Basandosi sull’Etica Nicomachea,
tradotta dall’Aretino pochi anni prima (1416-1417), Lorenzo Valla analizza il
tema del piacere nel pensiero di Aristotele e cerca di superare la distinzione
aristotelica fra i piaceri dell’anima e i piaceri del corpo.
L. Valla, De vero falsoque bono
Confido di aver parlato di tutte
quelle cose che la causa del piacere richiedeva. Tuttavia mi sembra di vedere i
nemici, quasi vinti in battaglia e in una guerra regolare e volti in fuga, che
si sono rifugiati negli accampamenti e di lí vociferano e scagliano insulti ai
vincitori dicendo che la vita contemplativa e la sicurezza dell’animo
appartengono ad essi, che questi beni sono della sola onestà e comuni con gli
dèi immortali, che noi seguiamo un vilissimo piacere tutto pieno di
turpitudine, di nausea, di rimorso. Debelliamo dunque questi ostinati nemici e
togliamo loro i loro stessi accampamenti, quelli che essi chiamano i due beni
secreti dell’anima. Vediamo prima la contemplazione, della quale Catone ha
spiegato qualcosa. Il tuo Aristotele medesimo ha fissato che tre sono i beni
desiderabili: cosí infatti si esprime, per usare le parole dell’amico nostro
Leonardo Aretino il quale ha recentemente tradotto in latino, in modo splendido
e chiaro, la sua Etica: “Desideriamo l’onore e il piacere e ogni
dottrina e ogni virtú, sia per se stessa sia per la felicità”. Questo aveva
indicato già prima con altre parole, determinando la vita come voluttuosa,
civile, contemplativa, sulle orme di Platone che pose tre fini nello Stato:
scienza, onori, guadagni. Ciò fu desunto dalla famosa immagine di Omero delle
tre dee, Giunone, Minerva, Venere: ma non appartiene all’argomento, ed egli non
ha agito dottamente né elegantemente dicendo che quelle tre cose siano
desiderabili per se stesse e per la felicità, quasi che la felicità stessa
fosse una cosa diversa da quelle tre cose. Se aggiungiamo infatti “per la
felicità”, aggiungiamo pure “per la beatitudine” e “per il conseguimento di
tutti i beni” e cose simili. Se questo non è accettabile, per non proporre dei
fini inconsistenti, perché aggiungiamo a quelle tre cose questa quarta che non
è se non quelle stesse tre? Né si può dire che Aristotele intendesse che quelle
sono desiderabili per se stesse specialmente, e per la felicità in generale.
Poiché se quelle sono specie di un genere, il genere stesso non è desiderabile
per sé, poiché è nulla: come l’albero il quale, per se stesso, è una mera voce,
ma consta di specie o di individui, come il lauro, l’ulivo, o questo lauro,
questo ulivo: come la virtú che non è lodata per il genere ma per le specie
dalle quali è costituita la virtú stessa, come la giustizia, la fortezza, la
modestia. Ma se le parti singole non hanno alcun potere senza il tutto, come il
piede, la mano, l’occhio senza il corpo, non sono desiderabili, in conseguenza,
le parti ma il tutto. Cosí quelle cose sono desiderabili non per sé ma per la
felicità. E basta di ciò. Di questi tre fini posti da Aristotele, abbiamo
mostrato che due, il piacevole e il civile, ossia l’onorifico poiché ha un
certo riferimento alla gloria, non sono in disaccordo tra loro ma il secondo è
un aspetto del primo. Mi resta ora da
mostrare la stessa cosa anche del terzo, e che esso pure si riduce al piacere:
affinché appaia che pure quel bene, di cui egli dice che tutte le cose lo
desiderano, è inerente a questa stessa vera e perfetta felicità che
perseguiamo. Aristotele dunque dà alla contemplazione la piú alta supremazia.
Ma poiché egli in molti luoghi non nasconde che ci sia il piacere in questa
vita e in quella civile, e, per dirla piú chiaramente, che questa vita sia
desiderabile perché produce nell’anima il piacere, potrei sbrigarmi subito di
tale questione poiché cosí siamo d’accordo che qualche genere del piacere sia
lodevole. Questo aveva già prima detto Platone, quando affermò esserci
nell’animo due piaceri, l’uno desiderabile l’altro da fuggirsi. Sono d’accordo
con lui, sebbene ogni piacere, come ho mostrato prima, sia buono. E nei libri
della Repubblica chiama spesso questi tre fini medesimi che ho detto,
piaceri. Ma anche Aristotele stesso pone due piaceri, uno dei sensi e un altro
della mente. Però io non intendo, se c’è un nome solo, in qual modo si possa
considerare diversa la cosa: tanto piú che ogni piacere si sente non tanto col
corpo quanto coll’anima che regge il corpo, come, secondo me, pensò Epicuro.
Chi dubita che i piaceri del corpo si generino coll’aiuto dell’anima e i
piaceri dell’anima con la collaborazione del corpo? Non è quasi corporeo ciò che
pensiamo, ossia in relazione a quelle cose che abbiamo vedute, udite, percepite
con qualche senso, donde è nata la contemplazione?
Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1964, vol.
VI, pagg. 914-915