Putnam, Mente e corpo

Hilary Putnam (1926), filosofo statunitense, professore a Harvard, allievo di Reichenbach e di Carnap (esponenti di primo piano del neopositivismo), ha subíto l'influenza anche del filosofo analitico Quine. Nell'ambito della “filosofia della mente” Putnam ha sostenuto che l'unità della mente trascende il livello neurofisiologico del cervello; in questo stesso ambito ha dato avvio a un programma di ricerca che va sotto il nome di “scienza cognitiva”. Dalla fine degli anni Settanta egli ha assunto una posizione di “realismo interno”, secondo la quale le domande sul mondo hanno senso all'interno di una teoria e non in termini assoluti. Dall'opera Ragione, verità e storia (1981) proponiamo alla lettura l'inizio del IV capitolo, dal titolo “Mente e corpo”: Putnam analizza il rapporto fra mente e corpo nella filosofia di alcuni pensatori del Seicento, e sostiene che la posizione spinoziana che identifica la mente con il corpo (spogliata degli aspetti teologici e metafisici) è condivisa, oltre che da lui stesso, da molti studiosi dei nostri giorni.

 

H. Putnam, Ragione, verità e storia, IV

 

Nel XVII secolo i grandi filosofi, Cartesio, Spinoza, e Leibniz, si resero tutti conto del fatto che il rapporto tra la mente e il corpo materiale pone un problema di comprensione molto arduo. In una certa misura, tale relazione costituiva naturalmente un problema già per Platone e per tutti i filosofi che vennero dopo di lui, ma il problema divenne molto piú pressante con la nascita della fisica moderna. Nel XVII secolo si scoprí come il mondo fisico sia straordinariamente chiuso dal punto di vista causale. La migliore descrizione di come esso è causalmente chiuso è offerta dalla fisica newtoniana: nessun corpo si muove, se non a causa dell'azione di qualche forza. Le forze si possono descrivere in maniera completa mediante numeri: tre numeri sono sufficienti per determinare la direzione, un numero solo basta per descrivere la grandezza di qualsiasi forza. L'accelerazione prodotta da una forza ha esattamente la medesima direzione della forza stessa e l'entità dell'accelerazione si può dedurre dalla massa del corpo e dalla grandezza della forza, secondo la prima legge di Newton, F = ma. Se su un corpo agisce piú di una forza, si può calcolare la forza risultante mediante la legge del parallelogramma.

È molto importante sottolineare quanto una fisica di questo tipo, che pone l'accento sui numeri e su precisi algoritmi per il calcolo, sia radicalmente differente rispetto al modo di pensare essenzialmente qualitativo del Medioevo. Secondo il pensiero medievale quasi tutto poteva esercitare un “influsso” sul resto (la parola “influenza”, nel senso di malattia, è un'eredità di tale modo di pensare medievale: si riteneva, infatti, che degli spiriti maligni esercitassero un influsso, o influenza, sull'aria, che a sua volta influiva su quelli che si ammalavano). Secondo un simile modo di pensare, non sarebbe poi cosí sorprendente che la mente possa “influenzare” il corpo.

Al tempo dei filosofi che ho precedentemente citato, il modo di pensare matematico cominciava a farsi strada e a sostituirsi a quello piú vecchio. Il nuovo modo di pensare fu pienamente sviluppato soltanto da Newton, ma già Cartesio usava per alcuni casi specifici il parallelogramma delle forze, e in casi ancor piú elementari lo usava perfino Leonardo da Vinci: quei pensatori intravidero che si poteva affrontare la fisica piú o meno nel modo in cui la si affronta ai giorni nostri e capirono che è di forza e moto che tratta la fisica, per cui rifiutarono lo stile qualitativo della spiegazione. Essi si resero conto del fatto che il mondo meccanico ha una logica propria, un “programma” come diremmo oggi, e segue tale programma, a meno che  qualcosa lo disturbi.

Quei filosofi pensavano che gli eventi mentali agissero nell'uno o nell'altro dei seguenti modi: 1) il primo consiste in un'azione parallela degli eventi mentali e di quelli fisici, quali gli eventi del cervello. Come modello di questa azione parallela possiamo prendere due orologi sincronizzati: il corpo è un orologio che è stato caricato e va avanti per la sua strada, felice o infelice che sia, fino alla morte; allo stesso modo, anche l'intero mondo fisico va avanti per la sua strada, felice o infelice che sia, dalla creazione al giorno del giudizio (o al collasso gravitazionale, in una versione moderna). E gli eventi mentali vanno avanti per la loro strada, felice o infelice che sia, e, in qualche modo, forse grazie alla divina provvidenza, le cose sono disposte in maniera tale che l'evento mentale B si verificherà sempre nello stesso momento in cui si verifica la sensazione A; 2) il secondo modello consiste, invece, in rapporti reciproci tra gli eventi mentali e quelli fisici: in effetti, gli eventi mentali potrebbero persino provocare gli stessi eventi del cervello, o viceversa.

La famosa immagine cartesiana della teoria interazionista, secondo la quale la mente potrebbe influenzare la materia quando questa è estremamente rarefatta (e, in effetti, la mente spingerebbe in qualche modo la materia rarefatta nell'epifisi), non è tanto una strana fantasticheria, come può sembrare ai nostri occhi, quanto piuttosto un'eredità di tutta una serie di dottrine medievali. [...] Si riteneva che la mente agisse sullo “spirito”, che, a sua volta, agiva sulla “materia”; inoltre, si pensava che lo spirito non fosse del tutto incorporeo. Lo “spirito” era di una natura intermedia fra il corporeo e l'incorporeo, esempio tipico della tendenza dei filosofi medievali a introdurre termini intermedi fra ogni coppia di termini vicini nella serie dei generi naturali: lo spirito, insomma, era un po' come un gas, con dell'energia per spingere la materia. Naturalmente, se si abbandona del tutto il concetto di “spirito” e la mente viene considerata assolutamente incorporea, l'idea che la mente possa spingere nell'epifisi della materia, per quanto rarefatta, appare stranissimo: non si riesce bene a farsi un'immagine visiva di ciò.

La versione piú banale della tesi delle interazioni è quella che immagina la mente come una specie di spirito capace di abitare in diversi corpi (senza tuttavia cambiare il modo di pensare, sentire, ricordare e mostrare la propria personalità, a quanto si deduce dal proliferare di libri popolari in cui ricorre il tema della reincarnazione e dei ricordi di vite precedenti) e capace persino di esistere senza un corpo (continuando, ciononostante, a pensare, sentire, ricordare e avere una propria personalità). Questa versione, che è poco piú che una superstizione, si può confutare facilmente obiettando che vi sono molte prove (alcune delle quali erano già note nel XVII secolo) del fatto che le funzioni del pensiero, delle sensazioni e della memoria comportano, come elemento essenziale, il cervello: in effetti, la versione che abbiamo esposto non chiarisce affatto perché dovremmo avere, in primo luogo, dei cervelli cosí complicati, dato che, se ci bastasse una specie di “volante” per indirizzare il nostro moto, il cervello dovrebbe essere di proporzioni assai piú ridotte.

Per evitare obiezioni scientifiche come quella che abbiamo proposto precedentemente, interazionisti raffinati come Cartesio sostenevano che la mente e il cervello costituiscono un'unità essenziale. In qualche modo, sarebbe l'unità di mente e cervello che pensa, sente, ricorda e ha una propria personalità: ciò significa che quello che normalmente chiamiamo la mente non è affatto la mente, ma l'unità di mente e cervello. Che cosa poi voglia dire una simile teoria, ossia come sia possibile sostenere che qualcosa possa essere fatto di due sostanze altrettanto diverse quanto dovrebbero essere la mente e la materia restando comunque un'unità essenziale, rimane tuttavia alquanto oscuro.

Anche l'alternativa parallelista è molto strana. Che cos'è, infatti, che farebbe sí che l'evento mentale accompagni l'evento del cervello? Un audace filosofo del XVII secolo, Spinoza, suggerí che gli eventi mentali potevano in realtà essere identici agli eventi del cervello e ad altri eventi fisici. Tale suggerimento equivale a dire che l'evento del mio dolore fisico in una particolare occasione potrebbe essere lo stesso evento del fatto che il mio cervello si trovi in un dato stato B in quella medesima occasione (si può anche esprimere questa tesi dicendo che, secondo essa, le proprietà di sentire quel particolare tipo di dolore e di trovarsi nello stato mentale B sono identiche. Questa forma ci sembra migliore, perché pensiamo che abbiamo al presente piú una teoria logica delle proprietà piuttosto che degli eventi, ma pensiamo che entrambe le formulazioni siano egualmente valide. In questi termini, l'idea è che la proprietà di una persona in virtú della quale egli prova la sensazione Q potrebbe essere la medesima proprietà in virtú della quale egli si trova nello stato cerebrale B). Tale tesi fu proposta, per esempio, da Diderot nel XVIII secolo e diventò di moda negli anni Quaranta e Cinquanta del nostro secolo. Si cominciò a considerare seriamente per la prima volta il materialismo e la teoria dell'identità e cominciò a farsi strada la tesi secondo cui in effetti era vera la teoria di Spinoza (o piuttosto la teoria di Spinoza privata dei suoi complessi risvolti teologici e metafisici): abbiamo effettivamente a che fare con un solo mondo, e il fatto che, finché non abbiamo fatto grandi e complesse ricerche scientifiche, non possiamo sapere se gli stati in cui si sentono dolori fisici, si sentono suoni, si hanno sensazioni visive e cosí via, sono in realtà stati cerebrali, non vuole necessariamente dire che ciò non sia vero.

 

(H. Putnam, Ragione, verità e storia, Il Saggiatore, Milano, 1985, pagg. 83-86)