Scoto Eriugena, La funzione pratica della teologia

Nell’Europa medievale del IX secolo i Franchi hanno fatto rinascere l’Impero e avviato un movimento di rinnovamento culturale – la cosiddetta Rinascita carolingia – in cui rivivono non solo le discussioni degli antichi Padri della Chiesa, ma anche la filosofia dei Greci, quella ricerca della Verità e dell’Essere che aveva caratterizzato la speculazione teoretica da Parmenide a Plotino.

La situazione, in realtà, è radicalmente cambiata. Il cristianesimo è uscito vincitore dal confronto con la cultura classica, e la vittoria è sancita proprio dalla funzione politica che il nuovo impero dei Franchi attribuisce alla religione. Il cristianesimo, ai tempi di Giovanni Scoto Eriugena, non ha bisogno di ricorrere alla filosofia per dimostrare in termini razionali la propria Verità: l’ineffabilità dell’Essere, che da Plotino giunge a Giovanni Scoto attraverso la mediazione dello Pseudo-Dionigi, sembra essere il contributo filosofico piú consono a una religione rivelata da Dio agli uomini non solo attraverso le Scritture, ma con l’incarnazione, la morte e la resurrezione e che, quindi, non ha bisogno del supporto della razionalità umana.

Tutta la discussione teologica e logica – di cui è un esempio la pagina che segue – non mira a una maggiore conoscenza di Dio, ma a una difesa della religione dagli attacchi degli eretici, e a “istruire l’animo dei semplici”.

 

De divisione Naturae, I

 

1      Maestro: Su questa questione non so chi potrebbe parlare in breve o con chiarezza; infatti, o si deve tacere [...] o ci si deve affidare alla semplicità della fede ortodossa, dal momento che si tratta di una questione che supera ogni intelletto, cosí come è stato scritto “solo tu che hai l’immortalità abiti la luce inaccessibile”. Se qualcuno comincia a discutere su questi argomenti, necessariamente, in molti modi e con molte argomentazioni, persuaderà nella maniera piú giusta che si devono usare le due principali parti della teologia: quella affermativa, che i Greci chiamano kataphatiké, e quella negativa, che chiamano apophatiké. Sola la negativa nega che la divina essenza o sostanza sia qualcuna delle cose che sono, che possono essere dette o capite. L’altra invece predica dell’essenza divina tutte le cose che sono, quindi si dice affermativa, non tanto perché dichiara che essa [la sostanza divina] sia qualcuna delle cose che sono, ma perché sostiene che tutte le cose che derivano da quella essenza possono essere dette di essa. Razionalmente, infatti, si può capire che gli effetti significano la causa. Dice infatti che ci sono Verità, Bontà, Essenza, Luce, Giustizia, Sole, Stella, Soffio, Acqua, Leone, Città, Verme e tutte le cose innumerabili. E non solo insegna che l’essenza divina è quelle cose conformi alla natura divina, ma anche quelle ad essa contrarie, quando dice che Dio si inebria ed è folle e stolto. Ma non vogliamo ora discutere di queste cose; su tali argomenti, infatti, Dionigi l’Areopagita ha scritto la Teologia simbolica. Torniamo pertanto a ciò che hai chiesto, cioè se di Dio si possono predicare propriamente tutte le categorie, o solo alcune di esse.

2      Discepolo: Certamente bisogna tornarvi, ma prima penso che bisogna considerare perché i predetti nomi, cioè essenza, bontà, verità, giustizia, sapienza, e gli altri di questo genere, che sembrano non solo divini, ma anzi divinissimi e tali da non significare nient’altro all’infuori dell’essenza o sostanza divina, diventino metaforici, cioè traslati dalla creatura al Creatore, secondo quello che dice il predetto santissimo padre e teologo. Non lo avrà detto, infatti, senza una mistica e segreta ragione.

3      M.: [...] Vorrei che tu mi dicessi se puoi pensare qualcosa di opposto o di necessariamente connesso [cointellectum] con Dio. Dico opposto o per privazione, o per contrarietà, o per relazione, o per assenza; intendo poi per connesso necessariamente qualcosa che si pensi essere insieme eternamente con lui, pur senza essere della sua stessa essenza.

4      D.: [...] Non oserei affermare né che qualcosa gli sia opposto, né che essendo necessariamente con lui sia eteroúsion, ossia diverso per essenza da lui. Infatti gli opposti per relazione sono sempre opposti, dal momento che insieme hanno inizio e insieme cessano di esistere, perché sono della medesima natura, come il semplice e il doppio, i due terzi e i tre mezzi; cosí gli opposti per negazione, come è e non è; o per privazione, come morte e vita; o per contrarietà, come vigore e debolezza. Ma queste opposizioni si attribuiscono correttamente alle cose sensibili o intelligibili, e perciò non sono in Dio. Infatti le cose che si oppongono fra loro non possono essere in Dio, poiché se fossero eterne non potrebbero opporsi. L’eternità, infatti, è simile a se stessa e sussiste tutta per tutto, semplice, una e indivisibile. Il principio e il fine di tutte le cose è uno, in nulla discordante da sé. Per la stessa ragione non so chi oserebbe affermare che è coeterna a Dio una cosa che non è della sua stessa essenza. Infatti, se si potesse pensare questo si potrebbe concludere che il principio di tutte le cose non è uno, ma due o piú, differenti fra loro. Il che è rifiutato dalla vera ragione, perché giustamente tutte le cose derivano da un principio e nessuna da due o piú.

         M.: Ragioni bene, mi sembra. Se dunque i predetti nomi divini hanno altri nomi a sé opposti, necessariamente si oppongono anche le realtà che essi propriamente significano e perciò non possono predicarsi propriamente di Dio a cui nulla è opposto e al quale nulla di diverso è coeterno. La vera ragione, infatti, non ha ancora trovato un nome, fra quelli ricordati o fra altri simili, del quale non esista un nome opposto o nel medesimo genere o fuori. E ciò che è vero dei nomi è necessariamente vero della realtà da essi significata. Per esempio, Dio si dice “essenza”, ma non è propriamente quella essenza a cui si oppone il “nulla”, Dio, dunque è yperoúsios, cioè sovraessenziale. Cosí si dice bontà, ma non è propriamente bontà, poiché a questa si oppone la malizia; è dunque yperagathós, piú che buono, e yperagathótes, cioè piú che bontà. [...]

5      M.: [Pertanto non c’è contraddizione fra la teologia affermativa e quella negativa] [...] Per esempio, la teologia affermativa dice: Dio è verità; la teologia negativa dice: non è verità. Qui sembra che ci sia una forma di contraddizione, ma quando si guarda meglio si vede che non c’è contraddizione. Infatti, quella che dice “Dio è verità” non afferma che la sostanza divina sia propriamente verità, ma che essa può essere chiamata cosí per una metafora dalla creatura al Creatore: veste infatti con tali vocaboli l’essenza divina nuda e scevra di ogni propria significazione. E quella che dice “non è verità”, non nega che sia verità, ma che sia e si possa chiamare propriamente verità. La teologia negativa sa di spogliare la divinità di tutti quei significati dei quali l’affermativa la riveste. Una, infatti, dice, per esempio, “è sapienza”, rivestendola di questo attributo; l’altra dice “non è sapienza”, e di questo attributo la spoglia. Una dunque dice: la divinità non si può chiamare cosí; ma non dice: la divinità è propriamente questo; l’altra dice: non è cosí, sebbene si possa chiamare cosí.

6      D.: Vedo chiaramente queste cose e mi è chiaro piú della luce che le cose che finora mi parevano opposte ora si accordano e non dissentono fra loro, quando si considerano in Dio.

         [...]

7      M.: [...] Non dobbiamo forse considerare nel medesimo modo il valore di tutte le parole che la Sacra Scrittura predica della Natura divina, ritenendo cosí che esse non significano altro che la semplice, immutabile, essenza e sovraessenza, incomprensibile da ogni intelligenza? Per esempio, quando sentiamo dire che Dio vuole e ama e vede e ode e altre espressioni che si possono predicare di lui, dobbiamo pensare che con queste espressioni a noi naturali si vuole rivolgere la nostra mente alla sua ineffabile essenza e virtú, affinché la vera e pia religione cristiana non taccia del Creatore a tal punto da non dire nulla, per istruire l’animo dei semplici e per combattere le astuzie degli eretici, che sempre insidiano la verità e si sforzano di toglierla dall’animo degli altri e desiderano ingannare coloro che sono meno eruditi. Quelle espressioni fanno capire che in Dio non sono distinti essere, volere, amare, vedere, e altre cose simili, ma che in lui significano la stessa cosa.

8      D.: Precisamente. Dove infatti è la vera ed eterna semplicità è impossibile che vi sia il molteplice e il diverso.

 

(Joannis Scoti, De divisione Naturae, in Patrologia latina, vol. CXXII, 458A-459C, 461C-462A, 518B-519A)