Secondo Rousseau soltanto la
volontà generale può guidare lo Stato a realizzare il bene comune, perché la
sovranità, inalienabile e indivisibile, deve esprimersi in un corpo collettivo.
Ma infine la
volontà generale, per Rousseau, non coincide con la somma delle singole
volontà individuali e private: essa è una realtà nuova e autonoma.
J.-J. Rousseau, Il contratto
sociale, II, 1; II, 2; II, 3
La volontà
generale soltanto può dirigere le forze dello Stato secondo il fine per cui
questo è stato istituito, cioè il bene comune; infatti, se l'opposizione degli
interessi particolari ha reso necessaria l'istituzione della società, questa a
sua volta è stata resa possibile dalla concordanza di quei medesimi interessi.
Proprio ciò che vi è di comune in questi diversi interessi forma il vincolo
sociale, e se non vi fosse qualche punto sul quale tutti gli interessi si
accordassero, nessuna società potrebbe esistere. Orbene è unicamente sulla base
di questo interesse comune che la società deve essere governata.
Sostengo
pertanto che, non essendo la sovranità altro che l'esercizio della volontà
generale, essa non può mai venire alienata, e che il sovrano, non essendo altro
che un essere collettivo, non può venir rappresentato se non da se stesso: il
potere può venir trasmesso, ma non la volontà.
Infatti, se
non è impossibile che una volontà particolare si accordi su qualche punto con
la volontà generale, è peraltro impossibile che tale accordo sia durevole e
costante, poiché la volontà particolare tende per sua natura alle preferenze e
la volontà generale all'eguaglianza [...]. Il sovrano può bensí dire: io voglio
attualmente ciò che vuole tale uomo o per lo meno ciò che egli afferma di
volere; ma non può dire: ciò che quest'uomo vorrà domani lo vorrò a mia volta,
poiché è assurdo che la volontà si ponga dei vincoli per l'avvenire e poiché
non dipende da alcuna volontà di consentire a qualcosa di contrario al bene
dell'essere che vuole. Se dunque il popolo promette semplicemente di obbedire,
con questo atto esso si dissolve, perde la propria qualità di popolo; non
appena vi è un padrone non vi è piú sovrano, e da quel momento il corpo
politico è distrutto [...].
Per la
stessa ragione per cui la sovranità è inalienabile, essa è indivisibile. La volontà
infatti o è generale o non lo è; è quella del corpo del popolo, o soltanto di
una sua parte. Nel primo caso, questa volontà dichiarata è un atto di sovranità
e costituisce legge; nel secondo, non è che una volontà particolare o un atto
di magistratura: tutt'al piú si tratta di un decreto [...].
La volontà
generale è sempre retta e tende sempre alla pubblica utilità; ma da ciò non
consegue che le deliberazioni del popolo abbiano sempre la stessa rettitudine.
Si vuole sempre il proprio bene, ma non sempre lo si vede; non si corrompe mai
il popolo ma sovente lo si inganna, ed è solamente in tal caso che esso sembra
volere ciò che è male.
Spesso vi è
una gran differenza fra la volontà di tutti e la volontà generale: questa ha di
mira soltanto l'interesse comune, l'altra ha di mira l'interesse privato e non
è che una somma di volontà particolari; ma se da queste stesse volontà si
tolgono i piú e i meno che si annullano fra loro, come somma delle differenze
rimane la volontà generale.
Se, quando
il popolo sufficientemente informato delibera, i cittadini non avessero alcuna
comunicazione tra di loro, dalle molteplici piccole differenze risulterebbe
sempre la volontà generale, e la deliberazione sarebbe sempre buona. Ma quando
sorgono delle consorterie, delle associazioni parziali a spese della grande
associazione, la volontà di ognuna di queste associazioni diventa generale nei
confronti dei suoi membri e particolare nei confronti dello Stato. Si può dire
allora che non vi sono piú tanti votanti quanti sono gli uomini, ma soltanto
quante sono le associazioni. Le differenze divengono meno numerose e danno un
risultato meno generale. Infine, quando una di queste associazioni è cosí
grande da superare tutte le altre, non si ha piú come risultato una somma di
piccole differenze, ma una differenza unica; non vi è piú allora una volontà
generale, e l'opinione che ha il sopravvento non è che una opinione
particolare.
Occorre
quindi, per avere l'espressione vera della volontà generale, che non vi sia
nello Stato alcuna società parziale e che ogni cittadino pensi con la propria
testa. [...]
(Grande Antologia Filosofica,
Marzorati, Milano, 1968, vol. XV, pagg. 892-894)