Sartre rileva che la guerra fredda pretende
che la cultura si trasformi in propaganda. Egli ritiene che le maggiori
responsabilità in questo campo siano dell’Occidente. Il filosofo francese
fornisce poi la sua interpretazione del “caso Pasternak”.
J.-P. Sartre, Il filosofo e la politica
La teoria e la pratica sono inseparabili e la prima, anche quando si definisce indipendente, è direttamente o indirettamente subordinata alla seconda. Il problema non è questo. Ma se la prassi che subordina ai suoi fini la teoria è di ordine militare, la degradazione si allarga dal sapere rigoroso fino a tutte le forme culturali. A partire dalla guerra fredda e dalla politica dei blocchi ogni produzione dello spirito viene utilizzata come un’arma. In altri termini la letteratura e le arti sono annesse alla propaganda. Ma questo non sarebbe ancora grave, dal momento che se la propaganda è lo strumento indispensabile della politica finisce per divenire un elemento integrale della cultura. Ma si tratta di una propaganda militare che spezza l’unità reale della cultura e sostituisce la separazione radicale alle contraddizioni feconde che tale unità ci mostra, introducendo tra le opere dell’est e dell’ovest un no man’s land simile a quello che separa le linee nemiche. Si fa una bomba di un’opera d’arte o di un libro. Ed è l’occidente, qui, che conduce l’offensiva e perpetra le aggressioni.
Qual è il procedimento piú palese? Si prende un libro, se ne falsifica il senso e si vuole che il lettore vi reperisca la prova dell’indegnità del regime nemico. Ciò può farsi in due modi: rubando un’opera all’avversario e rinviandogliela falsificata, oppure prendendo un prodotto del proprio suolo e alterandolo con metodi sfrontati. Il primo procedimento non ha nulla di nuovo: dal 1917 i giornali occidentali hanno ritorto contro il regime socialista le critiche che i giornali sovietici pubblicavano apertamente nell’intenzione di correggere i loro errori. E fino a quando ci si limitava a questo la cultura non ne soffriva. Ma oggi sono gli autori sovietici che si cerca di trasformare in nemici del regime. Vi sono dei giovani poeti nell’URSS i quali hanno tentato di avviarsi su nuovi sentieri; in pittura, non occorre dirlo, questi giovani sono parte integrante del regime che li ha prodotti, ed è nel quadro dell’edificazione socialista che essi intendono tentare la loro esperienza, e le lotte che essi possono intraprendere restano sul terreno della cultura. Tuttavia, un giornalista di Life ha osato chiamarli oppositori, nemici del governo e del partito comunista. Di conseguenza – e come potremmo dubitarne? – gli artisti diffidano degli stranieri “di buona volontà” che pretendono di capirli e si affretteranno invece, al loro ritorno, a trattarli come controrivoluzionari.
Lo stesso procedimento si è avuto nel caso di Pasternak. Non sta a me dire ciò che abbia rappresentato e rappresenti tuttora il grande poeta per la giovane generazione; i sovietici non hanno dubbi, comunque, che egli abbia trascorso la sua vita senza preoccuparsi troppo della politica e che i problemi, i veri drammi e le Brandi realizzazioni dell’URSS, gli siano sovente sfuggiti. Ciò significa, come ha scritto recentemente uno studente sovietico a un settimanale parigino, che i giovani – i quali conoscono a memoria le sue poesie – non hanno interesse per il suo romanzo Il dottor Zivago, scritto mirabilmente, mi è stato detto, ma estraneo alle loro preoccupazioni. Tuttavia si è rubato Il dottor Zivago alla Russia, si è pubblicato in Italia quando non era stato stampato nell’URSS e si è voluto fare di Pasternak un martire dell’anticomunismo, cosa che egli assolutamente non era: in primo luogo, perché questo solitario raccontava la sua vita di mistica solitudine che sarebbe stata press’a poco la stessa sotto qualsiasi regime; secondariamente, poiché egli godeva della considerazione di tutti. La manovra iniziata dalla stampa americana ha avuto gli sviluppi che tutti sanno, e assegnando il premio Nobel a un sovietico la giuria svedese ha creduto di premiare un anticomunista trasformando il suo libro in una bomba culturale che sarebbe dovuta scoppiare a Mosca.
J.-P. Sartre, Il filosofo e la politica,
Editori Riuniti, Roma, 1972, pagg. 298-300