PLATONE, SUL SUICIDIO
Ma chi uccide la cosa che gli è più propria, la cosa che, si dice comunemente, gli è più cara? Che cosa dovrà patire? E intendo chi se stesso uccide, sottraendosi con violenza al destino che gli è assegnato; chi compie tale delitto, senza che la Città lo abbia condannato a morire, senz'esser costretto da qualche caso inevitabile e angoscioso; senz'esser stato colpito da qualche ignominia che non ha rimedio e tale che renda impossibile la vita; chi per inerzia e viltà e debolezza impone a se stesso ingiusta sentenza. Certo Iddio conosce la procedura per la purificazione e per la sepoltura di costui. A questo proposito, gli interpreti e le leggi, a ciò relative, saranno interrogate a cura dei parenti più vicini che dovranno comportarsi secondo le date istruzioni. In quanto alla sepoltura di chi si è in tal modo distrutto, sarà, intanto, isolata e non ci sarà nessuna altra tomba vicina; in secondo luogo (...), in quei posti che non sono lavorati; senza nome e senza pompa si dovrà seppellir lo sciagurato, senza lapidi e senza iscrizioni che ne distinguano la fossa.
(Platone, Leggi, IX, 873, C -D)