La
riflessione è necessaria perché essa è il modo con cui cerchiamo di
interpretare, e quindi di comprendere, il nostro esistere attraverso i segni,
le opere che abbiamo disseminato nel mondo.
P. Ricoeur, De
l’interprétation. Essai
sur Freud, Paris, 1965, trad.
it. Dell’interpretazione. Saggio su Freud, di E. Renzi, Il Saggiatore,
Milano, 1967, pagg. 60-63
La filosofia è etica nella misura in cui conduce dall’alienazione alla libertà e alla beatitudine; in Spinoza tale conversione è raggiunta quando la conoscenza di sé è resa eguale alla conoscenza dell’unica sostanza; ma nella misura in cui l’individuo alienato è trasformato dalla conoscenza del tutto, questo progresso speculativo ha una significazione etica. La filosofia è etica, ma l’etica non è puramente morale. Adottando quest’uso spinoziano del termine etica, dobbiamo dire che la riflessione è etica prima di diventare una critica della moralità. Il suo scopo è di cogliere l’Ego nel suo sforzo per esistere, nel suo desiderio di essere. È qui che una filosofia riflessiva ritrova e forse salva l’idea platonica che la fonte della conoscenza è essa stessa Eros, desiderio, amore, o l’idea spinoziana per cui è conatus, sforzo. Questo sforzo è un desiderio, giacché non è mai soddisfatto; giacché è la posizione affermativa di un essere singolare e non semplicemente una mancanza d’essere, questo desiderio è uno sforzo. Sforzo e desiderio sono i due aspetti della posizione del “Sé” nella prima verità, io sono.
Siamo adesso in grado di completare la nostra proposizione negativa – la riflessione non è l’intuizione – mediante una proposizione positiva: la riflessione è l’appropriazione del nostro sforzo per esistere e del nostro desiderio d’essere, attraverso le opere che testimoniano di questo sforzo e di questo desiderio. Per questo motivo la riflessione è piú di una semplice critica del giudizio morale; anteriormente a ogni critica del giudizio, essa riflette su quell’atto di esistere da noi dispiegato nello sforzo e nel desiderio.
Questa terza via di sviluppo ci conduce alla soglia del nostro problema dell’interpretazione. La posizione di quello sforzo o di quel desiderio non solo è priva di ogni intuizione, ma non è attestata che da opere il cui significato resta dubbio e revocabile. È qui che la riflessione fa appello a una interpretazione e vuole mutarsi in ermeneutica. Questa è la radice ultima del nostro problema: essa si trova in questa connessione primitiva tra l’atto di esistere e i segni che esibiamo nelle nostre opere; la riflessione deve diventare interpretazione, in quanto non mi è possibile afferrare l’atto di esistere in altro luogo che nei segni disseminati nel mondo. Questo è il motivo per cui una filosofia riflessiva deve includere i risultati, i metodi e i presupposti di tutte le scienze che tentano di decifrare e di interpretare i segni dell’uomo.
Tale è, nel suo principio e nella sua piú vasta generalità, la radice del problema ermeneutico. Lo pongono, da una parte l’esistenza di fatto del linguaggio simbolico che fa appello alla riflessione, ma anche, in senso diverso, l’indigenza della riflessione che fa appello all’interpretazione: ponendo se stessa, la riflessione comprende la propria impotenza a superare l’astrazione vana e vuota dell’“io penso” e la necessità di ricuperare se stessa decifrando i propri segni perduti nel mondo della cultura. Cosí la riflessione comprende da sé che non è innanzitutto scienza, che, per dispiegarsi, le è necessario riprendere in se stessa gli opachi, contingenti ed equivoci segni che sono dispersi nelle culture in cui il nostro linguaggio si radica.
Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991,
vol. II, pagg. 463-464