Platone: Il mito di Theuth. L'oralità è meglio della scrittura ("Fedro")
SOCRATE: Ho sentito dunque raccontare che presso Naucrati, in Egitto, (64) c'era uno degli antichi dèi del luogo,
al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il nome della divinità era Theuth.(65) Questi inventò dapprima i numeri,
il calcolo, la geometria e l'astronomia, poi il gioco della scacchiera e dei dadi, infine anche la scrittura.
Re di tutto l'Egitto era allora Thamus e abitava nella grande città della regione superiore che i Greci chiamano Tebe
Egizia, mentre chiamano il suo dio Ammone.(66) Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti e disse che dovevano
essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale fosse l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le passava
in rassegna, a seconda che gli sembrasse parlare bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava. Molti, a quanto si
racconta, furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e nell'altro senso a Theuth su ciascuna arte, e sarebbe troppo
lungo ripercorrerli; quando poi fu alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egizi più sapienti e
più capaci di ricordare, poiché con essa è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza». Allora il re rispose:
«Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa giudicare quale danno o quale vantaggio sono destinate ad
arrecare a chi intende servirsene. Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa
vale.
Questa scoperta infatti, per la mancanza di esercizio della memoria, produrrà nell'anima di coloro che la
impareranno la dimenticanza, perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori mediante caratteri estranei, non
dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della
sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: ascoltando per tuo tramite molte cose senza
insegnamento, crederanno di conoscere molte cose, mentre per lo più le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta,
poiché sono divenuti portatori di opinione anziché sapienti».
FEDRO: Socrate, tu pronunci con facilità discorsi egizi e di qualsiasi paese tu voglia!
SOCRATE: E pensa che alcuni, mio caro, hanno asserito che i primi discorsi profetici nel tempio di Zeus a Dodona
venivano da una quercia!
Agli uomini di allora, dato che non erano sapienti come voi giovani, bastava, nella loro semplicità, ascoltare una
quercia o una roccia, purché dicessero il vero; ma forse per te fa differenza chi è colui che parla e da dove viene.
Non miri infatti solamente a questo, se le cose stanno così o diversamente?
FEDRO: Hai colto nel segno, e mi sembra che riguardo alla scrittura le cose stiano come dice il re di Tebe.
SOCRATE: Allora chi crede di tramandare un'arte con la scrittura, e chi a sua volta la riceve nella convinzione che
dalla scrittura deriverà qualcosa di chiaro e di saldo, dev'essere ricolmo di molta ingenuità e ignorare realmente il
vaticinio di Ammone, se pensa che i discorsi scritti siano qualcosa in più del riportare alla memoria di chi già sa ciò su
cui verte lo scritto.
FEDRO: Giustissimo.
SOCRATE: Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per la verità, di simile alla pittura. Le creazioni della
pittura ti stanno di fronte come cose vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in venerando silenzio. La
medesima cosa vale anche per i discorsi: tu potresti anche credere che parlino come se avessero qualche pensiero loro
proprio, ma se domandi loro qualcosa di ciò che dicono coll'intenzione di apprenderla, questo qualcosa suona sempre e
solo identico. E, una volta che è scritto, tutto quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di chi è
competente così come tra quelle di chi non ha niente da spartire con esso, e non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi
viene offeso e oltraggiato ingiustamente ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, poiché non è capace né di difendersi da
sé né di venire in aiuto a se stesso.
FEDRO: Anche queste tue parole sono giustissime.
Platone, "Fedro", 274 c, e seguenti
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