Platone, la dialettica come strumento di ricerca e l'arte maieutica di Socrate

 

Nel Teeteto la dialettica è presentata con lo stesso spirito con cui è presentata nel Parmenide e in altri dialoghi della tarda maturità: come strumento di ricerca in comune e pratica di vita filosofica, nello spirito dell’amicizia e della mutua corrispondenza che Socrate richiama nelle prime battute del passo che riportiamo. Dal punto di vista del metodo, qui è ripresa quella ricerca dell’unità e delle sue articolazioni reali che abbiamo visto nel Fedro, e se ne trova una chiara enunciazione attraverso un esempio matematico proposto da Teeteto sulle potenze. Socrate invita Teeteto ad andare avanti su questa strada nel tentativo di comprendere che cosa sia la scienza: "così come hai saputo comprendere la pluralità delle potenze sotto l’unità di un unico termine, sforzati adesso di applicare alla pluralità delle scienze una definizione unica". Questo passo però è importante anche per un’altra ragione: nell’invitare il giovane Teeteto a proseguire nella ricerca seguendo questo metodo, Socrate propone la celebre immagine dell’arte maieutica. I due temi del brano - la dialettica come tecnica che mira alla ricerca dell'unità e l'arte maieutica di Socrate - vanno naturalmente visti nella loro correlazione: l'unità appartiene all'idea, ha una natura oggettiva (come le articolazioni che la compongono) mentre l'arte maieutica e il suo corrispettivo, un'anima in travaglio alla ricerca della verità, appartengono alla sfera della soggettività. Ma se è la verità oggettiva che l'anima cerca, essa non deve porre l'unità, ma imparare a riconoscerla. Dunque la via soggettiva di ricerca non ha di mira un processo inventivo, ma di pura contemplazione. Il "metodo" deve imparare a plasmarsi sulle articolazioni del suo oggetto.



Socrate: "E’ proprio questo che mi rende perplesso e mi impedisce, da solo, di formarmi una concezione adeguata: la scienza, in che cosa esattamente può consistere? Sappiamo veramente dirlo? Che cosa rispondete? Chi di noi parlerà per primo? Ma guai a chi sbaglia, e "chi tutti i colpi sbaglierà, a terra asino si siederà", come dicono i ragazzini che giocano a palla. Chi invece farà il giro senza errori sarà il nostro re e ci porrà le domande che più gli piacciono. Perché questo silenzio? Forse per il fatto che il mio amore per le argomentazioni mi rende un po’ troppo duro, impegnato come sono a far nascere un dialogo che stabilisca tra noi i legami di una amicizia e di una mutua corrispondenza?"
Teodoro: "Ma per niente al mondo, Socrate. Un simile impegno non è duro. Piuttosto è ad uno di questi giovani che bisogna domandare le risposte. Da parte mia io non ho abitudine a questo genere di dialogo e ho passato l’età per abituarmici. Ma a questi giovani conviene farlo; possono trarne un gran profitto perché è proprio vero che la giovinezza consente di progredire in tutto. Ma tu continua con Teeteto; non lasciarlo andare e continua a porgli le domande".
Socrate: "Hai sentito Teeteto quel che dice Teodoro? Disobbedirgli non credo affatto che lo vorrai: sarebbe una grave mancanza se su simili materie un uomo più giovane rifiutasse di obbedire agli ordini di un uomo saggio. E dunque dammi buone e franche risposte: che cosa ti sembra che sia la scienza?"
Teeteto: "Mi tocca dunque obbedirti, Socrate, visto che me lo ordinate; d’altra parte se sbaglio mi correggerete."
Socrate: "Perfetto, sempre che ne siamo capaci."
"Bene mi sembra innanzitutto che tutto quello che si può apprendere da Teodoro sua scienza: la geometria, con tutte le discipline che tu hai prima richiamato. Anche l’arte del calzolaio e tutte le tecniche degli altri artigiani prese nel loro insieme, o ad una ad una, non sono altro che scienze".
"Il gesto è nobile e generoso amico mio: ti si chiede uno, tu dai molti; ti si chiede qualcosa di unitario, tu dai un misto."
"Che vuoi dire Socrate?"
"Forse niente; ma cercherò di spiegarti quel che penso. Per arte del calzolaio tu intendi qualcos’altro che la scienza di imparare a fare delle scarpe?"
"Nient’altro".
"E per arte del falegname intendi un’altra cosa che la scienza di apprendere a fabbricare tutti gli oggetti in legno?"
"Intendo questo, non un’altra cosa".
"Ciò che tu definisci così nei due casi non è forse ciò di cui tratta l’una o l’altra di queste scienze?"
"Sì".
"Ma, Teeteto, non ti ho affatto chiesto questo: né quale sia l’oggetto della scienza, né quante scienze vi siano. Infatti il mio pensiero non era di chiederti di enumerarle, ma sapere che cosa è in sé la scienza. Dico forse una cosa priva di senso?"
"Al contrario, dici una cosa del tutto corretta".
"Considera dunque ancora questo punto; supponi che noi ci si interroghi su qualcosa di banale e di facile: per esempio su ciò che può essere l’argilla. Risponderemo forseche c’è l’argilla dei vasai, l’argilla di quelli che lavorano nei forni, l’argilla dei fabbricanti di mattoni? E non cadremmo così nel ridicolo?"
"Forse sì".
"E’ innanzitutto ridicolo, io penso, credere che l’interlocutore comprenda qualcosa delle nostre risposte quando noi enunciamo la parola "argilla" e vi aggiungiamo la menzione dei fabbricanti di bambole o non importa di quali altri artigiani. Credi forse che si comprenda il nome di un oggetto quando non si sa che cos’è questo oggetto?"
"Affatto".
"Dunque non si comprende niente dell’espressione scienza delle calzature se non si sa che cos’è la scienza."
"Certo no."
"E neppure si comprende che cosa significhi scienza del calzolaio, né di alcun’altra arte se non si ha alcuna idea della scienza."
"E’ esatto. E allora rispondere con il nome di una qualsiasi arte, significa dare una risposta ridicola a chi ci domanda che cosa è la scienza. Significa rispondere "scienza di una certa cosa", mentre la questione era tutt’altra."
"Sì sembra così".
"In secondo luogo, io penso, si potrebbe dare una risposta semplice e breve, mentre si va a fare un giro per una strada interminabile. La domanda sull’argilla per esempio aveva una risposta banale, in ultima analisi, semplice: si poteva dire che l’argilla è terra impastata con acqua e non aveva importanza richiamare chi la lavora".
"A questo punto, Socrate, almeno adesso, la questione mi sembra facile: mi sembra però che rischi di essere simile a quella che ci si è presentata poco fa, parlando a due, io e il tuo omonimo, il Socrate che è qui."
"A cosa ti riferisci, Teeteto?"
"Teodoro, qui, ci aveva proposto la struttura di alcune potenze mostrandoci che quelle di tre e di cinque piedi, considerate secondo la loro lunghezza, non sono commensurabili con quelle di un piede, e continuò così a studiarle, una per una fino a quella di diciassette piedi: poi, non so perché, si fermò lì. A noi allora venne in mente, visto che il numero delle potenze sembra infinito, di cercare di raccoglierle sotto un unico termine che potesse servire a designare tutto ciò che appartiene alle potenze."
"E avete trovato qualcosa di adeguato?"
"Credo di sì: giudica tu."
"Parla pure."
"Tutto l’insieme dei numeri l’abbiamo separato in due gruppi: quelli che possono derivare da un prodotto di due fattori uguali li abbiamo rappresentati mediante la figura del quadrato e li abbiamo chiamati quadrati ed equilateri."
"Bene fin qui."
"Quelli intermedi tra i numeri del primo genere, come il tre, il cinque e in generale tutti i numeri che non possono derivare dal prodotto di due fattori uguali, ma derivano sempre dal prodotto di un numero maggiore e di un numero minore, o di un numero minore per uno maggiore, e costituiscono sempre una figura in cui uno dei lati è più grande dell’altro, noi li abbiamo rappresentati con la figura del rettangolo."
"Eccellente. E poi?"
"Tutte le linee per cui il quadrato costituisce il numero piano equilatero noi le abbiamo definite lunghezze. Tutte quelle di cui il quadrato costituisce il numero di cui i due fattori sono ineguali li abbiamo definiti potenze perché, non commensurabili alle prime se le si considera secondo la loro lunghezza, sono loro commensurabili se si considerano le superfici che esse possono formare. Per i solidi, infine abbiamo fatto distinzioni analoghe."
"Avete fatto la cosa migliore al mondo, ragazzi! Credo proprio che Teodoro non possa essere accusato di falsa testimonianza."
"Ora, Socrate, alla domanda che tu mi hai posto a proposito della scienza io non saprei rispondervi come ho fatto per la lunghezza e la potenza. E tuttavia mi sembra che tu cerchi qualcosa di simile; e allora nuovamente Teodoro sembra un falso testimone."
"E perché mai? Se egli ti avesse lodato come corridore affermando di non aver ancora trovato un giovane che possa batterti nella corsa e poi tu fossi stato vinto in una gara di velocità da un corridore migliore a causa della sua età, tu credi che vi sarebbe minore verità nell’elogio che egli ti aveva fatto?"
"Penso proprio di no."
"E credi forse che la scienza sia ciò che dicevamo prima, e cioè una scoperta facile e che non richiede spiriti assolutamente superiori?"
"Al contrario, per Zeus, credo proprio che occorrano gli spiriti più alti".
"Abbi dunque fiducia in te stesso e credi dunque che Teodoro ha detto cose serie e così dai spazio al tuo ardore e concentrati adesso su che cos’è la scienza".
"Il mio ardore, Socrate, sono pronto a provarlo".
"E allora avanti, perché proprio tu hai già brillantemente tracciato la strada. Prendi come modello la tua risposta alla questione delle potenze: così come hai saputo comprendere la loro pluralità sotto l’unità di un unico termine, sforzati adesso di applicare alla pluralità delle scienze una definizione unica".
"Però devi sapere, Socrate, che io ho già intrapreso quest’esame diverse volte, stimolato dalle tue domande la cui eco era arrivata fino a me. Sfortunatamente non posso dirmi soddisfatto delle risposte formulate, e non so trovare in quelle che provo a formulare l’esattezza che tu richiedi, né come suprema risorsa so liberarmi dal desiderio di sapere".
[...]
"Non so, Socrate, posso solo dirti ciò che provo".
"E allora, ragazzo mio, non hai sentito dire che sono figlio di Fenarete, la levatrice tra le più note e abili?"
"Certo che l’ho sentito dire".
"E che io pratico la stessa arte l’hai sentito dire?"
"Questo no".
"Sappi allora che è così, ma non dirlo in giro. Infatti la gente è ben lontana, amico mio dal pensare che io possegga quest’arte. La gente, che non lo sa non dice questo di me, ma che sono un tipo bizzarro e non creo negli spiriti altro che perplessità. Questo l’hai sentito dire?"
"Questo sì".
"Ne vuoi sapere il motivo?"
"Te ne prego".
"Ricorda quel che sai degli usi e dei costumi delle levatrici e così capirai più facilmente ciò che voglio dirti. Infatti tu sai, immagino, che non sono le donne ancora in grado di concepire e di partorire a far questo mestiere per le altre; lo fanno soltanto quelle che non possono più partorire".
"Certo".
"L’autrice di questa legge è, si dice, Artemide, che senza aver mai partorito ha ricevuto in sorte il compito di presiedere ai parti. Alle sterili non ha dunque dato il potere di fare da levatrici perché la natura umana è troppo debole perché possa acquisire un’arte senza averne avuto esperienza; ma a quelle a cui l’età impedisce di partorire ella ha dato questo compito per onorare in loro la sua immagine."
"E’ verosimile".
"E non è ancora più verosimile e necessario che proprio le levatrici sappiano distinguere le donne che abbiano concepito dalle altre?"
"Certo".
"Non è forse vero che le levatrici sanno inoltre con le loro droghe e i loro incantesimi stimolare le doglie a loro volontà o mitigarle, portare a termine parti difficili e, se ad esse pare cosa buona, fare abortire il frutto non ancora maturo, provocando l’aborto?"
"E’ esatto".
"Ed hai notato inoltre il fatto che loro sono le più esperte tra le mediatrici di nozze, perché hanno un’estrema abilità nel riconoscere quali donne e quali uomini si devono unire per mettere al mondo i figli più dotati?"
"Questo lo ignoravo totalmente".
"E allora sappi bene che esse ne sono più fiere che di sapere tagliare il cordone ombelicale. Riflettici infatti: è o non è la stessa arte curare e raccogliere i frutti della terra e saper riconoscere in quale terra quella pianta e quelle sementi devono essere piantate?"
"Non è altro che la stessa arte".
"Ma quando si tratta di donne tu credi, amico caro, che sia diversa l’arte di preparare la semina da quella del raccolto?"
"Non è verosimile".
"Non lo è infatti. Ma poiché un commercio senza onore e senza arte accoppia uomini e donne in quella che si chiama prostituzione, una avversione per l’arte delle mediatrici di nozze ha colpito quelle persone onorevoli che sono le levatrici: esse temono infatti di cadere nel sospetto di un tal commercio con la pratica della loro arte. Ma è proprio alle vere levatrici e a esse solo, io credo, che appartiene l’arte di combinare matrimoni con successo".
"Così sembra".
"Ecco dunque fin dove arriva il compito delle levatrici; ma ben superiore è il mio ruolo. Non accade infatti che le donne talvolta partoriscano una vana apparenza e altre volte un frutto reale e che vi sia difficoltà a distinguere le due cose. Se questo accadesse, il più importante dei compiti delle levatrici sarebbe distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è affatto. Non sei di quest’avviso?"
"Sì certo".
"La mia arte maieutica ha in generale le stesse caratteristiche della loro. La differenza è che la mia arte opera con gli uomini e non con le donne e che è l’anima che essa sorveglia nel travaglio del parto, non il corpo. Ma il più grande privilegio dell’arte che io pratico è di sapere mettere alla prova e distinguere, con grande rigore, se la riflessione di un giovane è gravida di apparenza vana e menzognera o del frutto della vita e della verità. Infatti io ho gli stessi limiti delle levatrici. Non è in mio potere generare nella saggezza e le critiche che nel passato mi sono state rivolte - che pongo domande agli altri ma non dico mai la mia opinione personale su alcuna cosa, e che la causa di questo è che la mia saggezza è cosa da nulla - è un rimprovero che risponde a verità. Eccola la vera causa: far da levatrice agli altri è il compito che il dio mi ha imposto; procreare è un potere che non mi ha dato. Io non sono dunque dentro di me saggio in nessun grado e non ho da parte mia generato nella mia anima proprio nulla. Ma coloro che entrano in rapporto con me all’inizio sembrano non saper nulla - qualcuno anche sembra non saper proprio nulla del tutto -, ma poi a mano a mano che mi stanno vicino e per quel tanto che il dio glielo concede è meravigliosa la velocità con cui progrediscono, sia a loro proprio giudizio sia a quello degli altri. Ed è chiarissimo il fatto che loro non hanno mai imparato nulla da me ed hanno da soli, in se stessi, concepito questa ricchezza di bei pensieri che scoprono e portano alla luce. Però il dio ed io siamo stati le loro levatrici. Ed ecco la prova. Molti non hanno compreso questo ed hanno creduto di avere da sé questo potere e non hanno capito il mio ruolo. Si sono dunque persuasi da soli, o si sono lasciati persuadere da altri, ad allontanarsi da me prima del dovuto: si sono allontanati e così hanno lasciato non soltanto abortire tutti gli altri frutti immaturi nelle altre loro cattive frequentazioni, ma hanno anche dato cattivi alimenti ai frutti già maturati con me, facendoli deperire dando più importanza a menzogne e a vane apparenze che al vero. E così è finita che sia ai propri occhi che a quelli degli altri vanno facendo la figura degli ignoranti. Fra questi c’è Aristide, il figlio di Simaco e molti altri. Talvolta tornano da me chiedendomi di rientrare in rapporti con loro e sono disposti a tutto perché io acconsenta. Con alcuni la saggezza divina che viene a farmi visita mi impedisce di tornare in rapporti con loro; con altri me lo consente ed essi tornano a dar frutto. Ciò che accade a chi mi frequenta è simile anche su un altro punto a ciò che accade alle donne nelle doglie del parto: essi provano dolore, sono pieni di perplessità che li tormentano a lungo di notte e di giorno, più delle donne che stanno per partorire. Ora, questi dolori la mia arte ha il potere di risvegliarli come di calmarli. Ecco dunque come vanno le cose con queste persone. Ma ve ne sono altri, Teeteto, che io ritengo non abbiano in gestazione alcun frutto. Capisco allora che non hanno alcun bisogno di me; con grande benevolenza mi occupo di loro e grazie al dio riesco a indovinare molto esattamente da quali frequentazioni essi potranno trarre profitto. Molti li ho spinti a legarsi a Prodico, molti ad altri uomini saggi. Perché, mio caro, mi sono dilungato in tutti questi dettagli? Perché penso, e tu stesso lo pensi, che tu stia sentendo il travaglio di un’intima gestazione. Affidati dunque a me come al figlio di una levatrice che possiede anch’egli l’arte maieutica; sforzati di rispondere alle mie domande più esattamente che puoi; e se, esaminando qualcuna delle tue formule, io ritengo di trovarvi vane apparenze, e non verità, e allora la strappo da te e la getto lontano, non prendertela con me con quel furore selvaggio che prende le giovani donne minacciate dalla perdita del loro primo figlio. Molti si sono comportati così verso di me, mio meraviglioso giovane, e sono arrivati a tal punto di diffidenza da essere realmente pronti a mordere per la prima sciocchezza che io levo loro. Non immaginano affatto che è per il loro bene che io agisco così; sono troppo lontani dal sapere che nessun dio vuole del male agli uomini e che io non è affatto per malvagità che agisco così, ma perché mi è proibito da ogni legge divina dir di sì alle menzogne e oscurare la chiarezza del vero. Riprendi dunque la questione dall’inizio, Teeteto: cerca di dire in che cosa consiste la scienza; e guardati bene dal dire ancora che non ne sei capace perché se Dio lo vuole e ti darà la forza di un uomo, ne sarai capace"

 

(Platone, Teeteto, 145 e - 151 d)