John Locke è il maestro di tutti
gli illuministi: egli, riconoscendo i limiti dell’intelletto, ha contribuito al
rafforzamento di quello stesso intelletto, che - entro i limiti impostigli
dalla sua natura - è il signore assoluto della propria conoscenza. Voltaire è
grato a Locke per la svolta che ha impresso nella filosofia occidentale, ma
sarebbe cattivo discepolo se non riconoscesse anche i limiti del maestro. E il
limite maggiore di Locke - secondo Voltaire (e gran parte dell’illuminismo
francese) - è quello di non vedere nell’uomo una “innata” aspirazione alla
giustizia: non si tratta di una “idea”, ma di una caratteristica propria della
natura umana che Voltaire vuole valorizzare al massimo.
Voltaire, Il filosofo ignorante,
XXIX, XXX, XXXIV, XXXV
XXIX Locke - Dopo tanto sfortunato
vagabondare, stanco, estenuato e vergognoso di aver cercato tante verità e
trovato tante chimere, ritornai, come il figlio prodigo al padre, a Locke; e mi
gettai nelle braccia di un uomo modesto, che non finge mai di sapere quel che
non sa, che non possiede, a dir vero, immense ricchezze, ma i cui fondi sono
sicuri, e che gode senza ostentazione dei piú solidi beni.
Egli mi confermò nei
convincimenti che ho sempre avuti: che nulla entra nel nostro intelletto se non
attraverso i nostri sensi; che non ci sono idee innate; che non possiamo avere
l’idea né d’uno spazio infinito né d’un numero infinito; che io non penso
sempre e che, di conseguenza, il pensiero non è l’essenza, ma l’azione del mio
intelletto; che sono libero quando posso fare quel che voglio [...]; che posso
volere solo in conseguenza delle idee ricevute nel mio cervello, che sono
necessitato a determinarmi in conseguenza di tali idee, perché, altrimenti, mi
determinerei senza nessuna ragione, e ci sarebbe un effetto senza causa; che,
essendo finito, non posso avere un’idea positiva dell’infinito; che non posso
conoscere nessuna sostanza, perché posso avere idee solo delle loro qualità, e
mille qualità d’una cosa non possono farmi conoscere l’intima natura di tale
cosa, che può averne centomila altre a me ignote; che sono la medesima persona
solo in quanto possiedo una certa memoria e il sentimento di questa [...]. Che,
infine, conforme alla profonda ignoranza intorno ai princípi delle cose di cui
mi sono reso conto, è impossibile che io possa conoscere le sostanze alle quali
Dio si degna di concedere il dono di sentire e di pensare. [...]
Noi non conosciamo a fondo nessun
essere; ed è, perciò, impossibile che sappiamo se un essere sia o no capace di
ricevere il sentimento e il pensiero. Le parole “materia” e “spirito” sono
soltanto parole; di quelle due cose non possediamo nessuna nozione completa:
quindi, in definitiva, è altrettanto temerario dire che un corpo organizzato da
Dio stesso non può ricevere da lui il dono di pensare, quanto sarebbe ridicolo
dire che lo spirito non può pensare. [...]
D’altronde tale problema non
interessa in nessuna guisa la morale. Sia che la materia possa pensare o no,
chiunque pensa dev’essere giusto, perché l’atomo cui Dio abbia dato il pensiero
può meritare o demeritare, esser punito o ricompensato, e durare in eterno,
quanto l’essere ignoto chiamato un tempo “soffio” e oggi “spirito”, e che
conosciamo ancora meno di un atomo. [...]
XXX Che cosa ho appreso sinora? - Dopo aver fatto i miei conti
con Locke e con me stesso, mi sono trovato possessore di quattro o cinque
verità, liberato da un centinaio di errori e caricato di un’immensa quantità di
dubbi. E mi sono detto: “Le poche verità da me acquisite per mezzo della mia
ragione resteranno tra le mie mani un bene sterile se non vi potrà trovare
qualche principio di morale. A un animale cosí misero qual è l’uomo è bello
essersi innalzato sino alla conoscenza del signore della natura; ma essa non mi
servirà piú della scienza dell’algebra se non ne ricaverà qualche regola per la
condotta della mia vita”.
XXXIV Contro Locke - Non è forse vero che Locke, il
quale mi istruisce e mi insegna a diffidare di me stesso, s’inganna talvolta
come me? Egli vuol dimostrare la falsità delle idee innate; ma non aggiunge
forse un cattivo argomento ad altri ottimi. Egli riconosce che non è giusto far
bollire il proprio simile in una caldaia e mangiarlo. Dice, tuttavia, che ci
sono stati popoli di antropofagi e che quegli esseri pensanti non avrebbero
mangiato degli uomini se avessero avuto le idee del giusto e dell’ingiusto, che
io suppongo necessarie alla specie umana.
Senza entrare qui nella questione
se siano veramente esistiti popoli antropofagi [...] ecco quel che rispondo:
“Dei vincitori hanno mangiato i loro schiavi catturati in guerra: hanno creduto
di compiere un’azione giustissima; hanno creduto di avere un diritto di vita e
di morte su di loro; e, in quanto scarseggiavano di buoni cibi per la loro
tavola, hanno creduto che fosse loro consentito nutrirsi con il frutto della
vittoria. Sono stati in questo piú giusti dei trionfatori romani, che facevano
strangolare senza alcun vantaggio i principi schiavi che avevano incatenati al
loro carro di trionfo”. [...]
XXXV Contro Locke - Riconosco, con il saggio
Locke, che non esistono idee innate, né princípi pratici innati [...]. Ripeto
ancora che Dio ci ha dato, al posto di queste chimeriche idee innate, una
ragione che si fortifica con l’età e che insegna a noi tutti, quando siamo
vigili, senza passione e senza pregiudizi, che esiste un Dio e che bisogna
essere giusti; ma non possono concedere a Locke le conseguenze che ne ricava.
Egli sembra avvicinarsi troppo al
sistema di Hobbes, dal quale resta comunque assai lontano. Ecco le sue parole,
comprese nel primo libro del Saggio sull’intelletto umano: “Considerate
una città presa d’assalto, e vedete se nell’animo dei soldati, eccitati dalla
carneficina e dal bottino, affiori qualche rispetto per la virtú, qualche principio
di morale, qualche rimorso per tutti gli atti ingiusti compiuti”.
No, essi non hanno rimorsi. Per
quale ragione? Perché credono di agire in modo conforme a giustizia. Nessuno di
loro ha mostrato di ritenere ingiusta la causa del principe per il quale
combatte: rischiano la vita per questa causa; rispettano il contratto che hanno
sottoscritto; potevano essere uccisi durante l’assalto; potevano essere
spogliati di ogni cosa; dunque, pensano di poter fare la stessa cosa con gli
altri. [...]
(Voltaire, Il filosofo
ignorante, a cura di L. Orlandini, Pagus, Paese (TV), 1993, pagg. 94-97;
100; 108; 111-112)