Il Parmenide è considerato un dialogo della
maturità di Platone. Esso è dedicato all’analisi delle Idee e del loro rapporto
con gli enti sensibili, i quali, agli occhi degli uomini che tendono a semplificare,
appaiono come realtà. Il giovane Socrate affronta l’arduo argomento dibattendo
nientemeno che con Parmenide, ormai vecchio, giunto ad Atene insieme al
discepolo Zenone. Dal dialogo emergono la complessità del problema e la
necessità di continuare la ricerca attraverso una rigorosa indagine dialettica.
Entrambi gli interlocutori mostrano una grande fiducia nelle capacità della
Ragione di pervenire alla Verità. Con il termine “genere” è indicata l’“Idea”.
a) Rapporto Idee-enti sensibili (Parmenide, 132 a-b, 132 d-133 a)
1 [132 a]
[Parmenide] – Io credo che tu sia indotto a concepire ciascun genere
delle cose come una unità da questo: ogni qual volta tu ritieni di trovarti di
fronte ad un certo numero di cose grandi, ti pare, direi, che ci sia un certo
aspetto caratteristico, unico e proprio lo stesso, visibile a chi getta il suo
sguardo su tutte e cosí tu opini che la grandezza sia come tale una unità. [Socrate]
– È vero. [Parmenide] – E se guarderai analogamente tutte queste cose
con gli occhi della tua anima, la grandezza come tale e le altre cose grandi?
Non ti apparirà un’altra unitaria grandezza in ragione della quale tutte queste
cose osservate appaiono grandi? [Socrate] – È verosimile. [Parmenide]
– Apparirà quindi un altro genere della grandezza, sorto accanto alla grandezza
e alle altre cose che partecipano di questa, e ce ne sarà un [b] altro
in tutte le cose di cui abbiamo parlato fin qui in ragione del quale tutte
queste saranno grandi; e non sarà piú per te uno solo ciascun genere delle cose,
ma infinita pluralità. [...]
2 [132 d]
[Socrate] –Mi pare invece, Parmenide, che la soluzione sia proprio qui:
questi generi di cui parliamo sono nella natura come modelli e le altre cose
assomigliano ad essi, ne sono copie somiglianti e quella partecipazione ai
generi da parte delle altre cose si dà non altrimenti che in quanto le nostre
cose sono rappresentazioni di quelli. Disse Parmenide: – Se allora
qualche cosa assomiglia al genere, è possibile che quel genere non sia simile a
ciò che ne è rappresentazione, nella misura in cui questa è a somiglianza di
quello? E c’è qualche mezzo per cui il simile non sia simile al suo simile? [Socrate]
– Non c’è. – [Parmenide] Non c’è forse una stretta [e] necessità
che due cose che si assomigliano partecipino a qualche cosa di unico e identico
per ambedue? [Socrate] – Certamente. [Parmenide] – E non sarà
proprio il genere ciò di cui i simili partecipando sono simili? [Socrate]
– Perfettamente. [Parmenide] – Non è pertanto ammissibile che qualche
cosa sia simile al genere, né che questo lo sia ad altro; altrimenti vicino al
genere comparirà sempre un altro genere e, se questo è simile [133 a] a
qualche cosa, un altro ancora; non finirà mai di nascere sempre un nuovo
genere, se il genere risulta simile a ciò che ne partecipa. [Socrate] –
Quanto dici è assolutamente vero. [Parmenide] – Non è dunque sulla base
della somiglianza che le altre cose partecipano dei generi, ma bisogna cercare
un altro modo di partecipazione. [Socrate] – Cosí risulta.
(Platone, Opere, vol. I, Laterza, Bari, 1967,
pag. 531)
b) Quante sono le Idee (Parmenide, 130 a-e)
[130 a] [...] Mentre Socrate cosí parlava,
continuava a raccontarmi Pitodoro, egli stesso si attendeva, ad ogni nuova
argomentazione, che Parmenide e Zenone si adirassero, ma quelli invece
seguivano Socrate con tutta la loro attenzione e frequentemente si scambiavano
qualche occhiata e sorridevano, meravigliati di lui. E cosí infatti, quando
Socrate ebbe finito, Parmenide si espresse: – Socrate, disse, quanto [b]
sei degno d’ammirazione per l’ardore che ti porta ai discorsi. Ma dimmi ancora:
tu ammetti proprio, cosí come dici, una tale distinzione: da una parte i generi
del reale, presi come tali, e dall’altra le cose che ne partecipano? E ritieni
che sia un qualche cosa la somiglianza come tale separatamente da quella
somiglianza che è in noi e cosí pure l’uno e la molteplicità e tutto il resto
che or ora ascoltavi da Zenone? – Certo, disse Socrate. – Ed anche per
cose come queste, disse Parmenide, per esempio un genere, esistente come
tale, del giusto, e poi del bello, del bene ed anche di ogni altra cosa
analoga? – Sí, disse [Socrate]. [Parmenide] – [c] E c’è
anche il genere dell’uomo, separato da noi e da quanti siamo uomini, il genere
come tale dell’uomo, o del fuoco, o dell’acqua? [Socrate] – Spesso,
Parmenide, mi sono trovato in difficoltà a questo proposito, se cioè bisogna
applicare anche a questi oggetti lo stesso principio valido per quelli o no. [Parmenide]
– E, Socrate, sei in dubbio sul parlare allo stesso modo anche di cose come
queste, che in tal caso potrebbero anche suscitare il riso, e cioè come il
capello, il fango, il sudiciume e altro che sia di natura vile e spregevole al
massimo grado, sei in dubbio sull’ammettere o no [d] un genere anche di
ciascuna di tali cose, separato, il quale sia un’altra cosa dalle cose stesse
le quali noi tocchiamo con mano? – No, no, disse Socrate, si tratta di
cose che, quali noi vediamo, tali esistono in realtà e cosí bisogna guardarsi
dal pensare che ci sia un genere anche per esse, potrebbe essere fuori di
luogo. Mi tormentò già una volta il pensiero che ciò fosse estensibile
universalmente. Ma se appena m’adagio in questa opinione, tosto ne rifuggo per
il timore di perdermi cadendo in un abisso di stoltezze e rifugiandomi allora presso
gli oggetti a proposito dei quali or ora ammettevo senz’altro i generi della
realtà io svolgo il mio lavoro ed impegno la mia attività solo entro i loro [e]
limiti.
(Platone, Opere, vol. I, Laterza, Bari, 1967,
pag. 528)
c) Uno e molteplice (Parmenide,
129 b-e)
[129 b] [...] [Parla Socrate rivolgendosi
a Zenone] Cosí non è assurdo dimostrare che tutto è uno perché partecipa del
genere dell’uno e che lo stesso tutto è molteplice perché d’altra parte
partecipa del genere della molteplicità; mentre avrò già ragione di
meravigliarmi se si riuscirà a dimostrarmi che ciò che è in quanto uno per ciò
[c] stesso è molteplice e ciò che è in quanto molteplice per ciò stesso
è uno. Queste osservazioni si possono estendere a tutti gli aspetti della
realtà. Ci sarebbe da stupirsi a sentir dimostrare che un genere o una specie,
come tali, siano affetti entro se stessi da queste opposte affezioni, ma non ci
sarà niente di strano, se uno dimostrerà che io stesso sono uno e molti
dicendo, per esempio, per provare la mia molteplicità, che io ho una parte
destra diversa da una parte sinistra, e un davanti diverso da un dietro, e cosí
una parte superiore e una parte inferiore – anch’io, lo credo, partecipo
infatti della molteplicità – e invece, per provare la [d] mia unità,
affermerà che di noi sette uomini io sono uno, partecipe anche dell’uno. I due
giudizi cosí sono dimostrati entrambi veri. Quando dunque, riferendosi ad
oggetti di questo tipo, uno si proverà a dimostrare che lo stesso oggetto è uno
e molteplice, per esempio pietre, legni e simili, noi diremo che dimostra che
qualche cosa è una e pure molteplice, ma non che il genere dell’uno come tale è
molteplicità, o che il genere della molteplicità come tale è unità; e non dice
niente di straordinario, ma cose su cui tutti potremmo essere d’accordo. Se
invece, degli oggetti di cui parlavo poco fa, uno prenda dapprima separatamente
gli aspetti uno per uno, per esempio somiglianza [e], dissomiglianza,
pluralità, uno, quiete, moto e ogni altro simile, e poi li dimostri tali da
potersi mescolare insieme, allora sí, Zenone, io me ne rallegrerei
straordinariamente. Tu hai condotto a termine, a mio parere, la tua opera con
grande ardimento, ma, come ti dico, sarei veramente molto piú lieto se qualcuno
sapesse mostrare e spiegare questa stessa difficoltà che nei generi della [130 a]
realtà è in mille modi intrecciata, cosí come voi faceste per la realtà
sensibile, anche per quel piano di realtà che vien colto dal ragionamento.
(Platone, Opere, vol. I, Laterza, Bari, 1967,
pag. 527)