per averlo sentito
esporre o da me o da altri o per averlo scoperto essi stessi, che non capiscon
nulla, a mio giudizio, di queste cose. Su di esse non c’è, né vi sarà, alcun
mio scritto. Perché non è, questa mia, una scienza come le altre: essa non si
può in alcun modo comunicare, ma come fiamma [d] s’accende da fuoco che
balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni
sull’argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima.
Questo tuttavia io so, che, se ne scrivessi o ne parlassi io stesso, queste
cose le direi cosí come nessun altro saprebbe, e so anche che se fossero
scritte male, molto me ne affliggerei. Se invece credessi che si dovessero
scrivere e render note ai piú in modo adeguato e si potessero comunicare, che
cosa avrei potuto fare di piú bello nella mia vita, che scriver queste cose
utilissime per gli uomini, traendo alla luce [e] per tutti la natura? Ma
io non penso che tale occupazione, come si dice, sia giovevole a tutti; giova
soltanto a quei pochi che da soli, dopo qualche indicazione, possono progredire
fino in fondo alla ricerca: gli altri ne trarrebbero soltanto un ingiustificato
disprezzo o una sciocca e superba presunzione, quasi avessero appreso qualche
cosa [342 a] di augusto. Ma di questo voglio parlare ancora e piú a lungo,
e forse, dopo che avrò parlato, qualcuna delle cose che dico riuscirà piú
chiara. V’è infatti una ragione profonda, che sconsiglia di scrivere anche su
uno solo di questi argomenti, ragione che io ho già dichiarata piú volte, ma
che mi sembra opportuno ripetere.
2 Ciascuna delle cose che sono ha tre
elementi attraverso i quali si perviene a conoscerla; quarto è la conoscenza [b];
come quinto si deve porre l’oggetto conoscibile e veramente reale. Questi sono
gli elementi: primo è il nome [eídolon], secondo la definizione [lógos],
terzo l’immagine, quarto la conoscenza [epistéme]. Se vuoi capire quello
che dico, prendi un esempio, pensando che il ragionamento che vale per un caso,
vale per tutti. Cerchio è una cosa che ha un nome, appunto questo nome che abbiamo
ora pronunciato. Il secondo elemento è la sua definizione, formata di nomi e di
verbi: quella figura che ha tutti i punti estremi ugualmente distanti dal
centro, questa è la definizione di ciò che [c] ha nome rotondo,
circolare, cerchio. Terzo è ciò che si disegna e si cancella, che si costruisce
al tornio e che perisce; nulla di tutto questo subisce il cerchio in sé, al
quale si riferiscono tutte queste cose, perché esso è altro da esse. Quarto è
la conoscenza [epistéme], l’intuizione [noûs alethés] e la retta
opinione [dóxa] intorno a queste cose: esse si devono considerare come
un solo grado, ché non risiedono né nelle voci né nelle figure corporee, ma
nelle anime, onde è evidente che la conoscenza è altra cosa dalla natura del
cerchio e dai tre [d] elementi di cui ho già parlato. La intuizione è,
di esse, la piú vicina al quinto per parentela e somiglianza: le altre ne
distano di piú. Lo stesso vale per la figura diritta e per la figura rotonda,
per i colori, per il buono per il bello per il giusto, per ogni corpo costruito
o naturale, per il fuoco per l’acqua e per tutte le altre cose simili a queste,
per ogni animale, per i costumi delle anime, per ogni cosa che [e] si
faccia o si subisca. Perché non è possibile avere compiuta conoscenza, per
ciascuno di questi oggetti, del quinto, quando non si siano in qualche modo
afferrati gli altri quattro. Oltre a questo, tali elementi esprimono non meno
[343 a] la qualità che l’essenza di ciascuna cosa, per causa della
inadeguatezza dei discorsi; perciò nessuno, che abbia senno, oserà affidare a
questa inadeguatezza dei discorsi quello ch’egli ha pensato e appunto ai
discorsi immobili, come avviene quando sono scritti. Bisogna però che io
spieghi di nuovo quello che ho detto. Ciascun cerchio, di quelli che nella
pratica si disegnano o anche si costruiscono col tornio, è pieno del contrario
del quinto, perché ogni suo punto tocca la linea retta, mentre il cerchio vero
e proprio non ha in sé né poco né molto della natura contraria. Quanto ai loro
nomi, diciamo che nessuno ha [b] un briciolo di stabilità, perché nulla
impedisce che quelle cose che ora son dette rotonde si chiamino rette, e che le
cose rette si chiamino rotonde; e i nomi, per coloro che li mutassero chiamando
le cose col nome contrario, avrebbero lo stesso valore. Lo stesso si deve dire
della definizione, composta com’è di nomi e di verbi: nessuna stabilità essa
ha, che sia sufficientemente e sicuramente stabile. Un discorso che non finisce
mai si dovrebbe poi fare per ciascuno dei quattro, a mostrare come sono oscuri;
ma l’argomento principale è quello al quale ho accennato poco fa, e cioè che,
essendoci due princípi, la realtà e la [c] qualità, mentre l’anima cerca
di conoscere il primo, ciascuno degli elementi le pone innanzi, nelle parole e
nei fatti, il principio non ricercato; in tal modo ciascun elemento, quello che
si dice o che si mostra ce lo presenta sempre facilmente confutabile dalle
sensazioni, e riempie ogni uomo di una, per cosí dire, completa dubbiezza e
oscurità. E dunque, là dove per una cattiva educazione non siamo neppure
abituati a ricercare il vero e ci accontentiamo delle immagini che ci si
offrono, non ci rendiamo ridicoli gli uni di fronte agli altri, gli interrogati
di fronte agli [d] interroganti, capaci di disperdere e confutare i
quattro; ma quando vogliamo costringere uno a rispondere e a rivelare il
quinto, uno che sia esperto nell’arte di confutare può, quando lo voglia, avere
la vittoria, e far apparire alla gran parte dei presenti che chi espone un
pensiero o con discorsi o per iscritto o in discussioni, non sa alcunché di
quello che dice o scrive; e questo avviene appunto perché quelli che ascoltano
ignorano talvolta che non è l’anima di chi scrive o parla che viene confutata,
ma la imperfetta [e] natura di ciascuno dei quattro. Solo trascorrendo
continuamente tra tutti questi, salendo e discendendo per ciascuno di essi, si
può, quando si ha buona natura, generare a gran fatica la conoscenza di ciò che
a sua volta ha buona natura. Se invece uno non ha una natura buona, come
avviene per la maggior parte degli uomini, privi d’una naturale disposizione ad
apprendere e incapaci di vivere [344 a] secondo i cosiddetti buoni
costumi, e questi sono corrotti, neppure Linceo potrebbe dar la vista a gente
come questa. In una parola, chi non ha natura congenere alla cosa, né la
capacità d’apprendere né la memoria potrebbero renderlo tale (ché questo non
può assolutamente avvenire in nature allotrie); perciò quanti non sono affini e
congeneri alle cose giuste e alle altre cose belle non giungeranno a conoscere,
per quanto è possibile, tutta la verità sulla virtú e sulla colpa, anche se
abbiano capacità d’apprendere e buona memoria chi per questa e chi per quella
cosa, né la conosceranno quelli che, pur avendo tale natura, [b] mancano
di capacità d’apprendere e di buona memoria. Infatti insieme si apprendono
queste cose, e la verità e la menzogna dell’intera sostanza, dopo gran tempo e
con molta fatica, come ho detto in principio; allora a stento, mentre che
ciascun elemento (nomi, definizioni, immagini visive e percezioni), in dispute
benevole e in discussioni fatte senza ostilità, viene sfregato con gli altri,
avviene che l’intuizione e l’intellezione di ciascuno brillino a chi [c]
compie tutti gli sforzi che può fare un uomo. Perciò, chi è serio, si guarda
bene dallo scrivere di cose serie, per non esporle all’odio e all’ignoranza
degli uomini. Da tutto questo si deve concludere, in una parola, che, quando si
legge lo scritto di qualcuno, siano leggi di legislatore o scritti d’altro genere,
se l’autore è davvero un uomo, le cose scritte non erano per lui le cose piú
serie, perché queste egli le serba riposte nella parte piú bella che ha;
mentre, se egli mette per iscritto proprio quello che ritiene il suo pensiero
piú [d] profondo, “allora, sicuramente”; non certo gli dèi, ma i mortali
“gli hanno tolto il senno”.
3 Chi ha seguito questo mito e questa
digressione, capirà bene che se Dionisio, o qualche altra persona maggiore o
minore di lui, ha scritto sui princípi primi e supremi della natura, non può
aver appreso né aver ascoltato, secondo il mio pensiero, alcunché di sano sulle
cose di cui ha scritto: altrimenti le avrebbe rispettate quanto me, e non le
avrebbe esposte a un pubblico inadatto e disforme. Perché non ha certo scritto
per richiamarsele alla memoria nel futuro; son cose [e] che non si
possono dimenticare, una volta penetrate nell’animo, ché si riducono a
brevissime formule: se l’ha fatto, l’ha fatto per una biasimevole ambizione,
sia che abbia detto che son sue e sia che le abbia scritte come seguace di una
scuola filosofica, alla quale era indegno d’appartenere, se desiderava la
gloria che nasce dal farne parte.
(Platone, Opere, vol. II,
Laterza, Bari, 1967, pagg. 1074-1080)