Sambursky, Gli atomisti antichi e la scienza

Samuel Sambursky, nato a Königsberg, dopo aver studiato nella città natale e a Utrecht, si è trasferito nel 1924 a Gerusalemme, dove ha organizzato la Facoltà di Fisica. Accanto alla attività di fisico egli si è dedicato a ricerche in campo epistemologico e di storia della scienza, in particolare del pensiero scientifico dei Greci. Nelle pagine che proponiamo sono tratteggiati alcuni aspetti delle antiche teorie atomistiche che vengono messe in relazione con le conoscenze scientifiche dei nostri giorni.

 

[Infiniti gli atomi, infinito l’universo]

 

Tutti gli atomisti, da Leucippo a Epicuro e ai discepoli di quest’ultimo, concordano nell’affermare che il numero degli atomi e l’estensione del cosmo sono entrambi infiniti. Democrito dedusse l’infinità del cosmo nel tempo, cioè la sua eternità, dalla conservazione della materia la quale elimina una creatio ex nihilo: “Democrito di Abdera suppose l’universo infinito perché esso non è stato opera di alcun artefice” (fr. 68 A 39 DK). D’altro canto l’infinità dello spazio e l’infinità della materia in esso contenuta sono manifestamente in relazione fra loro. Da ciò si potrebbe dedurre che il punto fondamentale di entrambe le premesse sia l’ammissione che lo spazio è infinito. Epicuro è molto esplicito a questo proposito. [...]

 

[Gli atomi e il movimento]

 

Epicuro, discutendo particolareggiatamente le particelle composte di molti atomi, trova difficoltà a spiegare il passaggio dal movimento atomico al movimento dei grandi corpi. Secondo la sua teoria tutti gli atomi hanno la stessa elevatissima velocità. Come può, dunque, la velocità inferiore di un corpo composto che si muove in una certa direzione provenire da una combinazione di atomi che si muovono a velocità immensa in tutte le direzioni? Malauguratamente, le parti importanti della lettera di Epicuro a Erodoto sono corrotte, ma si direbbe che le oscurità non possono essere attribuite soltanto alla corruzione del testo. Senza entrare in particolari, è significativo menzionare questo caso come esempio tipico di un fenomeno assai caratteristico nella letteratura scientifica dell’antica Grecia: alcune volte dei pensatori, che davvero ci sorprendono per il loro penetrante acume scientifico e la loro capacità di cogliere il significato profondo di fatti complessi, rimangono invece imbarazzati di fronte a problemi che ora sembrano relativamente semplici per chiunque conosca le leggi elementari della cinematica e della meccanica. Un aspetto di questo paradosso merita di venire piú attentamente esaminato. Pur essendo vero che i concetti fondamentali della meccanica vennero esattamente elaborati soltanto nel XVII secolo, non si può tuttavia negare che dei seri tentativi, anche se privi di successo, vennero compiuti nel mondo antico per chiarire le relazioni reciproche fra velocità, forza e massa. Abbiamo visto come lo stesso Aristotele abbia fatto dei considerevoli sforzi per formulare le leggi della dinamica. Ma ciò malgrado, gli antichi non avevano alcuna concezione della statistica, cioè del determinare le leggi dei fenomeni ove essi implichino un numero molto grande di individui o un numero molto grande di ripetizioni di un dato evento. [...]

L’unica eccezione a questa regola si ha, come era prevedibile, nella teoria atomistica, la quale si occupa di un numero enorme di singoli enti. Su questo punto possediamo due famose descrizioni di alcune parti della dottrina di Epicuro, contenute entrambe nel secondo libro del De rerum natura. Nella prima, Lucrezio discute il caso di molte particelle che si muovono in tutte le direzioni entro certi confini assegnati. In tal caso, la somma totale di queste particelle risulterà in quiete se la consideriamo come entità unica nello spazio dato; o, in altri termini, il totale di tutte le velocità (se le sommiamo insieme come vettori, cioè se prendiamo in considerazione le loro direzioni) sarà zero. Questo, come sa ogni studente di fisica elementare, è il modo con cui noi descriviamo gli atomi di un gas racchiuso in un certo volume. Lucrezio, il quale naturalmente non conosceva questa legge, attribuisce la quiete apparente all’incapacità dei nostri sensi di distinguere gli atomi in moto. Non importa qui se il suo ragionamento fosse giusto o sbagliato. La cosa essenziale è che egli sia stato conscio del fatto che ciascun gruppo formato da particelle moventisi a caso apparirà come un unico corpo in quiete. Ecco le sue parole:

 

[...] E non ti deve stupire

a tal riguardo che mentre son tutti gli atomi in moto,

pure ci sembra che stia ferma la somma del tutto

in una somma quiete, salvo se fa qualche cosa

col proprio corpo alcun moto. E ciò perché, per natura,

molto lontani son gli atomi dai nostri sensi, e invisibili.

                Logico è quindi che se essi non possono essere visti

debban sottrarci anche i moti. Specie perché degli oggetti

che noi possiamo distinguere, per la soverchia distanza,

il movimento talora ci resta al tutto nascosto.

                Lanute pecore spesso striscian sul colle brucando

i lieti pascoli, ognuna dove la invitano a gara

l’erbe che splendon di gemme per la recente rugiada,

e gli agnellini satolli ruzzano e cozzan bel bello;

cose che tutte ci appaiono in lontananza confuse,

e come se stesse immobile sul verde colle il candore.

 

(De rerum natura, II, vv. 308-322, trad. B. Pinchetti)

[...]

 

(S. Sambursky, Il mondo fisico dei Greci, Feltrinelli, Milano, 19732, pagg. 121-123; pagg. 126-127)