Voltaire,
Dizionario filosofico, voce “Bene, Tutto è bene”
Leibniz,
che era certamente [...] un profondo metafisico, rese al genere umano il
servigio di mostrargli che dobbiamo essere tutti molto soddisfatti e che Dio
non poteva fare per noi di piú, poiché scelse necessariamente, tra tutti i
mondi possibili, quello incontestabilmente migliore.
“Che ne sarà allora del peccato originale?” gli fu obiettato. “Ne faremo quel che potremo”, rispondevano Leibniz e i suoi amici. Ma, in pubblico, egli scriveva che anche il peccato originale fa parte di necessità del migliore dei mondi possibili.
Come! Essere cacciati da un
luogo di delizie, dove si sarebbe potuti vivere sempre se non si fosse mangiata
una mela; generare nella miseria dei figli infelici, destinati a soffrire ogni
male e a farlo soffrire agli altri; subire tutte le malattie, provare tutte le
afflizioni, morire nel dolore e, come rinfresco, venir bruciati per l'eternità:
tutto questo era proprio la sorte migliore? Per noi, non è certo una sorte
molto buona; in che può esser tale per Dio?
Leibniz si rendeva conto che non
si poteva risponder nulla: ragion per cui scrisse grossi libri di cui lui
stesso non capiva un bel niente. Negare che esista il male potrà esser detto
per scherzo da un Lucullo, mentre, in ottima salute, se ne sta a tavola con gli
amici e l'amante nel salone di Apollo. Ma basta che egli si affacci alla
finestra, e vedrà degl'infelici; o che gli venga la febbre, e sarà tale lui
stesso [...].
Il sistema del “Tutto è bene”
rappresenta l'autore dell'universa natura come un re potente e malefico il
quale non si dà nessun pensiero che quattro o cinquecentomila uomini debbano
perire e gli altri trascinare la loro vita nella penuria e nelle lagrime purché
egli possa venire a capo dei suoi disegni.
Nonché consolarci, la teoria del
migliore dei mondi possibili è disperante per i filosofi che l'accolgono. Il
problema del bene e del male resta, per coloro che cercano in buona fede di
chiarirlo, un caos insondabile; per coloro che amano disputare è un gioco
intellettuale: sono dei forzati che giocano con le loro catene. Quanto alle
persone del volgo, che non pensano, esse sono abbastanza simili a quei pesci
che vengon fatti passare da un fiume in un vivaio: non sospettano di trovarsi
là soltanto per esser mangiati in quaresima. Cosí noi, con le nostre sole
forze, nulla sappiamo intorno alle cause del nostro destino. Mettiamo dunque
alla fine di quasi tutti i capitoli della nostra metafisica le due lettere dei
giudici romani, quando non riuscivano a intendere una causa: N. L., “non
liquet”, la cosa non è chiara.
(E. Chiari, Voltaire e il
concetto di filosofia nel pensiero moderno, G. D'Anna, Messina-Firenze,
1981, pagg. 384-385)