Emanuele
Severino (1929), filosofo che si distingue per il rigore teoretico del suo
pensiero, ritiene che l’intera storia dell’Occidente sia stata condizionata
dalla concezione greca del divenire, inteso come sparire nel nulla. Per
difendersi dalla paura che ne deriva, gli occidentali hanno inventato dei
palliativi, come la stessa razionalità, la religione e attualmente soprattutto
la scienza. La sua proposta consiste nel negare la radice stessa della paura e
della morte dimostrando l’irrazionalità della concezione greca del divenire. Il
divenire non esiste. In questa lettura il filosofo non propone sol-tanto un
“ritorno a Permenide”, ma nega piuttosto tutta la metafisica occidentale, che
pure ha fatto dell’opposizione fra essere e nulla il suo oggetto fondamentale:
ciò che è mancato alla filosofia dell’Occidente è stata la capacità di cogliere
il carattere dinamico dell’essere, la sua forza di opposizione al
nulla; ponendo sullo stesso piano essere e nulla, la cultura occidentale ha
tolto la forza (il senso) dell’essere e ha elevato il nulla alla dignità
dell’essere.
E. Severino, Ritornare a Parmenide
(1964)
La storia della filosofia occidentale è la vicenda dell’alterazione e quindi della dimenticanza del senso dell’essere, inizialmente intravisto dal piú antico pensiero dei Greci. E in questa vicenda la storia della metafisica è il luogo ove l’alterazione e la dimenticanza si fanno piú difficili a scoprirsi: proprio perché la metafisica si propone esplicitamente di svelare l’autentico senso dell’essere, e quindi richiama ed esaurisce l’attenzione sulle plausibilità con cui il senso alterato si impone. La storia della filosofia non è per questo un seguito di insuccessi: si deve dire piuttosto che gli sviluppi e le conquiste piú preziose del filosofare si muovono all’interno di una comprensione inautentica dell’essere.
[...]
Eppure è proprio nei pochi versi del poema di Parmenide che si nasconde la parola piú essenziale e piú dimenticata di tutto il nostro sapere. Per rintracciarla non si richiede quel sommovimento delle discipline filologiche che la lettura heideggeriana pretende, ma un sommovimento ben piú profondo e piú ardue, quello cioè che porta alla comprensione della forza invincibile di un discorso che da millenni è saputo e pronunciato, ma che, appunto, non è piú stato capito. Non si tratta allora di dare significati nuovi alle parole (quasi che riportando l’essere alla presenza ci si trovasse di fornte a qualcosa di piú evidente dell’essere), ma di pensare quelli vecchi, ridestarli, e in questo senso, certamente, rinnovarli sino alle ultime sorgenti.
Ésti gàr eînai, medèn d’ouk éstin (fr. 6, vv. 1.2). Le parole son pur sempre queste, che in varie guise ritornano insistenti nel poema. Il gran segreto sta pur sempre in questa povera affermazione che “L’essere è, mentre il nulla non è”. Nella quale non si indica semplicemente una proprietà, sia pur quella fondamentale, dell’essere, ma se ne indica il senso stesso: l’essere è appunto ciò che si oppone al nulla, è appunto questo opporsi. L’opposizione del positivo e del negativo è il grande tema della metafisica, ma esso vive in Parmenide con quella sconfinata pregnanza che il pensieo metafisico non saprà piú penetrare.
E. Severino, Essenza del nichilismo,
Adelphi, Milano, 1995, pagg. 20-21