Polibio, La religione instrumentum regni

         Pur considerando la religione popolare solo un utilissimo strumento per tenere il popolo sottomesso, Polibio proprio per questo ne dà un giudizio positivo.

 

Storie, VI, 56

 

         I Romani hanno inoltre concezioni di gran lunga preferibili nel campo religioso. Quella superstizione religiosa che presso gli altri uomini è oggetto di biasimo, serve in Roma a mantenere unito lo Stato: la religione è piú profondamente radicata e le cerimonie pubbliche e private sono celebrate con maggior pompa che presso ogni altro popolo. Ciò potrebbe suscitare la meraviglia di molti; a me sembra che i Romani abbiano istituito questi usi pensando alla natura del volgo. In una nazione formata da soli sapienti, sarebbe infatti inutile ricorrere a mezzi come questi, ma poiché la moltitudine è per sua natura volubile e soggiace a passioni di ogni genere, a sfrenata avidità, ad ira violenta, non c'è che trattenerla con siffatti apparati e con misteriosi timori. Sono per questo del parere che gli antichi non abbiano introdotto senza ragione presso le moltitudini la fede religiosa e le superstizioni sull'Ade, ma che piuttosto siano stolti coloro che cercano di eliminarle ai nostri giorni. Inoltre, a prescindere da tutto il resto, coloro che amministrano in Grecia i pubblici interessi, se viene loro affidato un talento, nonostante il controllo di dieci sorveglianti, di altrettanti suggelli e del doppio dei testimoni, non sanno conservarsi onesti; i Romani invece, pur maneggiando nelle pubbliche cariche e nelle ambascerie quantità di denaro di molti maggiori, si conservano onesti solo per rispetto al vincolo del giuramento; mentre presso gli altri popoli raramente si trova chi non tocchi il pubblico denaro, presso i Romani è raro trovare che qualcuno si macchi di tale colpa.

 

(Polibio, Storie, Mondadori, Milano, 1970, vol. II, pag. 133-134)