Schopenhauer, Istinto sessuale e peccato originale

Schopenhauer giudica l’atto sessuale come la massima affermazione della Volontà di vivere, in quanto travalica l’egoismo individuale e rende perpetua la vita della specie. Egli poi ritiene vi sia una sintonia fra questa sua interpretazione della sessualità e il mito biblico del peccato originale.

 

A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 60

 

La conservazione del corpo mediante le sue stesse forze è un cosí minimo grado dell’affermazione della volontà, che se ci si fermasse volontariamente a questo, noi potremmo ritener cessata, con la morte del corpo, anche la volontà che in esso si manifestava. Ma già la soddisfazione dell’istinto sessuale va oltre l’affermazione della nostra esistenza, la quale empie un sí breve spazio di tempo, e afferma la vita oltre la morte individuale, per un tempo indefinito. La natura, sempre vera e conseguente, e in questo punto addirittura ingenua, ci disvela apertamente l’intimo significato dell’atto generativo. La nostra coscienza, la vivacità dell’istinto, c’insegna che in codesto atto s’esprime la piú risoluta affermazione della volontà di vivere, pura e senza ulteriore aggiunta (come per avventura sarebbe la negazione d’altri individui); e cosí nel tempo e nella serie causale, ossia nella natura, appare quale effetto dell’atto una nuova vita: di contro al generatore viene a porsi il generato, diverso da quello nel fenomeno, ma in sé, nell’idea, identico ad esso. È quindi per codesto atto che le generazioni dei viventi si collegano l’una con l’altra in un tutto, e si perpetuano. La generazione è, per ciò che tocca il generante, semplice espressione e simbolo della sua risoluta affermazione della volontà di vivere, per ciò che tocca invece il generato, essa non è punto la cagione della volontà che in lui si manifesta, non conoscendo la volontà in sé né vera causa sostanziale, né effetto; bensí è, come ogni causa, soltanto l’occasione pel manifestarsi di codesta volontà in un dato tempo. In quanto cosa in sé, non è la volontà del generante diversa da quella del generato: ché unicamente il fenomeno, e non la cosa in sé, è soggetto al principium individuationis. Con quell’affermazione che va oltre il nostro corpo, fino alla produzione fenomenica di un corpo nuovo, sono anche dolore e morte, in quanto appartenenti al fenomeno della vita, novellamente affermati: e la possibilità della redenzione, che può venir da una piú perfetta capacità di conoscere, è in tal caso proclamata infeconda. Qui sta la profonda ragione della vergogna onde si cela il traffico generativo. Questo concetto è rappresentato miticamente nel dogma della dottrina cristiana, secondo il quale noi tutti siamo partecipi del peccato di Adamo (che evidentemente non era se non la soddisfazione della voglia sessuale), e per esso andiamo soggetti a soffrire e morire. Con ciò quella dottrina va oltre il modo di vedere fondato sul principio di ragione, e penetra l’idea dell’uomo; l’unità della quale viene ricostituita dal suo frazionamento negl’innumerevoli individui, mediante il vincolo della generazione che tutti li riunisce. Vede cosí da un lato ogni individuo come identico ad Adamo, al rappresentante dell’affermazione della vita, e in questa qualità destinato al peccato (peccato originale), al dolore, e alla morte: dall’altro lato, la conoscenza dell’idea le fa apparire ogni uomo come identico al Redentore, a quegli che rappresenta la negazione della volontà di vivere, e sotto questo rispetto partecipe del sacrificio di Lui, per merito di Lui redento, e salvato dai vincoli del peccato e della morte, ossia del mondo (Epist. ai Romani, 5, 12-21).

 

A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Bari, 1968, vol. II, pagg. 432-433