Platone: Il mito delle cicale ("Fedro")
SOCRATE: Tempo ne abbiamo, a quanto pare. E poi mi sembra che in questa calura soffocante le cicale, cantando
sopra la nostra testa e discorrendo tra loro, guardino anche noi. Se dunque vedessero che anche noi due, come fanno i
più a mezzogiorno, non discorriamo, ma sonnecchiamo e ci lasciamo incantare da loro per pigrizia della mente,
giustamente ci deriderebbero, considerandoci degli schiavi venuti da loro per dormire in questo luogo di sosta come
delle pecore che passano il pomeriggio presso la fonte; se invece ci vedranno discorrere e navigare accanto a loro come
alle Sirene senza essere ammaliati, forse, prese da ammirazione, ci daranno quel dono che per concessione degli dèi
possono dare agli uomini.
FEDRO: E qual è questo dono che hanno? A quanto pare, non l'ho mai sentito.
SOCRATE: Non si addice davvero a un uomo amante delle Muse non averne mai sentito parlare.(46) Si dice che un
tempo le cicale erano uomini, di quelli vissuti prima che nascessero le Muse; quando poi nacquero le Muse e comparve
il canto, alcuni di loro restarono così colpiti dal piacere che cantando non si curarono più di cibo e bevanda e senza
accorgersene morirono. Da loro in seguito ebbe origine la stirpe delle cicale, che ricevette dalle Muse questo dono, di
non aver bisogno di nutrimento fin dalla nascita, ma di cominciare subito a cantare senza cibo né bevanda fino alla
morte, e di andare quindi dalle Muse a riferire chi tra gli uomini di quaggiù le onora, e quale di esse onora. A Tersicore
riferiscono di quelli che l'hanno onorata nei cori, rendendoli a lei più graditi, a Erato di chi l'ha onorata nei carmi
d'amore, e così per le altre, secondo l'onore che ha ciascuna. A Calliope, la più anziana, e a Urania, che viene dopo di
lei, riferiscono di quelli che trascorrono la vita nella filosofia e onorano la loro musica, poiché esse, avendo cura del
cielo e dei discorsi divini e umani, emettono tra tutte le Muse la voce più bella.(47) Per molte ragioni, quindi, a
mezzogiorno bisogna parlare e non dormire.
Platone, "Fedro"
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