Platone, Filosofia è avere tempo in un mondo che non ne ha

 

Questo brano contiene la celebre narrazione di Talete e della servetta tracia. All'indagine sulla dialettica aggiunge due elementi importanti: 1) la necessità di dedicare alla filosofia il tempo che le occorre; Platone qui è durissimo: solo i filosofi sono liberi, gli altri sono servi, "persone educate a servire paragonate a uomini liberi"; ma questo fa del filosofo una persona diversa dalle altre, e non è affatto detto che gli altri lo accolgano bene (si ricordi cosa è detto nella Repubblica a proposito dello schiavo liberato, che ricorda la figura di Socrate e la sua morte, e le stesse esperienza personali di Platone in Sicilia descritte nella Settima Lettera). Nel secondo brano del Sofista che qui riportiamo Platone torna a definire la dialettica "scienza degli uomini liberi". 2) la dialettica non è percorso lineare, ma consente di seguire linee divergenti e non sempre linearmente coerenti (tanto che il discorso va lasciato lì, a volte, per prenderne un altro, con brusco salto): questo fatto richiama l'idea che il compito non sia terminabile, la ricerca non possa finire (e la dialettica sia uno stile di vita, oltre che pensiero). E' comunque ricerca dalle molte vie.



Teodoro: "E non abbiamo dunque tempo a nostra disposizione, Socrate?"
Socrate: "Certo che l’abbiamo. A dire il vero, mio venerabile amico, mi è venuto di fare la stessa riflessione che adesso mi si impone a proposito di un’altra cosa: sembra proprio che le persone che hanno dedicato molto tempo della loro vita alle ricerche filosofiche quando vanno davanti ai tribunali fanno una figura ridicola come oratori".
"Che vuoi dire?"
"Quelli che fin da giovani hanno frequentato tribunali e luoghi simili se messi in rapporto con coloro che sono stati allevati nella filosofia, e negli studi che essa ispira, rischiano proprio di sembrare persone educate a servire, paragonati a uomini liberi".
"Come mai?"
"E’ che a questi ultimi il bene che tu dici è sempre presente: hanno tempo, e i loro discorsi sono fatti con calma, col tempo che ci vuole. Guarda noi adesso: è già la terza volta che prendiamo discorso dopo discorso; essi fanno la stessa cosa se un argomento, a loro come a noi, piace di più di quello che stanno trattando e non importa loro nulla della lunghezza o brevità dell’argomento: importa solo di raggiungere la verità. Gli altri non parlano mai che a gente a cui il tempo manca: l’acqua della clessidra che scorre davanti ai loro occhi non si ferma ad aspettarli. Non hanno libertà di andare a fondo a loro gradimento sull’argomento del loro discorso: la necessità è là, il loro avversario è implacabile con il suo atto di accusa, e gli articoli della legge una volta proclamati sono barriere che l’arringa non deve oltrepassare, consacrati da reciproco giuramento. Queste persone non sono mai altro che schiavi davanti al loro comune padrone che siede avendo nelle mani una qualche denuncia. I loro argomenti non hanno mai una portata indifferente, ma sempre immediatamente personale, e spesso la loro stessa vita è il prezzo della gara; così tutte queste prove rafforzano le loro energie, aguzzano il loro ingegno, li rendono abili a dir parole che adulano il padrone, insegnano loro la maniera di guadagnarne la benevolenza e le loro anime diventano piccole e contorte. Crescita, rettitudine, libertà, la stessa giovinezza, tutto la schiavitù porta loro via, costringendoli a pratiche tortuose; getta le loro anime ancora giovani in pericoli così gravi e in così gravi paure che non potendo contrapporvi il giusto e il vero, si rivolgono tutti alla menzogna, all’ingiustizia che si fanno gli uni con gli altri, e così si piegano, vivono in modo contorto, si rimpiccioliscono. Così non c’è più nulla di sano nel loro pensiero quando la loro adolescenza ha termine e diventano uomini, e credono di essere esperti e saggi. Ecco dunque il loro ritratto, Teodoro; quanto a coloro che formano il nostro coro, vuoi che li passiamo in rassegna o vuoi che senza fermarci torniamo ai nostri argomenti per evitare di esagerare in quel che abbiamo appena finito di dire, usando in eccesso la nostra libertà e passando facilmente da discorso a discorso?"
"Per nulla Socrate: passarli in rivista si impone, tu hai detto molto bene: non siamo affatto noi che formiamo questo coro legati ai discorsi come dei servi. Sono i discorsi ad essere nostri, come gente di casa, e ciascuno di essi aspetta finché a noi piace di finire con lui. Non c’è giudice infatti, non c’è spettatore, come ne hanno sempre davanti i poeti, che siano lì a valutarci e a comandarci."
"Parliamo dunque dei maestri del coro visto che dobbiamo farlo, sembra, visto che tu giudichi questa una cosa da fare; perché di coloro che non apportano nessuna genialità nella loro pratica della filosofia, a che scopo parlarne? Dei veri filosofi posso dire questo, che nella loro giovinezza essi certamente ignorano quale sia la strada che porta alla pubblica piazza, a quale indirizzo si trovino il tribunale, la sala del consiglio e tutte le altre sale in cui in comune nella città si prendono le decisioni. Essi non hanno né la vista né l’eco delle leggi, delle decisioni, dei relativi dibattiti o della redazione dei decreti. Gli intrighi delle eterie per conquistare una magistratura, le riunioni, i festini, i giochi allietati da suonatrici di flauto, a tutto questo non si sognano nemmeno di prender parte. Ciò che è accaduto di bene o male nella città, i guai che a qualcuno hanno trasmesso i suoi anziani, uomini o donne, di tutto questo il filosofo sa meno, dice il proverbio, del numero dei boccali per riempire il mare, e tutto questo non sa affatto di non saperlo perché se si astiene da queste cose non è allo scopo di crearsi una fama: questo dipende dal fatto che soltanto la realtà del suo corpo ha nella città abitazione e sede. Il suo pensiero, invece, non tiene affatto conto di tutto ciò che vale poco o niente e guida il suo volo dappertutto come dice Pindaro, "sondando gli abissi della terra e misurandone le superfici, seguendo il cammino degli astri ‘nelle profondità dei cieli’ e, di ciascuna realtà, scrutando la natura nel suo dettaglio e nel suo insieme senza mai lasciarsi irretire da ciò che è immediatamente vicino".
"Che vuoi dire con questo Socrate?"
"Voglio dir questo. Un giorno Talete osservava gli astri, Teodoro, e con lo sguardo rivolto al cielo finì per cadere in un pozzo; una sua giovane serva della Tracia, intelligente e graziosa, lo prese in giro, dicendogli che con tutta la sua scienza su quel che accade nei cieli, non sapeva neppure vedere quel che aveva davanti ai piedi. La morale di questa storia può valere per tutti coloro che passano la loro vita a filosofare, ed effettivamente un uomo simile non conosce né vicini né lontani, non sa cosa fanno gli altri uomini, e nemmeno se sono uomini o altri esseri viventi. Ma che cosa sia un uomo, in che cosa per sua natura deve distinguersi dagli altri esseri nella attività o nella passività che gli è propria, ecco, di questo il filosofo si occupa, a questa ricerca consacra le sue pene. Immagino che tu mi segua, Teodoro, o mi sbaglio?"
"Ti seguo e quel che dici è la verità."
"E’ questo dunque, mio buon amico, nei rapporti privati il nostro filosofo; ed è così anche nella vita pubblica, come ti dicevo all’inizio. Quando nei tribunali o altrove bisogna che, contro la sua volontà, tratti di cose che sono davanti a lui, sotto i suoi occhi, finisce non soltanto per far ridere le donne di Tracia, ma cade effettivamente nei pozzi, non esce dalle difficoltà della vita, per mancanza di esperienza, e la sua terribile goffaggine gli fa fare la figura dello stupido. Infatti, se è costretto a subire le cattiverie della gente, non sa lanciare a nessuno degli insulti perché non sa nulla dei mali di ciascuno: non se ne è mai occupato. Messo così in difficoltà, appare ridicolo. Di fronte agli elogi, all’arroganza cui gli altri si gloriano, non fa affatto finta di ridere, ma ride davvero, e in modo così aperto da essere scambiato per uno stupido".

 

(Platone, Teeteto, 172 c - 177 c)