Vico, Filologia, la Discoverta del vero Omero

Rispetto ai miti antichi, l’atteggiamento prevalente nella filosofia occidentale è da Platone al Rinascimento è era stato quello di interpretarli in chiave allegorica, come se essi “nascondessero” una grande sapienza filosofica. Vico rifiuta questa interpretazione del mito e ritiene che esso esprima piuttosto il vero sentire fantastico dell’età barbara: la “Sapienza poetica”, come sapienza primitiva, non può “nascondere” né il modo di pensare dell’età eroica né tanto meno quello dell’età degli uomini. Essa ha una sua autonomia che può essere riconosciuta solo a due condizioni: rinunciare alla “boria” dei dotti e delle nazioni, che hanno voluto collocare nei tempi piú lontani possibile le radici della loro sapienza e della loro civiltà; guardare al mito e alla poesia che lo esprime con gli occhi del moderno razionalismo, che porta al disprezzo di tutto quanto si discosta dall’evidenza luminosa della ragione e della sua logica. Libero da questo pregiudizio, Vico si accinge alla “Discoverta del vero Omero”.

 

G. Vico, Princípi di una scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni [1744], libro III, sez. Prima, cap. Primo

 

della sapienza riposta c’hanno oppinato d’omero

 

Perché gli si conceda pure ciò che certamente deelesi dare, ch’Omero dovette andare a seconda de’ sensi tutti volgari, e perciò de’ volgari costumi della Grecia, a’ suoi tempi barbara, perché tali sensi volgari e tai volgari costumi dànno le propie materie a’ poeti. E perciò gli si conceda quello che narra (estimarsi gli déi dalla forza) [...]. Gli si conceda narrare il costume immanissimo (il cui contrario gli autori del diritto natural delle genti vogliono essere stato eterno tralle nazioni), che pur allora correva tralle barbarissime genti greche (le quali si è creduto avere sparso l’umanità per lo mondo), di avvelenar le saette (onde Ulisse per ciò va in Efira, per ritruovarvi le velenose erbe) e di non seppellire i nimici uccisi in battaglia, ma lasciargli inseppolti per pasto de’ corvi e cani (onde tanto costò all’infelice Priamo il riscatto del cadavero di Ettorre da Achille, che, pure nudo, legato al suo carro, l’aveva tre giorni strascinato d’intorno alle mura di Troia). Però, essendo il fine della poesia d’addimesticare la ferocia del volgo, del quale sono maestri i poeti, non era d’uom saggio di tai sensi e costumi cotanto fieri destar nel volgo la maraviglia per dilettarsene, e col diletto confermargli vieppiú. Non era d’uom saggio al volgo villano destar piacere delle villanie degli dèi nonché degli eroi [...].

Ma, per Dio, qual nome piú propio che di “stoltezza” merita la sapienza del suo capitano Agamennone, il quale dev’essere costretto da dote d’Apollo, il qual dio per tal rapina faceva scempio dell’esercito greco con una crudelissima pestilenza? [...] Ecco l’Omero finor creduto ordinatore della greca polizia o sia civiltà, che da tal fatto incomincia il filo con cui tesse tutta l’Iliade, i cui principali personaggi sono un tal capitano ed un tal eroe [...]! Ecco l’Omero innarrivabile nel fingere i caratteri poetici, come qui dentro il farem vedere, de’ quali gli piú grandi sono tanto sconvenevoli in questa nostra umana civil natura! Ma eglino sono decorosissimi in rapporto alla natura eroica, come si è sopra detto, de’ puntigliosi.Che dobbiam poi dire di quello che narra: i suoi eroi cotanto dilettarsi del vino, e, ove sono afflittissimi d’animo, porre tutto il lor conforto, e sopra tutti il saggio Ulisse, in ubbriacarsi? Precetti invero di consolazione, degnissimi di filosofo! [...].Ma concedasi ciò essere stato necessario ad Omero per farsi meglio intendere dal volgo fiero e selvaggio: però cotanto riuscirvi, che tali comparazioni sono incomparabili, non è certamente d’ingegno addimesticato ed incivilito da alcuna filosofia. Né da un animo da alcuna filosofia umanato ed impietosito potrebbe nascer quella truculenza e fierezza di stile, con cui descrive tante, sí varie e sanguinose battaglie, tante, sí diverse e tutte in istravaganti guise crudelissime spezie d’ammazzamenti, che particolarmente fanno tutta la sublimità dell’Iliade.

La costanza poi, che si stabilisce e si ferma con lo studio della sapienza de’ filosofi, non poteva fingere gli déi e gli eroi cotanto leggieri, ch’altri ad ogni picciolo motivo di contraria ragione, quantunque commossi e turbati, s’acquetano e si tranquillano; altri nel bollore di violentissime collere, in rimembrando cosa lagrimevole, si dileguano in amarissimi pianti (appunto come nella ritornata barbarie d’Italia, nel fin della quale provenne Dante, il toscano Omero, che pure non cantò altro che istorie, si legge che Cola di Rienzo, la cui Vita dicemmo sopra esprimer al vivo i costumi degli eroi di Grecia, che narra Omero, mentre mentova l’infelice stato romano oppresso da’ potenti in quel tempo, esso e coloro, appo i quali ragiona, prorompono in dirottissime lagrime); al contrario altri, da sommo dolor afflitti, in presentandosi loro cose liete, come al saggio Ulisse la cena da Alcinoo, si dimenticano affatto de’ guai e tutti si sciogliono in allegria; altri, tutti riposati e quieti, ad un innocente detto d’altrui che loro non vada all’umore, si risentono cotanto e montano in sí cieca collera, che minacciano presente atroce morte a chi ‘l disse. Come quel fatto d’Achille, che riceve alla sua tenda Priamo (il quale di notte, con la scorta di Mercurio, per mezzo al campo de’ Greci, era venuto tutto solo da essolui per riscattar il cadavero, com’altra volta abbiam detto, di Ettorre), l’ammette a cenar seco; e, per un sol detto il quale non gli va a seconda, ch’all’infelicissimo padre cadde innavvedutamente di bocca per la pietà d’un sí valoroso figliuolo (dimenticato delle santissime leggi dell’ospitalità; non rattenuto dalla fede onde Priamo era venuto tutto solo da essolui, perché confidava tutto in lui solo; nulla commosso dalle molte e gravi miserie di un tal re, nulla dalla pietà di tal padre, nulla dalla venerazione d’un tanto vecchio; nulla riflettendo alla fortuna comune, della quale non vi ha cosa che piú vaglia a muover compatimento); montato in una collera bestiale, gl’intuona sopra “volergli mozzar la testa”! [...] Per tacer affatto di quello che non può intendersi: ch’avesse gravità ed acconcezza di pensar da filosofo chi si trattenesse in truovare tante favole di vecchiarelle da trattener i fanciulli, di quante Omero affollò l’altro poema dell’Odissea.

Tali costumi rozzi, villani, feroci, fieri, mobili, irragionevoli o irragionevolmente ostinati, leggieri e sciocchi, quali nel libro secondo dimostrammo ne’ Corollari della natura eroica, non posson essere che d’uomini per debolezza di menti quasi fanciulli, per robustezza di fantasia come di femmine, per bollore di passioni come di violentissimi giovani; onde hassene a niegar ad Omero ogni sapienza riposta. Le quali cose qui ragionate sono materie per le quali incomincian ad uscir i dubbi che ci pongono nella necessità per la ricerca del vero omero.

 

(G. Vico, Opere filosofiche, a cura di N. Badaloni, Sansoni, Firenze, 1971, pagg. 615-617)