Dopo aver trovato nella stessa Bibbia l'autorizzazione
e la raccomandazione a fare uso della ragione, Spinoza procede a una analisi
razionale di quei fatti straordinari che sono considerati “miracoli”: in realtà
- egli sostiene - nessun evento può assolutamente violare la legge naturale che
Dio ha dato all'Universo; quindi l'intelletto che conosce le leggi della Natura
potrà fornire spiegazioni anche di ciò che appare straordinario (“I miracoli
possono sembrare alcunché di nuovo e di straordinario solo a causa
dell'ignoranza degli uomini”). Soltanto i pregiudizi dei Profeti hanno fatto sí
che un evento eccezionale potesse essere interpretato come un miracolo. Spinoza
interviene sul piú discusso miracolo narrato dalla Bibbia, l'arresto del
Sole dopo la preghiera di Giosuè - ampiamente usato nella polemica contro il
copernicanesimo -, proponendo una spiegazione razionale anche di questo fatto:
la maggiore durata del giorno sarebbe stata la conseguenza di una grande
tempesta di grandine della quale parla lo stesso Testo Sacro (Giosuè,
X, 11) - che avrebbe prodotto “in maniera piú accentuata del solito il fenomeno
della rifrazione della luce, o un fenomeno analogo” (Trattato
teologico-politico, II).
Dal Trattato teologico-politico proponiamo
la lettura dell'inizio e della conclusione del cap. VI, che Spinoza dedica
interamente alla “razionalizzazione” dei miracoli.
a) Il dualismo Dio/Natura (B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cap. VI)
Come gli uomini sono soliti definire “divino” quel sapere
che trascende le capacità umane di comprensione, cosí sono abituati a chiamare
“divino”, oppure opera di Dio, ogni fenomeno la cui causa è sconosciuta al
volgo. Il volgo infatti ritiene che la potenza e la provvidenza divine si
manifestino nel modo piú luminoso possibile quando accade in Natura qualcosa di
inconsueto e di contrario all'opinione che per consuetudine esso ha riguardo
alla Natura stessa, particolarmente se l'evento gli ha portato qualche profitto
o gli è riuscito vantaggioso. E cosí il volgo è convinto che la dimostrazione
piú chiara dell'esistenza di Dio può essere data soltanto dal fatto che la
Natura non si attiene (cosí si crede) al proprio corso; perciò esso ritiene che
neghino Dio, o quanto meno la provvidenza, tutti coloro che spiegano gli
accadimenti in genere e i miracoli in particolare mediante cause naturali o che
in tal modo si sforzano di comprenderli.
Il volgo crede, evidentemente, che Dio non faccia nulla
quando la Natura agisce secondo l'ordine consueto, e viceversa che restino
oziose la potenza della Natura e le cause naturali quando agisce Dio. Ci si
immagina pertanto due potenze nettamente separate l'una dall'altra: la potenza
di Dio e la potenza delle cose naturali, quest'ultima tuttavia determinata da
Dio in qualche particolare modo o anzi (come i piú credono ai giorni nostri) da
lui creata. Ma che cosa poi il volgo intenda per l'una e per l'altra delle due
potenze, come concepisca Dio e la Natura, ciò invero non lo sa; esso si
raffigura la potenza divina come l'autorità di un monarca assoluto e la potenza
della Natura come una sorta di violenza senza freno.
Il volgo, pertanto, chiama miracoli o opere di Dio gli
eventi straordinari della Natura; e, parte per zelo religioso, parte per smania
di osteggiare coloro che coltivano la scienza della Natura, desidera di
ignorare le cause naturali delle cose e si mostra voglioso di ascoltare
soltanto ciò che gli è del tutto oscuro e che di conseguenza suscita la sua
massima ammirazione. Il che s'intende: infatti in nessun altro modo, se non
escludendo le cause naturali e immaginando cose estranee all'ordine della
Natura, la moltitudine degli incolti può adorare Dio e ricondurre ogni cosa al
suo dominio e al suo volere; essa non ammira mai tanto la potenza divina come
quando immagina che la potenza della Natura sia da Lui quasi soggiogata.
b) I miracoli sono impossibili (B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cap. VI)
Tuttavia, prima di porre fine a questo capitolo, mi resta
ancora un avvertimento da dare. A proposito del miracolo ho proceduto con un
metodo del tutto differente da quello usato a proposito della profezia. Circa
la profezia, non ho affermato nulla che non potesse essere ricavato dai
princípi rivelati nei testi sacri; invece, nel presente capitolo, ho tratto le
conclusioni piú importanti esclusivamente dai princípi che ci sono noti grazie
al lume naturale. E l'ho fatto di deliberato proposito, in quanto la profezia,
come tale, trascende le possibilità umane di comprensione ed è questione
propriamente teologica, e quindi non potevo affermare nulla intorno ad essa, né
sapere in che cosa particolarmente consiste, se non basandomi sui dati
fondamentali della rivelazione. Mi sono visto cosí costretto a trattare questo
argomento sotto un profilo storico e a enucleare nel corso della mia ricerca
certi princípi che mi guidassero, per quanto possibile, nella comprensione
della Natura della profezia e delle sue caratteristiche. Non avevo invece
bisogno di nulla di simile per quanto riguarda i miracoli, dato che l'oggetto
dell'indagine (e cioè se si possa ammettere che in Natura accada qualcosa che
ripugni alle sue leggi o che comunque non dipenda da esse) appartiene ad una
tematica esclusivamente filosofica; anzi ho ritenuto piú ragionevole risolvere
la questione fondandomi sui princípi noti per lume naturale, che sono poi
quelli piú e meglio noti. Dico che l'ho ritenuto piú ragionevole: perché, a
dire il vero, avrei anche potuto facilmente risolvere la questione solo in base
alle affermazioni dogmatiche della Scrittura, e lo mostrerò in poche
parole perché possa essere palese a chiunque.
In piú di un luogo la Scrittura dice che la Natura
osserva un ordine fermo e immutabile: cosí in Salmo, CXLVIII, 6 e in Geremia,
XXXI, 35 e 36. Il Filosofo, inoltre, nel suo Ecclesiaste, I, 10, insegna
nel modo piú reciso che in Natura non avviene mai nulla di nuovo e ai versetti
11 e 12, nel chiarire tale sentenza, dice che accade talvolta qualcosa che
sembra costituire una novità, ma di novità realmente non si tratta perché un
caso identico si produsse in secoli precedenti dei quali è spento ogni ricordo.
Infatti, com'egli stesso dice, nessuna memoria dei tempi antichi è presente nei
contemporanei, cosí come presso i posteri non vi sarà memoria di coloro che
vivono oggi. Inoltre, sempre nell'Ecclesiaste (III, 11), il Filosofo
afferma che Dio ebbe a stabilire esattamente ogni cosa nel suo tempo, e al
versetto 14 dichiara di sapere che, qualunque cosa Dio faccia, essa permarrà in
eterno e che nulla può esserle né aggiunto né sottratto. Ciò fa capire in modo
inequivocabile che la Natura mantiene un ordine stabile e non passibile di
mutamenti, che Dio persistette identico in tutte le ere a noi note e ignote,
che le leggi della Natura sono tanto perfette e feconde che nulla può esser
loro aggiunto o da esse eliminato, e finalmente che i miracoli sembrano essere
qualcosa di nuovo e di straordinario soltanto a causa dell'ignoranza degli
uomini.
Tutto ciò si trova espressamente insegnato nella Scrittura,
e in nessuna parte di essa è detto che in Natura accade qualcosa di
incompatibile con le sue leggi e che non possa venir ricondotto ad esse:
sarebbe quindi illecito attribuirle simili affermazioni. A ciò si aggiunge che
i miracoli richiedono (come già mostrammo) condizioni e circostanze di fatto,
che essi traggono origine non da un presunto potere di monarca che il volgo
malamente attribuisce alla divinità, bensí dalla volontà e dal decreto divino
in quanto questo è tutt'uno con il regolato ordinamento della Natura (come del
resto mostrammo anche alla luce della stessa Scrittura), che infine
artefici di miracoli sono stati anche dei Profeti ingannatori, come si può
sicuramente dimostrare in base a Deuteronomio, XIII e a Matteo,
XXIV, 24. Ne segue con la massima evidenza che i miracoli raccontati dalla Scrittura
furono fenomeni naturali e che perciò debbono essere spiegati in modo tale che
essi non appaiano né “nuovi” (per esprimermi come Salomone), né in
contraddizione con la Natura; occorre al contrario, se è possibile, mostrare
che essi sono perfettamente attinenti al mondo naturale. E perché ciò possa
esser fatto da chiunque piú agevolmente, ho formulato ed esposto alcune regole
tratte proprio dalla Scrittura.
Debbo peraltro precisare che, sostenendo che la Scrittura
offre tali insegnamenti, non intendo dire che essa li impartisce come necessari
alla salvezza, ma soltanto ai Profeti hanno assunto un punto di vista vicino al
nostro. Ciascuno ha dunque la libertà di professare intorno a queste questioni
le opinioni che gli sono piú congeniali e piú idonee al fine di accogliere
sinceramente nel proprio animo i sentimenti religiosi e il culto dovuto alla
divinità. Flavio Giuseppe giudica anch'egli cosí, e infatti scrive nella
conclusione al libro II delle Antichità: “Nessuno respinga la parola
miracolo, se risulta dalla tradizione che ad uomini di epoche remote, esenti da
vizi, si aperse una via di salvezza attraverso il mare, sia per volontà divina,
sia in modo spontaneo e naturale; poiché anche per coloro che tempo fa
seguivano Alessandro re di Macedonia, il mare di Pamfilia che li separava dai
nemici, si divise offrendo ad essi un transito, dato che mancava ogni altra
strada. Voleva Dio infatti in tal modo distruggere l'impero persiano. Questo
fatto è riconosciuto concordemente come vero da tutti coloro che scrissero
delle gesta di Alessandro; pertanto giudichi ciascuno, di ciò, secondo il
proprio criterio”. Tali sono le parole di Giuseppe e tale è la sua opinione
circa la credenza nei miracoli.
(B. Spinoza, Etica e Trattato teologico-politico,
UTET, Torino, 1988, pagg. 486-487, 504-507)