PIER PAOLO PORTINARO, GUERRA TOTALE E SOCIETA'
TOTALITARIA
Da più di
un autore la Grande guerra è stata rappresentata come intensa e violenta
esperienza di modernità industriale. Ciò coglie senza dubbio nel segno, anche se
sarebbe bene mai dimenticare che in essa questa componente moderna si sposa con
una tendenza di segno opposto. E la guerra delle macchine, ma anche, secondo
l'espressione di Barbusse, la "guerra dei trogloditi". In modo pregnante è stato
affermato che questa guerra fu "uno straordinario condensato di modernità"
destinato per altro a innescare "un'autentica esplosione di antimodernità",
"quell'intreccio di nichilismo e di misticismo, di risolutezza e di
sradicamento, di credulità e di cinismo" che sarà il denominatore comune dei
movimenti totalitari del XX secolo (così Ernesto Galli della Loggia in Fussell,
1984: XVII).
La storia
dei grandi conflitti del secolo contiene un insegnamento incontrovertibile:
nell'esperienza vissuta di milioni di combattenti come nell'immaginario
collettivo la guerra è un'esperienza piena di ambiguità. Alle trasfigurazioni
idealistiche che ne avevano segnato il profilo nell'età dei nazionalismi
classici, di tipo risorgimentale, si aggiungono ora inedite intensificazioni e
laceranti delusioni. Fra gli apologeti ottocenteschi della guerra, maturati
nella cultura romantica, per poi salire fino alla generazione di Ruskin e di
Dostoevskij, la guerra era oggetto di esaltazione perché civilizzatrice,
portatrice di progresso e perfezionamento morale. Ora con una nuova generazione
di scrittori, dal René Quinton autore delle Maximes sur la guerre all'Ernst
Jünger di Der Arbeiter, essa viene piuttosto esaltata perché, distruggendo la
Zivilisation, restituisce l'uomo alla brutale normatività della natura. La
guerra è anzi natura, l'ultima natura che l'uomo civilizzato può attingere,
anche se natura rigenerata e potenziata dalla tecnica. Ed è al tempo stesso
forma simbolica. "È assieme il sacramento e l'estasi, il simbolo e il segreto"
(Caillois, 1990: 62-65). È lutto della potenza e festa della distruzione.
Disciplina totalizzante e liberazione degli istinti.
La guerra
tecnologica è esperienza insieme di pienezza e di perdita. È sentimento di
onnipotenza e di caduta del limite. Ed è esperienza di espropriazione del tempo
e alienazione dallo spazio. Il sentimento dell'onnipotenza è l'immediato
prodotto dell'ingenua identificazione con l'arma tecnologica e la macchina
organizzativa. Ma anche l'"assoluto disorientamento spaziale" caratterizza un
conflitto in cui quell'arma e quella macchina non tardano a rivelare i loro
limiti e in cui gli eserciti si dissolvono nell'onda del fuoco oppure
sprofondano nei labirinti di una lotta del sottosuolo, nel Minenkrieg
nibelungico.
Nella
guerra moderna si compie la coniugazione di logica razionalistica e nichilismo.
Essa risulta, come anche si è detto, da "un'inedita combinazione tra principio
di efficienza-razionalità e principio di distruzione-annientamento" (Gibelli,
1991: 10). L'ambivalente rapporto che l'uomo ha sviluppato con la macchina, dopo
un secolo di sottomissione ai dettami della rivoluzione industriale, ora si
risolve in maniera confusa e violenta. La guerra è lo scacco dell'impulso
luddistico che ha covato sotto le ceneri dell'adattamento al sistema delle
macchine, il risultato di una strana inversione, come se il Nemico fosse ora la
macchina da annientare e da cui liberarsi. E la singolare invisibilità, quasi
incorporeità, del Nemico nascosto nelle trincee illuminate artificialmente,
animate solo notturnamente, sembra confermare la legittimità dell'inversione.
L'ambivalenza di quest'esperienza è l'autoinganno di un'intera generazione, che
pensava di poter sfuggire alla tirannia della società tecnologica e scopre
invece traumaticamente che la tecnologia domina l'organizzazione dei soldati e
l'impiego delle armi: il campo di battaglia non è che un'estremizzazione
parossistica e crudele delle leggi che regolano anche l'impersonale quotidianità
del vivere civile (Leed, 1985: 44). La guerra è stata sovente interpretata come
rito d'iniziazione che si pone alla base della coesione di una generazione.
Sicuramente essa ha Plasmato caratteri comuni, ha segnato biografie, ha
corazzato memorie. Ma, a considerarne gli effetti di lungo periodo, si tratta di
un rito che non ha avuto effetto integrativo, bensì disintegrativo e
disgiuntivo: ha separato da chi non aveva condiviso quell'esperienza e ha
spezzato le vite in un prima e un dopo (Leed, 1985: 104), dissolvendo però le
solidarietà di classe e di ceto nell'anonimità della massa atomizzata. La
solidarietà di trincea non avrebbe creato duraturi vincoli sociali, semmai si
sarebbe sedimentata in quel comunitarismo sovreccitato e astratto che i regimi
totalitari del dopoguerra non avrebbero esitato ad alimentare e a mantenere
vivo.
La guerra
vuole essere, a prendere sul serio il metaracconto trasfigurante che ne proporrà
un suo entusiasta combattente, E. Jünger, l'esperienza estrema generatrice di un
nuovo tipo umano. In essa la soglia delle situazioni in cui diventa possibile
prendere decisioni si alza - e proprio questo innalzamento della soglia
restituisce alla decisione la sua pienezza. Il culto della decisione, signora
della forma, che dilagherà nella cultura degli anni venti, non è spiegabile se
si prescinde da questa matrice. Ma il nuovo tipo umano scaturito dal conflitto
non è l'oltre-uomo vagheggiato da Nietzsche: è il dominatore della tecnica
ancora per intero iscritto nell'orizzonte del nichilismo, per il quale
l'estetizzazione della potenza non può essere che maschera calata a dissimulare
la "vertigine della guerra" (Caillois, 1990).
Finita,
per riprendere l'espressione del geografo Halford j. Mackinder, l'"epoca
colombiana"della storia occidentale, compiuta ormai la grande spartizione ed
esauriti gli spazi per l'espansione coloniale ed imperialistica (almeno nel
senso originario del termine), la dinamica di potenza degli Stati europei appare
ormai all'estremo della sua tensione, ai limiti della sua capacità di
autostabilizzazione, e quindi destinata inevitabilmente a esplodere. Il mutare
dei termini complessivi del rapporto tra guerra e politica evidenzia in questa
fase il senso di tale rottura degli argini. Si arriva allo stadio della guerra
assoluta, intesa però non nel senso clausewitziano di pieno dispiegamento del
concetto, ma in quello duplice di perdita, da parte della politica, della
capacità di governare e limitare la guerra, e di subordinazione della guerra a
una politica assoluta, incapace cioè di autolimitarsi. E si arriva allo stadio
della guerra totale, attraverso la progressiva cancellazione di ogni linea di
confine tra sfera militare e sfera civile, tra combattenti e non combattenti,
attraverso la mobilitazione totalizzante delle energie economiche e
intellettuali della società e attraverso un impiego sempre più intensivo di
tecnologie di distruzione e sterminio.
La guerra
totale, si è detto, non è guerra "assoluta nel senso di Clausewitz. La guerra di
posizione, di logoramento, di usura vanifica proprio gli obiettivi specifici
della guerra assoluta, vale a dire la distruzione delle forze nemiche,
l'annientamento della loro volontà di combattere e l'occupazione del loro
territorio. Assoluta la guerra totale lo è nelle intenzioni dei combattenti, non
nell'attuazione strategica. Il concetto di guerra totale sta innanzitutto a
designare un tipo di lotta armata per la quale l'intera economia nazionale è
impegnata fino all'ultima risorsa materiale e umana. Ma totale è tale guerra
anche nel senso della totalità dei mezzi impiegati senza limiti di natura
giuridica e morale. Nel conflitto 1914-18 entrambi i fronti fanno ad esempio
largo ricorso all'offesa mediante aggressivi chimici. Il non rispetto delle
norme del diritto internazionale, nel modo più macroscopico la violazione della
neutralità del Belgio, costituisce poi un tratto distintivo di questa modalità
di conduzione bellica. La prima guerra importante del secolo, quella
russo-giapponese, si era del resto già aperta con una clamorosa violazione
giuridica, vale a dire senza alcuna dichiarazione formale di guerra con
l'attacco giapponese alla flotta russa di stanza a Port
Arthur.
A
divulgare il concetto è un'opera di Léon Daudet (1867-1942), La guerra totale,
che appare a Parigi nel 1918, alla conclusione del conflitto. Ma il dibattito si
sviluppa con particolare virulenza in Germania. Qui sarà Ernst Jünger, con il
saggio del 1930 La mobilitazione totale a dare grande popolarità al concetto,
facendolo uscire dal gergo dei commentatori di cose militari. La nazione nella
sua totalità diventa soggetto e oggetto della lotta (Herbst, 1982: 35-63).
Secondo tale concezione la società e la politica vanno ormai per intero
subordinate agli scopi della guerra. Il capo di Stato maggiore di Hindenburg,
l'eroe vittorioso dei laghi Masuri (sul fronte orientale), il generale Erich
Ludendorff (1865-1937) a questo proposito rovescia deliberatamente la tesi di
Clausewitz: la guerra non deve più mettersi al servizio della politica ma al
contrario è questa che deve prendere ordini da quella, dalle sue costrizioni
oggettive. Le sue opere Kriegführung und Politik (Conduzione della guerra e
politica, 1922) e Der totale Krieg (La guerra totale, 1935) circoscrivono il
dibattito su questo tema nella Germania da Weimar al nazionalsocialismo. Un
giurista, Karl Schmitt (1888-1985) s'impegna invece ad analizzare il rapporto
tra Stato totale, guerra totale e nemico totale. La mobilitazione totale ha il
suo presupposto nello Stato totale. Ma solo con l'esperienza della guerra anche
lo Stato totale può raggiungere una particolare intensità in contrapposizione
alla semplice estensione dei suoi interventi e delle sue ingerenze (Schmitt,
1972).
La
vicenda del conflitto mondiale mostra come la semplice progressione degli eventi
bellici sia in grado di mutare nel volgere di pochi anni intensità e natura di
un rapporto di ostilità: entrate quasi per caso, sulla base di un'inimicizia
ancora convenzionale, in una belligeranza che si prevedeva di breve durata, le
potenze europee sono venute a trovarsi inavvertitamente "nella totalità della
guerra, nel senso che la guerra di combattimento continentale, militare, e la
guerra inglese, extramilitare, marittima, economica e di blocco, si sono
reciprocamente stimolate (passando per le rappresaglie) ed hanno spinto verso la
totalità ... In tal caso quindi la totalità della guerra non scaturì da una
precedente, totale, ostilità, ma, anzi fu la totalità dell'ostilità a crescere
da una guerra che gradualmente diveniva totale" (Schmitt, 1972: 194). Da questa
totale ostilità sarebbero germinate le forme della mobilitazione politica
totalitaria.
Con lo
sviluppo tecnologico dei primi decenni del secolo si arriva alla conquista
militare di una nuova dimensione, quella dell'aria, e con essa al superamento di
barriere naturali che operavano nel senso di una moderazione delle ostilità. La
guerra aerea infrange definitivamente l'equilibrio tra terra e mare su cui si
era retto il diritto internazionale moderno e segna un ulteriore passo sulla via
verso la guerra totale. Certo, nella natura della guerra sui mari era a ben
vedere già implicita la tendenza a un superamento degli ordinamenti spaziali in
conseguenza delle nuove possibilità di estensione del conflitto sulle grandi vie
di rifornimento commerciale. Infatti, nonostante che i suoi apologeti, da Alfred
Thayer Mahan (1840-1914) in avanti, affermino il carattere meno cruento e
distruttivo della battaglia navale, la guerra marittima contiene già, in virtù
del totale disinteresse della potenza autrice di un blocco navale a mantenere la
sicurezza e l'ordine all'interno della zona bloccata - obiettivo che è invece
sempre imposto a ogni potenza occupante un territorio -, "elementi della pura
guerra di annientamento" (Schmitt, 1991: 424). Solo con la guerra aerea si
arriva però alla vera totalizzazione del conflitto. La guerra totale mondiale è
prima di ogni altra cosa, dal punto di vista geopolitico, guerra fra potenze che
esercitano la loro sovranità su grandi spazi: solo l'impiego di mezzi di
distruzione aerei permette la conduzione di un tipo siffatto di guerra, in grado
di coinvolgere, con una velocità che non ha precedenti nella storia, l'intero
pianeta. Con ciò i tradizionali teatri di guerra e istituti giuridici come
l'occupatio bellica perdono quella centralità che il diritto internazionale loro
assegnava, con il conseguente venir meno di un insieme di garanzie dello jus in
bello che si riferivano alla distinzione tra combattenti e popolazione civile.
Nei bombardamenti delle città e dei centri industriali la criminalizzazione del
nemico è portata alle sue estreme conseguenze (Schmitt, 1991: 297).
Un'illustrazione convincente della natura della guerra totale la fornisce già
negli anni del conflitto mondiale il teorico del potere aereo, il già nominato
Giulio Douhet. Per lui due nuove armi sono intervenute dopo il 1914 a
rivoluzionare la natura della guerra, anche se opinione pubblica, vertici
politici e financo vertici militari sono ben lungi dall'aver compreso ed
esperito la portata di quelle innovazioni. "Questa rivoluzione non si è potuta
compiere completamente durante la guerra attuale perché le due armi nuove non
erano ancora perfette e perché, essendo nuove, non si comprese l'importanza di
esse. Tuttavia questa rivoluzione si è iniziata e si sta sviluppando, in special
modo per quanto riguarda l'arma sottomarina, che sorse prima di quella aerea ma
che ha una importanza inferiore a quella aerea" (Doubet, 1951: 153-54). Douhet
si sarebbe illuso, non intravedendo la rivoluzione rappresentata dall'invenzione
e dall'evoluzione del radar, nel ritenere impossibile l'adozione di misure
difensive contro l'arma aerea. Ma avrebbe avuto ragione nel prevedere
l'impossibilità della massimizzazione dei vantaggi portati dai sottomarini, che
proprio nel successivo conflitto mondiale sarebbero stati sconfitti con
l'utilizzo di appositi rilevatori.
Al pari
di tutti i teorici più radicali delle nuove frontiere della guerra, anche Doubet
enfatizza il venir meno della distinzione tra civili e militari. "La distinzione
fra belligeranti e non belligeranti è ormai scomparsa perché tutti lavorano per
la guerra e la perdita di un operaio è forse più grave della perdita di un
soldato" (Douhet, 1951: 127). La guerra totale è eminentemente countervalue: si
dirige contro i gangli vitali dell'economia e del sistema di sicurezza
avversario. Il civile - il grande agglomerato urbano o la grande concentrazione
industriale - compensa con al sua visibilità e la sua vulnerabilità il divenire
invisibile e impenetrabile del militare arroccato nei bunker e nelle trincee:
"la grande offensiva non deve esercitarsi sulle truppe avversarie, le quali sono
difficili da colpire e possono ripararsi; la grande offensiva aerea deve
esercitarsi a tergo, nelle linee di comunicazione dell'avversario, là dove
l'avversario non ha mezzo di ripararsi; là dove l'offesa ha la massima
efficacia" (Douhet, 1951: 118). Ma non si tratta soltanto della cancellazione
della linea divisoria tra combattenti e popolazione civile. La guerra totale
mina radicalmente la possibilità dell'ordine politico sul suo territorio,
distrugge il vincolo tra protezione e obbedienza che costituisce da sempre nella
storia il nucleo di qualsiasi ordinamento politico.
Se i
teorici del potere aereo colgono le implicazioni strategiche che l'introduzione
della nuova arma porta con sé, è merito dei giuristi, in particolare di un
giurista singolarmente attento alle dimensioni spaziali del diritto
internazionale e del diritto bellico come Karl Schmitt, aver afferrato il
profondo significato di questa rivoluzione tecnologico-militare: con la guerra
aerea viene meno la relazione tra il belligerante e la popolazione nemica che
dalla sua forza è colpita, con la conseguente distruzione di ogni rapporto
giuridico all'interno dello stato di belligeranza. Schmitt descrive con una
metafora questa situazione di spettrale irrelazione che la nuova arma viene a
instaurare: "l'uomo che si trova sulla superficie di terraferma sta in rapporto
con gli aerei che agiscono su di lui dall'alto più come un mollusco in fondo al
mare rispetto alle imbarcazioni che si muovono sulla superficie marina che non
invece come rispetto a un suo simile" (Schmitt, 1991: 428). Forse si dovrebbe
aggiungere che la metafora è solo parzialmente azzeccata, visto che il livello
di sicurezza dì quei molluschi rispetto alle sovrastanti imbarcazioni resta
comunque superiore a quello di una popolazione civile inurbata esposta a
bombardamenti massicci.
Dalla
logica della guerra totale nasce lo spirito del totalitarismo. Già Elie Halévy
(1870-1937), ne L'ère des tyrannies (1938), aveva riconosciuto che i regimi nati
dalla guerra sono autoritari e pianificatori. Gli studi sul totalitarismo non
avrebbero tardato a confermare questa connessione di guerra e mobilitazione
totalitaria. Il cameratismo bellico è l'archetipo che sta alla base delle forme
di mobilitazione totalitaria; e la paradossale coniugazione di gerarchia ed
eguaglianza ne costituisce il fulcro. Come ebbe a scrivere T. E. Lawrence,
l'eroe d'Arabia, "tranne che sotto costrizione non esiste vera eguaglianza a
questo mondo" (cit. in Leed, 1985: 39). Ma l'esperienza che quell'archetipo
sottende non è affatto, omogenea. La guerra mondiale svela in realtà un mondo
labirintico, sconosciuto in tali dimensioni a precedenti generazioni di
guerrieri. Questo carattere labirintico, in agguato dietro alla divaricazione
tra ideale e realtà, si proietterà anche sull'esperienza della politica: è
difficile non interpretare buona parte della politica degli anni venti e trenta
come una risposta alle frustrazioni della guerra. La politica totalitaria è la
politica degli sconfitti. È politica in funzione della rivincita. Ma é, più
specificamente. politica in funzione compensatoria. La grande festa frustrata
che la guerra aveva rivelato di non poter essere se non per pochi esaltati viene
ora inscenata in forme rituali, di massa, all'interno di Stati militarmente
organizzati. La retorica della decisione, del dominio e della morte celebra qui,
appunto, i suoi riti compensatori.
(Pier
Paolo Portinaro, Grandi guerre e tecnologia, UTET)