Per A. Schopenhauer le idee sono l’oggettivazione della volontà, la quale a sua volta costituisce la cosa in sé, l’in sé del mondo.
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 31
e I, 32
Debbo fare, innanzitutto, una considerazione assai essenziale. Spero di essere riuscito, nelle pagine precedenti, a far sorgere la persuasione che la cosa in sé della filosofia kantiana, la quale vi si presenta come una dottrina di grande importanza, ma oscura e paradossale, specialmente per il modo di presentazione di Kant, che vi giunge mediante un passaggio dall’effetto alla causa, che viene considerato la pietra d’inciampo, anzi il punto debole della sua filosofia; la persuasione, dico, che la cosa in sé, quando vi si pervenga per quella via affatto diversa che abbiamo seguita, altro non sia se non la volontà, nel senso piú vasto e preciso, come abbiamo dianzi fatto, di questo concetto. Spero poi che, dopo quanto ho detto, non vi saranno ostacoli nel riconoscere nei gradi determinati dell’oggettivazione di quella volontà, che costituisce l’in-sé del mondo, quelle che Platone chiamava le idee eterne, ossia le forze immutabili (eide), le quali, riconosciute insieme come il piú importante e il piú oscuro e paradossale dogma della sua dottrina, furono per secoli oggetto di meditazione, di contesa, di scherno e di venerazione da parte di molti cervelli diversamente orientati.
[...]
In conseguenza delle nostre precedenti considerazioni, malgrado tutto l’intimo accordo fra Kant e Platone e dell’identico scopo da essi perseguito e della concezione del mondo che li ispirò e guidò nella speculazione, non consideriamo tuttavia identiche l’idea e la cosa in sé; piuttosto, per noi, l’idea è soltanto l’immediata e quindi adeguata oggettità della cosa in sé, la quale però è la volontà, volontà non ancora oggettivata, non ancora divenuta rappresentazione. La cosa in sé, infatti, deve, proprio secondo Kant, venire sciolta da tutte le forme inerenti alla conoscenza in quanto tale: e fu soltanto per un errore (come mostreremo nell’appendice) che Kant non inserí tra queste forme, prima fra tutte, l’“essere-oggetto-per-un-soggetto”; questa è, infatti, la prima e piú universale forma di ogni fenomeno, cioè di ogni rappresentazione. Egli avrebbe dovuto, cioè, negare espressamente alla sua cosa in sé la qualità di essere oggetto; e si sarebbe cosí salvato da quella grande inconseguenza, che fu subito notata.
Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1971, vol. XIX, pagg. 644-647