Rousseau
descrive come l'uomo si è allontanato dallo stato di natura. L'introduzione della proprietà privata è stato un
elemento fondamentale per la nascita dell'individualismo e dei condizionamenti
sociali.
J.-J.
Rousseau, Discorso sull'origine della disuguaglianza, II
Il primo uomo che, avendo recinto un terreno,
ebbe l'idea di proclamare questo è mio, e trovò altri cosí ingenui da
credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile. Quanti delitti,
quante guerre, quanti assassinii, quante miserie, quanti orrori avrebbe
risparmiato al genere umano colui che, strappando i pali o colmando il fosso,
avrebbe gridato ai suoi simili: “Guardatevi dall'ascoltare questo impostore; se
dimenticherete che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno,
sarete perduti!”. Ma è molto probabile che ormai le cose fossero già giunte al
punto da non poter piú durare come erano prima; infatti questa idea di
proprietà, dipendendo da molte idee precedenti formatesi evidentemente in
momenti successivi, non si è formata di colpo nella mente umana: è stato
necessario compiere molti progressi, acquistare molte capacità e molti lumi,
trasmetterli e accrescerli di età in età, prima di giungere a questo termine
ultimo dello stato di natura. Riprendiamo dunque le cose dall'inizio, cercando
di abbracciare con un unico sguardo questa lenta successione di avvenimenti e
di conoscenze nel loro ordine piú naturale. [...]
A misura che le idee e i sentimenti si
susseguono, che la mente e il cuore si esercitano, il genere umano continua ad
addomesticarsi, i rapporti si allargano e i legami si stringono. Cominciò
allora l'usanza di radunarsi davanti alle capanne o intorno ad un grande
albero; il canto e la danza, veri figli dell'amore e dell'ozio, divennero il
divertimento o meglio il passatempo degli uomini e delle donne sfaccendati e
assembrati. Ognuno cominciò a guardare gli altri e a voler essere a sua volta
guardato; la stima pubblica cominciò cosí ad aver valore. Colui che cantava o
ballava meglio di tutti, il piú bello, il piú forte, il piú destro o il piú
eloquente divenne il piú considerato e fu questo il primo passo verso la
disuguaglianza e nello stesso tempo verso il vizio; da queste prime preferenze
nacquero da un lato la vanità e il disprezzo, dall'altro la vergogna e
l'invidia; e il fermento prodotto da questi nuovi lieviti dette luogo infine a
prodotti funesti, alla felicità e all'innocenza.
Non appena gli uomini ebbero cominciato ad
apprezzarsi vicendevolmente e nella loro mente sorse l'idea della
considerazione, tutti pretesero di avervi diritto e non fu piú possibile per
nessuno di farne a meno impunemente. Nacquero cosí i primi doveri delle buone
maniere, anche presso i selvaggi, e ogni torto fatto volontariamente divenne un
oltraggio, poiché oltre al male derivante dall'ingiuria, l'offeso vi vedeva
anche il disprezzo verso la sua persona, piú insopportabile sovente del male
stesso. Fu cosí che, punendo ognuno il disprezzo che gli era stato dimostrato
in maniera proporzionale alla importanza da lui attribuita a se stesso, le
vendette divennero terribili e gli uomini sanguinari e crudeli. ” questo
appunto lo stadio a cui erano giunti la maggior parte dei popoli selvaggi a noi
noti; e se molti si sono affrettati a concluder da ciò che l'uomo è
naturalmente crudele e che ha bisogno di disciplina per esser addolcito, ciò lo
si deve al fatto che non si erano distinte con sufficiente precisione le idee e
perché non si era osservato quanto tali popoli fossero già lontani dal primitivo
stato di natura. In realtà nulla vi è di piú dolce dell'uomo nel suo stato
primitivo, allorché, posto dalla natura a uguale distanza dalla stupidità dei
bruti e dai lumi funesti dell'uomo civile, e spinto unicamente, sia
dall'istinto che dalla ragione, a difendersi dal male che lo minaccia, egli è
trattenuto dal fare del male ad alcuno dalla pietà naturale e non vi è spinto
da nulla, neppure dopo averne ricevuto. [...]
Ma va osservato che una volta nata la
società, le relazioni già istituite fra gli uomini esigevano da essi qualità
diverse da quelle inerenti alla loro primitiva costituzione. Poiché la moralità
cominciava a introdursi nelle azioni umane e poiché ognuno, prima che vi
fossero leggi, era unico giudice e vendicatore delle offese ricevute, la bontà
adatta al puro stato di natura non conveniva piú alla società nascente;
occorreva che le punizioni diventassero piú severe a misura che le occasioni di
offesa diventavano piú frequenti, e il terrore delle vendette doveva tenere il
posto del freno delle leggi. In questo modo, sebbene gli uomini fossero
divenuti meno resistenti e sebbene la pietà naturale avesse già subito qualche
alterazione, questo periodo di sviluppo delle facoltà umane - che sta proprio a
mezza via tra l'indolenza dello stato primitivo e la petulante attività del
nostro amor proprio è dovette essere l'epoca piú felice e piú durevole. Quanto
piú vi si riflette, tanto piú si capisce come questa condizione fosse la meno
soggetta alle rivoluzioni, fosse la piú consona all'uomo, e come egli ne sia
uscito solo per un qualche caso funesto che, per l'utilità comune, non avrebbe
mai dovuto accadere. L'esempio dei selvaggi, che quasi tutti sono stati trovati
fermi a questo stadio, sembra confermare che il genere umano era fatto per
restarvi sempre, che questa condizione costituisce la vera giovinezza del mondo
e che tutti i successivi progressi, se sono stati in apparenza altrettanti
passi verso la perfezione dell'individuo, in realtà hanno portato verso la
decrepitezza della specie.
Finché gli uomini si sono accontentati delle
loro rustiche capanne, finché si sono limitati a cucire i loro abiti fatti di
pelli con spine o lische, ad adornarsi di piume e di conchiglie, a dipingersi
il corpo di diversi colori, a perfezionare o abbellire i loro archi e le loro
frecce, a costruire con pietre taglienti qualche canotto da pescatore o qualche
rozzo strumento musicale; in breve, finché si sono applicati soltanto a opere
che un uomo poteva fare da solo, ad arti che non richiedevano il concorso di
molte mani, essi sono vissuti liberi, sani, buoni e felici, nella misura in cui
potevano esserlo secondo la loro natura, ed hanno continuato a godere tra loro
delle dolcezze di un rapporto indipendente. Ma dal momento in cui un uomo ebbe
bisogno dell'aiuto di un altro, non appena ci si accorse che poteva esser utile
ad un solo uomo di avere provvigioni per due, l'uguaglianza scomparve, si
introdusse la proprietà, il lavoro divenne necessario e le vaste foreste si
mutarono in campi ridenti che dovettero essere bagnati dal sudore degli uomini
e in cui si vide ben presto la schiavitú e la miseria germogliare e crescere
insieme alle messi.
La metallurgia e l'agricoltura furono le due
arti la cui scoperta produsse questa grande rivoluzione. Se per il poeta furono
l'oro e l'argento, per il filosofo furono il ferro e il grano a render civili
gli uomini e a portare cosí alla rovina il genere umano. Entrambi infatti erano
ignoti ai selvaggi dell'America che, per questo motivo, sono rimasti tali;
sembra persino che gli altri popoli siano rimasti barbari finché hanno
praticato una sola di queste arti. E forse una delle ragioni principali per cui
l'Europa è stata civilizzata, se non prima, almeno piú durevolmente e meglio
delle altre parti del mondo, risiede nel fatto che essa è il paese al tempo
stesso piú ricco di ferro e piú fertile in grano. [...]
Dalla cultura delle terre è derivata
necessariamente la loro spartizione, e dal riconoscimento della proprietà le
prime regole di giustizia: infatti per dare a ciascuno il suo è necessario che
ognuno possa avere qualcosa; inoltre, poiché gli uomini cominciavano a guardare
verso l'avvenire e si accorgevano di aver tutti qualcosa da perdere, nessuno di
loro si riteneva al sicuro dalle rappresaglie per i torti che poteva arrecare
ad altri. Questa origine è tanto piú naturale in quanto è impossibile concepire
l'idea di una proprietà sorta da altra fonte che non sia il lavoro manuale; non
si vede infatti che cosa l'uomo possa metter di suo piú del proprio lavoro per
appropriarsi di cose da lui non fatte. Soltanto il lavoro, dando al coltivatore
un diritto sul prodotto della terra che ha coltivato, gli conferisce anche un
diritto sul fondo, almeno fino al momento del raccolto, e cosí di anno in anno
il possesso diviene continuo e si trasforma facilmente in proprietà. [...]
Ecco dunque tutte le nostre facoltà
sviluppate, la memoria e l'immaginazione in gioco, l'amor proprio destato, la
ragione resa attiva e la mente giunta quasi al limite della perfezione di cui è
suscettibile. Ecco tutte le qualità naturali messe in azione, il rango e la
sorte di ogni uomo stabiliti non soltanto secondo la quantità dei beni e il
potere di servire o di nuocere, ma anche secondo l'intelligenza, la bellezza,
la forza o l'abilità, secondo i meriti o i talenti; e poiché queste qualità
erano le sole che potessero attirare la considerazione, divenne tosto
necessario averle o ostentarle. Il proprio tornaconto richiese di mostrarsi
diversi da ciò che si era realmente. Essere e apparire divennero due cose del
tutto diverse e da tale distinzione sorsero il fasto imponente, la scaltrezza
ingannatrice e tutti i vizi che ne sono il corteggio. Da un altro lato, ecco
l'uomo, prima libero e indipendente, ora assoggettato, per cosí dire, dalla
moltitudine dei nuovi bisogni, a tutta la Natura, e soprattutto ai suoi simili,
di cui in un certo senso diviene lo schiavo, pur quando ne diventi il padrone;
ricco, ha bisogno dei loro servigi, povero, ha bisogno del loro soccorso, e
neppure la mediocrità lo pone in condizione di fare a meno di loro. Deve quindi
cercare continuamente di interessarli alla sua sorte e fare in modo che essi,
in realtà o in apparenza, trovino il loro profitto a lavorare per il suo
vantaggio: ciò lo rende astuto e artificioso con gli uni, imperioso e duro con
gli altri e lo pone nella necessità di ingannare tutti coloro di cui ha
bisogno, quando non può farsi temere da essi e non trova il proprio interesse a
servirli utilmente. Infine l'ambizione divorante, la brama di accrescere la
propria fortuna personale, meno per una vera necessità che per mettersi al di
sopra degli altri, ispira a tutti gli uomini una trista inclinazione a nuocersi
reciprocamente, una invidia segreta tanto piú pericolosa in quanto, per
riuscire con maggior sicurezza nel suo intento, essa si copre sovente con la
maschera della benevolenza; in una parola, si ha da un lato spirito di
concorrenza e rivalità e dall'altro contrasto di interessi e sempre il
desiderio nascosto di fare il proprio vantaggio a spese altrui. Tutti questi
mali sono il primo effetto della proprietà e il corteggio inseparabile della
nascente disuguaglianza. [...]
Tale fu o dovette essere l'origine della
società e delle leggi, che diedero nuovi impedimenti al debole e nuove forze al
ricco, distrussero definitivamente la libertà naturale, stabilirono per sempre
la legge della proprietà e della disuguaglianza, trasformarono un'abile
usurpazione in un diritto irrevocabile e assoggettarono da allora in poi tutto
il genere umano, per il vantaggio di qualche ambizioso, al lavoro, alla servitú
e alla miseria. ” facile vedere come la formazione di una sola società abbia
reso indispensabile quella di tutte le altre e come, per opporsi a forze
riunite, fosse necessario unirsi a propria volta. Le società, moltiplicandosi o
estendendosi rapidamente, coprirono ben presto tutta la superficie della Terra,
e non fu piú possibile trovare un solo angolo dell'Universo in cui ci si
potesse affrancare dal giogo e sottrarre il proprio capo alla spada, spesso mal
diretta, che ogni uomo vede perpetuamente sospesa su di sé.
(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XV,
pagg. 879-883)