I due
filosofi avvertono che questa proposta non vuol essere una nuova filosofia. Con
l’espressione “pensiero debole” si vuole indicare un movimento dalla
ragione-dominio, propria della metafisica con tutte le sue sicurezze, verso una
zona d’ombra del pensiero dove non vi sono piú queste sicurezze.
G. Vattimo e P. Rovatti, Premessa a Il
pensiero debole
La debolezza del pensiero nei confronti del mondo, e dunque anche della società, è probabilmente solo un aspetto della impasse in cui il pensiero si è venuto a trovare alla fine della sua avventura metafisica. Ciò che conta adesso è ripensare il senso di quella avventura ed esplorare le vie per andare oltre: appunto, attraverso la negazione – non anzitutto a livello di rapporti sociali, ma a livello di contenuti e modi del pensare stesso – dei tratti metafisici del pensiero, prima fra tutti la “forza” che esso ha sempre creduto di doversi attribuire in nome del suo accesso privilegiato all’essere come fondamento.
Ma con tutto ciò non si dice molto per una caratterizzazione “positiva” del pensiero debole. L’espressione funziona anzitutto “debolmente”, se cosí si può dire, come uno slogan polivalente e volutamente dai confini non segnati, ma che fornisce un’indicazione: la razionalità deve, al proprio interno, depotenziarsi, cedere terreno, non aver timore di indietreggiare verso la supposta zona d’ombra, non restare paralizzata dalla perdita del riferimento luminoso, unico e stabile, cartesiano.
“Pensiero debole” è allora certamente una metafora, e in certo modo un paradosso. Non potrà comunque diventare la sigla di qualche nuova filosofia. È un modo di dire provvisorio, forse anche contraddittorio. Ma segna un percorso, indica un senso di percorrenza: è una via che si biforca rispetto alla ragione-dominio comunque ritradotta e camuffata dalla quale, tuttavia, sappiamo che un congedo definitivo è altrettanto impossibile. Una via che dovrà continuare a biforcarsi.
Si inizia, forse, con una perdita o, se si vuole dire cosí, con una rinuncia. Ma già fin dall’inizio si può scoprire che essa è anche l’allontanamento da un obbligo, la rimozione di un ostacolo. O meglio, è l’assunzione di un atteggiamento: il tentare di disporsi in un’etica della debolezza, non semplice, assai piú costosa, meno rassicurante. Un equilibrio difficile tra la contemplazione inabissante del negativo e la cancellazione di ogni origine, la ritraduzione di tutto nelle pratiche, nei “giochi”, nelle tecniche localmente valide.
G. Vattimo e P. Rovatti, Il pensiero debole,
Feltrinelli, Milano, 19875, pagg. 10-11