A. Schopenhauer osserva che se l’animale è ancora
legato alla natura, l’uomo è invece capace di stupirsi di fronte alla realtà.
Da questo stupore ha origine il bisogno della metafisica, che nasce da “uno
svolgimento superiore dell’intelligenza”.
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e
rappresentazione, II, 17
Nessun essere, eccetto l’uomo, si stupisce della propria esistenza; per tutti gli animali essa è una cosa che si intuisce per se stessa, nessuno vi fa caso. Nella pacatezza dello sguardo degli animali parla ancora la saggezza della natura; perché in essi la volontà e l’intelletto non si sono ancora distaccati abbastanza l’uno dall’altro per potersi, al loro reincontrarsi, stupirsi l’uno dell’altra. Cosí qui l’intero fenomeno aderisce ancora strettamente al tronco della natura, dal quale è germogliato, ed è partecipe dell’inconsapevole onniscienza della grande Madre. Solo dopo che l’intima essenza della natura (la volontà di vivere nella sua oggettivazione) s’è elevata attraverso i due regni degli esseri incoscienti e poi, dopo essere passata, vigorosa ed esultante, attraverso la serie lunga e vasta degli animali, è giunta infine, con la comparsa della ragione, cioè nell’uomo, per la prima volta alla riflessione: allora essa si stupisce delle sue proprie opere e si chiede che cosa essa sia. La sua meraviglia, però, è tanto piú seria, in quanto essa si trova qui per la prima volta coscientemente di fronte alla morte, e, accanto alla caducità di ogni esistenza, le si rivela anche, con maggiore o minore consapevolezza, la vanità di ogni aspirazione. Con questa riflessione e con questo stupore nasce allora, unicamente nell’uomo, il bisogno di una metafisica: egli è dunque un animal metaphysicum. All’inizio della sua coscienza l’uomo si considera certamente come qualcosa, che si comprende da sé. Questa situazione non dura però a lungo e assai presto, insieme con la prima riflessione, si presenta già quella meraviglia, che un giorno sarà la madre della metafisica.
[...]
Quanto piú in basso si trova un uomo nella scala intellettuale, tanto meno misteriosa gli appare la stessa esistenza: gli sembra piuttosto che il tutto, cosí com’è e che sia cosí, si comprenda da sé. È che in lui l’intelletto è rimasto ancora totalmente legato alla sua originaria funzione di essere, in quanto medium dei motivi, al servizio della volontà, di essere, quindi, strettamente connesso con il mondo e con la natura, quasi come loro parte integrante; quest’uomo è dunque ancora molto lontano da quell’atteggiamento di distacco dall’insieme delle cose, per cui ci poniamo di fronte ad esso e, esistendo quasi per noi stessi, contempliamo il mondo in maniera puramente oggettiva. Al contrario l’ammirazione filosofica, che nasce in alcuni da questa contrapposizione dell’io al mondo, è condizionata da uno svolgimento superiore dell’intelligenza, ma non da questo soltanto: senza dubbio è anche la conoscenza della morte, e con essa la considerazione del dolore e della miseria della vita, ciò che dà il piú forte impulso alla riflessione filosofica e alle spiegazioni metafisiche del mondo.
Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1971, vol. XIX, pagg.
622-623