Platone, con impareggiabile arte, ci
narra la grande dignità con cui Socrate accettò il verdetto di condanna e il
suo comportamento negli ultimi istanti della vita. Le ultime parole di Socrate hanno
da sempre suscitato un ampio dibattito e diverse interpretazioni. Il sacrificio
di un gallo ad Asclèpio – di cui Socrate si sente debitore – avveniva di solito
per ringraziare il dio della medicina per una guarigione. La guarigione di
Socrate sarebbe la morte, che finalmente rende libera la sua anima dalla
prigione del corpo.
a)
Platone, Apologia, 36 b-42 a
1 [36 b]
[...] Quest’uomo dunque chiede per me la pena di morte. Sta bene. E quale pena
dovrò chiedere per me io, o cittadini di Atene? Certamente quella che merito,
non è vero? E quale? Quale pena merito io di patire, o quale multa pagare, io
che nella vita rinunciai sempre a ogni quiete, e trascurando quel che curano i
piú non badai ad arricchire né a governare la mia casa, non aspirai a comandi
militari né a favori di popolo né ad altri pubblici onori, non m’immischiai in
congiure né in sedizioni cittadine, ritenendo me stesso troppo sinceramente
onesto perché [c] potessi salvarmi se mi ci fossi immischiato; e insomma
non m’intromisi là dove sapevo che intromettendomi non avrei recato vantaggio
né a me né a voi; e volgendomi invece a beneficarvi singolarmente e
privatamente di quello che io reputo il beneficio maggiore, a questo mi
adoperai, cercando persuadervi, uno per uno, che non delle proprie cose bisogna
curarsi prima che di se stessi chi voglia diventare veramente virtuoso e
sapiente, e nemmeno degli affari della città prima che della città stessa, e
cosí via del rimanente allo stesso modo? Dite, dunque, quale pena [d]
merito di patire io se sono cosí come vi dico? Un premio, o cittadini di Atene,
se mi si deve assegnare quello che io merito in verità. E tale ha di essere
questo premio che mi si addica. E quale premio si addice a un uomo che è povero
e benefattore vostro, e solo prega d’aver agio e tempo per la vostra istruzione?
Non c’è premio che meglio si addica, o Ateniesi, se non che tale uomo sia
nutrito nel Pritanéo; assai piú che non s’addica a quello di voi che con
cavallo o biga o quadriga abbia riportato vittoria nei Giochi Olimpici. Perché
costui fa solo che voi [e] sembriate felici, e io che siate; e quello
non ha bisogno gli si dia da vivere, e io ne ho bisogno. Se dunque io debbo
chiedere, secondo il diritto, quello che mi spetta, questo [37 a] io
chiedo, di essere nutrito nel Pritanéo.
2 Ma
voi, forse, anche in questo mio parlare di ora, credete scorgere press’a poco
quel medesimo sentimento di dispettoso orgoglio che credevate dianzi quando
parlavo del far suppliche e destare commiserazione. No, non è cosí, o Ateniesi,
ma un’altra cosa piuttosto. Io sono persuaso di non aver fatto mai,
volontariamente, ingiuria a nessuno; soltanto, non riesco a persuaderne voi:
troppo poco tempo abbiamo potuto conversare insieme. E credo che se fosse legge
tra voi, com’è presso altre genti, che [b] giudizio di morte non si
possa dare in un giorno solo ma in piú, ve ne sareste, forse, già persuasi; e
invece non è facile ora, in cosí breve tempo, liberarsi da imputazioni cosí
gravi. E persuaso come sono di non avere mai fatto ingiuria ad alcuno, non so
neanche pensare di far ingiuria a me stesso, e di dire io stesso contro di me
che sono meritevole di pena, e di richiedere per me, quale essa sia, quella
tale pena. E poi, per paura di che cosa dovrei fare cosí? Forse per paura
d’aver a patire quello che per me domanda Melèto, e che io vi dico di non
sapere se è bene o se è male? E in cambio di codesto dovrei scegliere alcuna di
quelle pene che so di certo che sono mali, e farne [c] domanda? Il
carcere dovrei domandare? E perché dovrei vivere in carcere, al servizio della
perpetua magistratura degli Undici? Una pena in denaro, e restare in carcere
finché non l’abbia pagata? Ma tant’è, è la stessa cosa che dicevo or ora,
perché denari io non ho da pagarla. E allora chiederò l’esilio? Sí, forse è
proprio questa la pena che voi vorreste per me. Ma io in verità, o cittadini di
Atene, dovrei esser preso da una ben pazza voglia di vivere se fossi cosí
irragionevole da non poter fare neanche questo ragionamento, che mentre voi,
che siete pure concittadini miei, [d] non foste capaci di sopportare la
mia compagnia e i miei discorsi, e anzi la mia compagnia vi fu tanto fastidiosa
e odiosa che cercate ora stesso di liberarvene; altri invece la sopporteranno
piacevolmente? Eh via, Ateniesi! che sarebbe una gran bella vita la mia, a
questa mia età, andarmene in esilio, e mutar sempre da paese a paese, scacciato
da ogni parte! Perché io lo so bene, dovunque io vada i giovani verranno ad
ascoltarmi come qui: e, se io li allontano, saranno essi stessi che mi faranno
cacciare [e] persuadendone i piú anziani; se non li allontano, mi
cacceranno i lor genitori e parenti per cagion loro.
3 Qui
forse uno potrebbe dirmi: “Ma silenzioso e quieto, o Socrate, non sarai capace
di vivere dopo uscito di Atene?”. Ecco la cosa piú difficile di tutte a
persuaderne alcuni di voi. Perché se io vi dico che questo significa
disobbedire al dio, e che perciò non è possibile io viva quieto, voi non mi
credete e dite che io parlo per ironia; [38 a] se poi vi dico che
proprio questo è per l’uomo il bene maggiore, ragionare ogni giorno della virtú
e degli altri argomenti sui quali m’avete udito disputare e far ricerche su me
stesso e su gli altri, e che una vita che non faccia di cotali ricerche non è
degna d’esser vissuta: s’io vi dico questo, mi credete anche meno. Eppure la
cosa è cosí com’io vi dico, o cittadini; ma persuadervene non è facile. E
d’altra parte io non mi sono assuefatto a giudicare me stesso meritevole di
nessun male. Se avevo denari, avrei potuto multarmi di una multa che potessi
pagare: perché [b] non ne avrei sentito alcun danno. Ma non ho denari, e
non posso: salvo che non vogliate multarmi di quel poco soltanto che potrei
pagare. Potrei pagarvi una mina d’argento. E dunque mi multo di una mina
d’argento. Ma c’è qui Platone, o Ateniesi, e Critone, e Critobúlo e Apollodoro,
i quali vogliono ch’io mi multi di trenta mine, e ne fanno garanzia loro
stessi. E allora mi multo di trenta mine. E vi saranno garanti della somma
questi [c] qui: persone degne di fede.
4 Per
guadagnare un poco di tempo – oh, non molto di certo, o cittadini ateniesi –
voi avrete nome e colpa, da coloro che vogliono offendere la città, di aver
ucciso Socrate, uomo sapiente: perché appunto diranno ch’io sono sapiente,
anche se non sono, quelli che vi vogliono fare oltraggio. Bastava che aspettaste
ancora un poco, e la cosa veniva naturalmente da sé. Voi vedete la mia età, che
è molto avanti ormai nella vita; e anzi vicina alla morte. [d] E questo
non lo dico a tutti voi, ma a quelli di voi che hanno votato la mia morte. E a
questi stessi un’altra cosa ancora io dico. Forse pensate, o cittadini, che io
sia stato còlto in difetto di quegli argomenti coi quali avrei potuto
persuadervi, se avessi creduto che bisognasse fare di tutto e dire di tutto pur
di sfuggire alla condanna. Niente affatto. Sono stato còlto in difetto, è vero,
ma non di argomenti, bensí di sfrontatezza e di impudenza; e perché non avevo
nessuna voglia di parlarvi al modo che certo vi sarebbe stato graditissimo, con
pianti e lamenti e con ogni sorta [e] di altrettali atti e parole che di
me sono indegni, come io vi ripeto, ma che voi siete pur abituati a udire da
altri. Io non credetti allora, per paura del pericolo, che dovessi comportarmi
da uomo vile; né mi pento ora d’essermi difeso come mi difesi; e molto piú anzi
preferisco d’essermi difeso in questo modo e morire che non in quello e vivere.
Perocché né in tribunale né in guerra, né io né altri, [39 a] nessuno
mai deve adoperare di codesti mezzi per sfuggire in ogni modo alla morte. Anche
nelle battaglie si vede chiaro piú volte che schivar la morte sarebbe facile,
chi buttasse le armi o si volgesse supplichevole a’ suoi inseguitori; e molti
altri mezzi ci sono, nei diversi frangenti, quando non si abbia scrupolo, pur
di scampare alla morte, di fare e di dire qualunque cosa. Ma state attenti, o
cittadini, che non questo è difficile, sfuggire alla morte, bensí piú difficile
assai sfuggire alla malvagità: corre piú celere [b] della morte la
malvagità. Ora io, che sono tardo e vecchio, da quella che è piú tarda sono
stato preso; e invece i miei accusatori, che sono validi e pronti, da quella
che corre piú celere, dalla malvagità. E cosí io ora me ne vado a pagare il mio
debito di morte, condannato da voi; e questi se ne andranno a pagare il loro
debito di iniquità e di infamia, condannati dalla verità. Io accetto la mia
ammenda: e questi accetteranno la loro. E forse era bene che la cosa andasse
cosí; e credo sia la misura giusta per tutti.
5 [c]
Ma a voi che mi avete condannato voglio fare una predizione, e dire quello che
succederà dopo. Io sono ormai su quel limite in cui piú facilmente gli uomini
fanno predizioni, quando stanno per morire. Io dico, o cittadini che mi avete
ucciso, che una vendetta ricadrà su di voi, súbito dopo la mia morte, assai piú
grave di quella onde vi siete vendicati di me uccidendomi. Oggi voi avete fatto
questo nella speranza che vi sareste pur liberati dal dover rendere conto della
vostra vita; e invece vi succederà tutto il contrario: io ve lo predíco. Non
piú io solo, ma molti saranno a domandarvene conto: tutti coloro che fino a
oggi [d] trattenevo io, e voi non ve ne accorgevate. E saranno tanto piú
ostinati quanto piú sono giovani; e tanto piú voi ve ne sdegnerete. Che se
pensate, uccidendo uomini, di impedire ad alcuno che vi faccia onta del vostro
vivere non retto, voi non pensate bene. No, non è questo il modo di liberarsi
da costoro; e non è affatto possibile né bello; bensí c’è un altro modo,
bellissimo e facilissimo, non tagliare altrui la parola, ma piuttosto adoprarsi
per essere sempre piú virtuosi e migliori. Questo è il mio vaticinio [e]
a voi che mi avete condannato; e con voi ho finito.
6 Con
voi altri invece che votaste la mia assoluzione vorrei ragionare di questo caso
che m’è intervenuto; intanto che gli Undici sono occupati ad altro, e non è anche
il momento ch’io vada colà dove entrato mi bisogna morire. Restate dunque con
me, o cittadini, per questo poco di tempo. Niente impedisce che si discorra
ancora [40 a] fra noi, finché è lecito. A voi che mi siete amici
desidero dire, quel che m’è capitato oggi, che cosa significa. Perché m’è
accaduta, o giudici – chiamando voi giudici credo chiamarvi col vostro giusto
nome –, una cosa davvero meravigliosa. Quella mia solita voce profetica, quella
del dèmone, per tutto il tempo passato io la sentivo continuamente e ad ogni
occasione; e sempre mi si opponeva, anche in circostanze di poco conto, solo
che fossi per far qualche cosa che non mi riuscisse a bene. Oggi m’è avvenuto
un caso, lo vedete anche da voi, di quelli appunto che si possono giudicare, e la
gente giudica, gli estremi dei [b] mali. Ebbene, né a me stamattina
quando uscivo di casa si oppose il segno del dio, né quando salivo qui sul
tribunale, e nemmeno durante la mia difesa, in nessun punto, ogni volta che
ripigliavo a parlare. E sí che piú volte, in altri discorsi, mi fermò la parola
anche a mezzo. Ora invece, per tutto questo processo, qualunque cosa fossi per
fare o dire, non mi dette cenno mai di nessunissima opposizione. E allora la
cagione di questo silenzio quale devo pensare che sia? Ve la dirò: questa: che
il caso capitatomi oggi ha da essere sicuramente un bene; e certo non pensano [c]
dirittamente quanti di noi ritengono che il morire sia un male. Ho avuto di ciò
una grande riprova: non è possibile che il segno consueto non mi si sarebbe
opposto se quel che stava per accadermi non avesse dovuto essere un bene.
7 Vediamo
la cosa anche da questo punto, per quale altra ragione io ho cosí grande
speranza che morire sia un bene. Una di queste due cose è il morire: o è come
un non esser piú nulla e chi è morto non ha piú nessun sentimento di nulla; o è
proprio, come dicono alcuni, una specie di mutamento e di migrazione dell’anima
da questo luogo quaggiú a un altro luogo. Ora, se il morire [d] equivale
a non aver piú sensazione alcuna, ed è come un sonno quando uno dormendo non
vede piú niente neppure in sogno, ha da essere un guadagno meraviglioso la
morte. Perché io penso che se uno, dopo aver come trascelta nella propria
memoria tal notte in cui si fosse addormentato cosí profondamente da non vedere
neppur l’ombra di un sogno, e poi, paragonate a questa le altri notti e gli
altri giorni di sua vita, dovesse dirci, bene considerando, quanti giorni e
quante notti in tutto il corso della sua vita egli abbia vissuto piú
felicemente e piú piacevolmente di quella notte; io penso che colui, fosse pure
non dico un [e] privato qualunque ma addirittura il Gran Re, troverebbe
assai pochi e facili a noverare codesti giorni e codeste notti in paragone
degli altri giorni e delle altri notti. Se dunque tal cosa è la morte, io dico
che è un guadagno; anche perché la eternità stessa della morte non apparisce
affatto piú lunga di un’unica notte. D’altra parte, se la morte è come un mutar
sede di qui ad altro luogo, ed è vero quel che raccontano, che in codesto luogo
si ritrovano poi tutti i morti, qual bene ci potrà essere, o giudici, maggiore
di questo? [41 a] Che se uno, giunto nell’Ade, libero ormai da coloro
che si spacciano per giudici qui da noi, troverà colà i giudici veri, quelli
appunto che nell’Ade si dice esercitino officio di giudici, e Minos e Radamanti
e Èaco e Trittolèmo e quanti altri fra i semidei furono giusti nella lor vita;
sarebbe forse codesto un mutamento di sede spregevole? E ancora, per starsene
insieme con Orfeo e con Musèo, con Omero e con Esiodo, quanto non pagherebbe
ciascuno di voi? Io per me non una volta soltanto vorrei morire, se questo è
vero. Che consolazione straordinaria avrei io di [b] tal soggiorno colà,
quando, m’incontrassi con Palamède, e con Aiace figlio di Telamone, e con tutti
quegli altri antichi eroi che ebbero a morire per ingiusto giudizio; e quale
gioia, penso, paragonare i miei casi ai loro! E il piacere piú grande sopra
tutti sarebbe di seguitare anche colà, come facevo qui, a studiare e a
ricercare chi è davvero sapiente e chi solo crede di essere e non è. Quanto
darebbe uno di voi, o giudici, per interrogare e conoscere colui che condusse
contro Troia il grande esercito, oppure Odísseo, [c] o Sísifo, e quanti
altri innumerevoli si possono ricordare, uomini e donne? Ragionare colà con
costoro e viverci insieme e interrogarli, sarebbe davvero il sommo della
felicità. Senza dire poi che, per codesto, non c’è pericolo quelli di là
mandino a morte nessuno; essi che, oltre a essere, per altri motivi, piú felici
di noi, anche sono oramai per tutta l’eternità immortali, se è vero quel che si
dice.
8 Ebbene,
anche voi, o giudici, dovete bene sperare dinanzi alla morte, e aver nell’animo
che una cosa è [d] vera, questa, che a uomo dabbene non è possibile
intervenga male veruno, né in vita né in morte; e tutto ciò che interviene è
ordinato dalla benevolenza degli dèi. E cosí anche quello che càpita a me ora
non è opera del caso; e anzi vedo manifestamente che per me oramai morire e
liberarmi da ogni pena e fastidio era la cosa migliore. Per questo il segno del
dio mai una volta cercò farmi piegare dalla mia strada; per questo nessun
rancore io ho con coloro che mi votarono contro, né coi miei accusatori.
Sebbene non certo con questa intenzione essi mi condannarono e mi accusarono,
ma credendo anzi di farmi male; e perciò [e] sono degni di biasimo. Ora
io a costoro non ho da fare altra preghiera che questa: i miei figlioli, quando
siano fatti grandi, castigateli, o cittadini, cagionando loro gli stessi
fastidi che io cagionavo a voi, se a voi sembra si diano cura delle ricchezze o
di beni altrettali piuttosto che della virtú; e se diano mostra di essere
qualche cosa non essendo nulla, svergognateli, com’io svergognavo voi, che non
curino ciò che dovrebbero e credano valer qualche [42 a] cosa non
valendo nulla. Se cosí farete, io avrò avuto da voi quel ch’era giusto che
avessi: io e i miei figlioli. – Ma ecco che è l’ora di andare: io a morire, e
voi a vivere. Chi di noi due vada verso il meglio è oscuro a tutti fuori che a
Dio.
(Platone, Opere, vol. I,
Laterza, Bari, 1967, pagg. 61-69)
b)
Platone, Fedone, 115 b-118 a
1 [115 b]
Come egli ebbe detto cosí, – Ebbene, o Socrate, disse Critone, hai nessun
ordine da dare a questi tuoi amici o a me per i tuoi figlioli o per altra persona
o cosa? che cosa possiamo fare per te che ti sia particolarmente gradito? –
Quello, rispose, che dico sempre, o Critone, niente di nuovo: che se voi avrete
cura di voi medesimi, farete cosa grata a me e ai miei e a voi stessi qualunque
cosa facciate, anche se ora non mi promettete niente; se invece non avrete cura
di voi e non vorrete vivere seguendo le tracce di quel che s’è detto ora e in
ragionamenti precedenti, non vale che v’affanniate a ripetermi di gran [c]
promesse in questo momento; non farete niente di meglio. – Quanto a questo, sí
certo, disse, procureremo di fare come tu dici; ma ... in che modo dobbiamo
seppellirti? – Come volete, rispose: dato che pur riusciate a pigliarmi e io
non vi scappi dalle mani! E ridendo tranquillamente e vòlti gli occhi verso di
noi, soggiunse: – Non riesco, o amici, a persuadere Critone che io sono
Socrate, questo qui che ora sta ragionando con voi e ordina una per una tutte
le cose che dice; ed egli invece séguita a credere che Socrate sia quello che
tra poco vedrà cadavere, e, [d] naturalmente, mi domanda come ha da
seppellirmi. E quello ch’io mi sono sforzato di dimostrare tante volte da tanto
tempo, che, dopo bevuto il farmaco, io non sarò piú con voi, e me n’andrò via
lontano di qui, beato tra i beati; questo, per lui, è come se io lo dicessi
cosí per dire, quasi per consolare voi e al tempo stesso anche me. Ora voi mi
dovete far garanzia, disse, presso Critone; ma una garanzia contraria a quella
che egli mi fece davanti ai giudici: ai giudici egli garantí su la fede sua che
io non sarei scappato; e voi dovete garantire a Critone su la fede [e]
vostra che dopo morto io non sarò piú qui, e me ne andrò via lontano; e cosí
Critone sopporterà la cosa piú facilmente; e, vedendo il mio corpo o bruciato o
sepolto, non si affliggerà per me come s’io stessi soffrendo pene tremende, e
non dirà nel funerale che è Socrate che espone e Socrate porta via e
seppellisce. Perché tu devi pur sapere, aggiunse, mio ottimo Critone, che
parlare scorrettamente non solo è cosa brutta per se medesima, ma anche fa male
all’anima. Dunque bisogna non avere di queste preoccupazioni, e dire che è il
mio corpo che seppellite: e il mio [116 a] corpo seppellitelo come vi
piace e come credete sia meglio conforme alle leggi comuni.
2 Cosí
detto, Socrate si alzò per andare in una stanza a lavarsi; e Critone lo
seguiva; e a noi ci disse di rimanere. E noi rimanemmo lí ad aspettare; e
intanto si ragionava tra noi delle cose dette, e si rimeditavano una per una, e
anche pensavamo alla nostra sventura, quanto era grande, sapendo bene che il
rimanente della nostra vita, privati come del padre, saremmo stati orfani
veramente. E quando [b] si fu lavato e gli ebbero portati i figlioletti
– n’aveva due piccolini e uno piú grandicello – e anche si furon recate da lui
le sue donne di casa, egli s’intrattenne a parlare con loro, alla presenza di
Critone; e poi, fatte le raccomandazioni che voleva fare, disse alle donne e ai
figlioli di andarsene, e ritornò fra di noi. S’era vicini ormai al tramonto del
Sole, perché in quella stanza s’era intrattenuto parecchio tempo. Ritornato dal
bagno, si mise a sedere, e dopo d’allora non si disse quasi piú niente. Ed ecco
venne il messo degli Undici, il quale, fermatosi davanti a [c] lui, – O
Socrate, disse, io non avrò certo a lagnarmi di te come ho da lagnarmi di altri
che si adirano meco e mi maledicono, quando io vengo ad annunziar loro, per
ordine degli arconti, che devon bere il veleno. Ma te, in tutto questo tempo,
ho avuto modo piú volte di conoscere che sei il piú gentile e il piú mite e il
piú buono di quanti mai capitarono qui; e ora specialmente so bene che tu non
ti adiri meco, perché li conosci coloro che ne hanno colpa, e con quelli ti
adiri. Ora dunque – tu lo sai quello che sono venuto ad annunziarti – addio, e vedi
di sopportare [d] meglio che puoi il tuo destino. E cosí dicendo scoppiò
a piangere, voltò le spalle e se n’andò. E Socrate, levato un po’ il capo a
guardarlo, – E anche a te, disse, addio; e io farò come dici. E, rivolto a noi,
– Che gentile persona, disse. Per tutto questo tempo egli veniva spesso a
trovarmi; e talvolta s’indugiava a conversare meco, ed era uomo eccellente; e
vedete ora come sinceramente mi piange? Su via Critone, diamo retta ora a
colui, e qualcuno porti il veleno, se è pestato; se no, l’uomo lo pesti. [e]
E Critone: – Ma il Sole, disse, o Socrate, è ancora, credo, sui monti, non
anche è tramontato. E io so che altri assai piú tardi bevono dopo che ne hanno
avuto l’annunzio; e dopo mangiato e bevuto a loro volontà, e taluni perfino dopo
essere stati insieme a loro piacere con chi vogliono. Tu dunque, se non altro,
non avere fretta, perché c’è tempo ancora
3 E
Socrate: – È naturale, disse, o Critone, che costoro, quelli che dici tu,
facciano cosí, perché credono d’aver qualche cosa da guadagnare facendo in
codesto modo; ed è anche naturale che non faccia cosí io, perché credo di [117 a]
non aver altro da guadagnare, bevendo un poco piú tardi, se non di rendermi
ridicolo a’ miei stessi occhi, attaccandomi alla vita e facendone risparmio quando
non c’è piú niente da risparmiare. Via, disse, dà retta e non fare
diversamente.
4 E
Critone, udito ciò, fece cenno a un suo servo ch’era in piedi vicino a lui; e
il servo uscí, rimase fuori un po’ di tempo, e tornò menando seco l’uomo che
doveva dare il farmaco, che lo portava pestato in una tazza. E Socrate, veduto
colui, – Bene, disse, brav’uomo, tu che di queste cose te n’intendi, che si
deve fare? – Nient’altro, rispose, che, dopo bevuto, andare un po’ attorno per
la stanza, finché tu non senta peso alle gambe; dopo, [b] rimanere
sdraiato; e cosí il farmaco opererà da sé. E cosí dicendo porse la tazza a
Socrate. Ed egli la prese, oh, con vera letizia, o Echècrate; e non ebbe un
tremito e non mutò colore e non torse una linea del volto; ma cosí, come
soleva, guardando all’uomo di sotto in su con quei suoi occhi da toro, – Che
dici, disse, di questa bevanda, se ne può libare a qualche Iddio, o no? – O
Socrate, rispose, noi ne pestiamo solo quel tanto che crediamo sufficiente a
bere. – Capisco, disse [c] Socrate. Ma insomma far preghiera agli dèi
che il trapasso di qui al mondo di là avvenga felicemente, questo si potrà,
credo, e anzi sarà bene. E questa appunto è la mia preghiera; e cosí sia. E
cosí dicendo, tutto d’un fiato, senza dar segno di disgusto, piacevolmente,
vuotò la tazza fino in fondo. E i piú di noi fino a quel momento erano pur
riusciti alla meglio a trattenersi dal piangere; ma quando lo vedemmo bere, e
che aveva bevuto, allora non piú; e anche a me, contro ogni mio sforzo, le
lacrime caddero giú a fiotti; e mi coprii il capo e piansi me stesso: ché certo
[d] non lui io piangevo, ma la sventura mia, di tale amico restavo
abbandonato! E Critone, anche prima di me, non riuscendo a frenare il pianto,
s’era alzato per andar via. E Apollodoro, che già anche prima non avea mai
lasciato di piangere, allora scoppiò in singhiozzi; e tanto piangeva e gemeva
che niuno ci fu di noi lí presenti che non se ne sentisse spezzare il cuore:
all’infuori di lui, di Socrate.
5 E
anzi, Socrate – Che stranezza è mai questa, disse, o amici? Non per altra
cagione io feci allontanare le donne, perché non commettessero di tali
discordanze. E ho anche [e] sentito che con parole di lieto augurio
bisogna morire. Orsú, dunque, state quieti e siate forti. E noi, a udirlo, ci
vergognammo, e ci trattenemmo dal piangere. Ed egli girò un poco per la stanza;
e, quando disse che le gambe gli si appesantivano, si mise a giacere supino;
perché cosí gli consigliava l’uomo. E intanto costui, quello che gli avea dato
il farmaco, non cessava di toccarlo, e di tratto in tratto gli esaminava i
piedi e le gambe; e, a un certo punto, premendogli forte un piede, gli domandò
se sentiva. Ed egli rispose di no. E poi ancora gli premette [118 a] le
gambe. E cosí, risalendo via via con la mano, ci faceva vedere com’egli si
raffreddasse e si irrigidisse. E tuttavia non restava di toccarlo; e ci disse
che, quando il freddo fosse giunto al cuore, allora sarebbe morto. E oramai
intorno al basso ventre era quasi tutto freddo; ed egli si scoprí – perché
s’era coperto – e disse, e fu l’ultima volta che udimmo la sua voce, – O
Critone, disse, noi siamo debitori di un gallo ad Asclèpio: dateglielo e non ve
ne dimenticate. – Sí, disse Critone, sarà fatto: ma vedi se hai altro da dire.
A questa domanda egli non rispose piú: passò un po’ di tempo, e fece un
movimento; e l’uomo lo scoprí; ed egli restò con gli occhi aperti e fissi. E
Critone, veduto ciò, gli chiuse le labbra e gli occhi.
6 Questa,
o Echècrate, fu la fine dell’amico nostro: un uomo, noi possiamo dirlo, di
quelli che allora conoscemmo il migliore; e senza paragone il piú savio e il
piú giusto.
(Platone, Opere, vol. I,
Laterza, Bari, 1967, pagg. 182-185)