SAMUEL ALEXANDER
A cura di Erica Onnis
VITA E OPERE
Samuel Alexander nacque a Sydney, in Australia il
6 gennaio 1859. Suo padre era morto prima della sua nascita e così, assieme ai
suoi due fratelli e alla sorella, Samuel fu allevato dalla madre grazie anche
all’aiuto della famiglia di lei. Nonostante non provenisse da una famiglia
ricca, sua madre dispose di sufficiente denaro per assumere una domestica e
alcuni tutori che si occupassero dell’educazione dei suoi figli. Quando uno dei
tutori decise di fondare una scuola per ragazzi, Samuel vi fu mandato, ma
l’uomo si dimostrò “un po’ pazzo” (citò infatti Samuel in un cartellone
pubblicitario della sua scuola, descrivendolo come un ragazzo “capace di
scrivere come le Muse e di fare cose straordinarie”) tanto che la madre di
Samuel fu costretta a farlo ritirare dalla scuola. Nel 1871 entrò nel Wesley
College, decisione che si dimostrò immediatamente eccellente viste le sue
potenzialità. Il preside della sua scuola, M. H. Irving, era stato studente al
Balliol College, dove aveva avuto come tutore Benjamin Jowett; egli era
emigrato in Australia per assumere il posto di professore di Comparazione
Classica e Logica Filosofica all’università di Melbourne, una cattedra a cui
rinunciò pochi anni dopo per accettare un posto al Wesley College.
“Il Wesley College” scrisse Alexander più tardi “era davvero un gran
bell’istituto, che fu in grado di darci una preparazione completa sia nella
materie classiche, sia in quelle matematiche, sia nelle varie lingue straniere
come Inglese o Francese e anche nelle Scienze.” Irving, che era “piuttosto
severo, ma anche piuttosto cordiale”, la definì come “efficiente e a tutto
tondo”.
Dal Wesley college Alexander passò all’università di Melbourne, dove le sue
prestazioni furono eccezionali, ma dopo soli due anni e senza diploma, sua
madre si convinse a mandarlo in Inghilterra, dove sperava che avrebbe vinto una
borsa di studio per Oxford oppure per Cambridge.
Alexander concorse per la borsa di studio del Balliol, Oxford, ed infatti la
vinse, superando persino Gorge Curzon (che più tardi sarebbe diventato
governatore e ministro degli esteri in India). Benjamin Jowett, il preside del
Balliol e professore di Greco Classico, fu tra i suoi conoscenti e Alexander
ricevette molti consigli da lui. Alexander ricorderà anni dopo che Jowett
trovava il suo stile “troppo floreale. I cinesi amano questo tipo di stile, noi
no.” Studiò con A.C. Bradley, fratello di F. H. Bradley, specializzato in
letteratura inglese. Sia T.H. Green, sia R.L. Nettleship erano insegnanti
privati in filosofia al Balliol durante gli anni in cui Alexander era un
allievo. Alexander tentò la docenza ad Oxford e, per ragioni sconosciute,
scelse per il suo tentativo il Lincoln College, piuttosto che il Balliol. Nel
1882 ottenne una docenza, posizione che avrebbe conservato per gli undici anni
successivi. La sua elezione fece storia, perchè fu il primo ebreo ad ottenere
una cattedra in tutta la storia del Balliol.
L'anno che segue la sua elezione, Alexander lo spese in Germania, dove assistì
alle lezioni ed alle conferenze dell'università, ma non lavorò col fine di
un’ulteriore laurea. Dopo il suo ritorno s’impegnò come insegnante di Filosofia
nelle università di Oriel e di Lincoln, dove insegnò fino al 1888. Durante
questi anni s’interessò a problemi di filosofia morale, scrivendo una
dissertazione che ricevette il Premio Green in Filosofia Morale nel 1887.
Durante gli anni seguenti, Alexander trasformò la sua dissertazione in un libro,
Ordine morale e progresso: analisi delle concezioni etiche (1889), che
venne giudicato con molto favore dalla critica e ristampato due volte negli gli
anni successivi.
Quando, data la continua richiesta del libro, l’editore propose una quarta
edizione, nel 1912, Alexander bocciò la proposta, spiegando che con il passare
degli anni lo sviluppo della teoria etica aveva reso superata la discussione
contenuta nell’opera. Come suggerisce il titolo, Alexander sviluppò una teoria
etica basata saldamente sulla teoria dello sviluppo, e in particolare sulla dottrina
darwiniana della selezione naturale. La teoria etica di T.H. Green, resa
dapprima pubblica con le sue conferenze ed in seguito con il suo libro, Prolegomeni
all'etica (1883), pubblicato da A.C. Bradley l'anno dopo la morte
dell’autore, servì ad Alexander come trampolino di lancio. Egli però non fu un
fedele seguace di Green, anzi criticava i suoi punti di vista, rifiutando
quelli che trovava troppo “costruiti”. Mentre lavorava su Green, Alexander era
preoccupato che il suo dissenso dal filosofo, la cui memoria era ancora vivissima,
avrebbe condotto il suo eventuale pubblico a respingere il suo libro e proprio
per questo fu un sollievo quando F.H. Bradley, che studiò le sue teorie, non
espresse alcuna obiezione al suo trattamento delle dottrine di Green.
Alexander era partito da Green nella sua applicazione dell'idea della selezione
naturale alla sfera della condotta umana. Sia Herbert Spencer che Leslie
Stephen avevano tentato un’operazione simile, ma Alexander, che potè lavorare
anche sui loro impianti filosofici, produsse un sistema più profondamente
sviluppato dei suoi predecessori. La sua teoria etica era decisamente in
sintonia con lo spirito dei tempi, e conseguentemente ebbe un largo successo.
Prima che il suo libro uscisse, Alexander aveva preso un permesso da Oxford per
vivere a Londra. La maggior parte del tempo là trascorso fu dedicato allo
studio, ma Alexander tenne anche un corso in psicologia elementare a Toynbee
Hall, e presiedette la relativa società filosofica.
Uno degli obiettivi principali di Toynbee Hall, la succursale delle università
fondata nella parte orientale di Londra nel 1884, era quello di offrire
un’opportunità di istruzione alla classe povera di Londra. Durante i primi
anni, molti neo-laureati di Cambridge e di Oxford cominciarono a insegnare per
qualche tempo sotto gli auspici di Toynbee Hall, prima di ottenere un posto in
modo permanente. A quel tempo era considerato alla moda insegnare là. Non
sorprendentemente, Alexander trovò i suoi allievi troppo poco preparati per i
suoi insegnamenti e infatti fu necessario un lungo lavoro prima che i suoi
nuovi studenti raggiungessero il livello dei suoi studenti non laureati
dell’Oxford.
Il suo lavoro sulla teoria etica lo aveva portato a studiare sia la biologia
sia la psicologia, ed egli continuò a interessarsi di queste materie anche a
Londra. C. Lloyd Morgan (1852-1936), che stava giusto allora preparandosi ad
approfondire la sua teoria di sviluppo emergente, espose del libro di Alexander
una critica molto favorevole che fece nascere nei due uomini una profonda
amicizia destinata a durare per tutta la vita. La dottrina dell'emersione
svolge un ruolo centrale nel lavoro metafisico successivo di Alexander. Egli fu,
inoltre, affascinato dai recenti sviluppi nel campo della psicologia
sperimentale, a quel tempo non insegnata in Inghilterra, che lo portarono negli
anni 1890-91 a recarsi in Germania per lavorare nel laboratorio di psicologia
di Hugo Münsterberg, a Friburgo. Quando ritornò ad Oxford, nel 1891, tenne un
ciclo di conferenze in psicologia nei due anni successivi, e mentre era
professore a Manchester, reclutò T.H. Pera (1886-1972) per inaugurare un corso
in psicologia sperimentale.
In seguito al suo ritorno, Alexander continuò a sentirsi insoddisfatto del suo
posto ad Oxford, così decise di fare domanda per la libera docenza. Malgrado le
numerose e influenti lettere di stima di molte importanti figure intellettuali
(compresi Bernard Bosanquet, A.C. Bradley, F.H. Bradley, Benjamin Jowett,
Gilbert Murray, Leslie Stephen e J. Cook Wilson) le sue prime tre richieste non
furono accontentate. Dati i tempi, il pregiudizio religioso poteva essere una
causa, ma non ci è dato sapere se effettivamente lo sia stato. Al suo quarto
tentativo, nel 1893, fu finalmente nominato professore di filosofia
all'università di Owens, che successivamente sarebbe stata trasformata
nell'università di Manchester, e vi insegnò fino al suo ritiro, nel 1924. Il
compenso, a Manchester, gli permise di avere sempre un assistente e, nel corso
degli anni, diede agli uomini che avevano lavorato con lui la possibilità di
continuare la loro carriera, fino ad ottenere l’insegnamento. Durante la sua
carriera, Alexander continuò comunque a prepararsi alla stesura di quella che
sarebbe poi divenuta il suo magnum opus, e cioè Spazio, Tempo e Deità,
che non fu però pubblicato fino al 1920.
Spazio, Tempo e Deità è uno straordinario lavoro di sintesi. Esso
include elementi neohegeliani, del nuovo realismo, Bergsoniani, Kantiani, ed
anche elementi che richiamano la teoria della relatività, lo sviluppo emergente
e la psicologia sperimentale. Non c’è, infatti, molto da stupirsi che la
gestazione di quest’opera abbia richiesto così tanti anni. Potenzialmente, il
libro non sarebbe mai stato scritto se l'università di Glasgow non avesse
invitato Alexander a unificare due gruppi delle conferenze di Gifford mentre la
prima guerra mondiale infuriava. Una volta che si fu impegnato, la necessità di
unire questi due gruppi lo spinse a formulare delle teorie in base alla lettura
condotta sui testi di Gifford che pose in un unico sistema.
Nel corso degli anni, aveva pubblicato un certo numero di articoli che diedero
ai suoi lettori alcuni suggerimenti per comprendere il senso del suo pensare,
ma erano soltanto suggerimenti e la portata completa del suo sistema non fu
compresa dal grande pubblico fino a quando non si decise ad unificare tutte le
sue varie conferenze ed i suoi articoli. Il libro di Alexander fu uno degli
ultimi tentativi di un filosofo inglese di avanzare una visione del mondo speculativa,
ben sviluppata e onnicomprensiva. Soltanto due dei suoi contemporanei, John
McTaggart Ellis McTaggart (1866-1925) ed Alfred North Whitehead (1861-1947),
furono successivamente in grado di pubblicare dei sistemi competenti: il primo
con lo scritto La Natura dell’Esistenza (1921); il secondo con Processo
e realtà: un saggio di Cosmologia (1929). Alexander, a sentire Dorothy
Emmet, “pensò che il suo lavoro sarebbe stato declassato da quello di Whitehead
e sottolineò che avrebbe potuto dire, come Dott. Johnson disse di sè riguardo a
Burke, che per lui ormai non era più tempo.” Quando però Alexander lesse il
lavoro di Whitehead, si rese conto che si erano rapportati alla metafisica in
modi molto diversi. Whitehead aveva intrapreso un percorso leibniziano, seguendo
anche le orme di Spinoza. Questi loro due approcci diversi, per non parlare dei
confusi neologismi e degli usi insoliti di termini comuni di Whitehead, rendono
il confronto dei due sistemi quasi impossibile. Per questo motivo, l’opera di
Alexander si staglia in modo piuttosto originale nel paesaggio della storia
della filosofia del XX secolo. Alexander non era un filosofo che cercasse
seguaci, né sarebbe stato felice se fossero venuti dei “fedeli” a gettarsi ai
suoi piedi. In una lettera a Susan Stebbing, nel 1930, Alexander pose la
questione in questi termini:
“Io credo che la mia maggiore particolarità sia di essere provocatorio; ed ho organizzato il mio modo di pensare e le miei azioni con lo scopo di indurre a pensare la gente, anche se le loro riflessioni mi potrebbero condannare. Sono molto carente di solidità e di sicurezza. E conoscete ciò che disse W. James:, e cioè che qualsiasi sciocco può essere originale.”
Lo stile provocatorio di Alexander non era però mai volgare o incivile, e pochissimi si sono mai sentiti offesi da qualche cosa che egli disse. In un celebre discorso, egli tentò anche di spiegare il motivo del grande affetto nato per lui nel corso della suo vita:
“Non so dire come io abbia ottenuto questo affetto; a meno che non sia io stesso a possedere questo affetto, che si estende a tutti i bambini e perfino ai cani, ai gatti ed a tutti gli altri animali. Oltre a questo, in seguito alla profonda autoanalisi che ho condotto, posso concludere soltanto che ci deve essere qualcosa in me che nel diciottesimo secolo sarebbe stata definita come ‘je ne sais quoi’”.
Alexander si spense nel 1938, all’età di 79 anni.
IL PENSIERO
Anche Alexander, come Alfred North Whitehead, è portavoce della corrente realista: e ciò appare evidente soprattutto nel suo capolavoro, i due volumi di Spazio, tempo e deità (1920). Come per Whitehead, anche per Alexander la realtà si contraddistingue per il suo dinamismo intrinseco: e ciò perché essa è rappresentata dall’evoluzione emergente di una sostanza universale composta dall’indisgiungibile connubio di spazio e tempo. Da tale sostanza universale emergono senza sosta sempre nuovi e più alti livelli di realtà: dalle semplici configurazioni dello spazio materiale alle più sublimi realizzazioni dello spirito. Da questa inseparabile unione di spazio e tempo, in forza della quale lo spazio è il volto materiale (il corpo) del tempo e, viceversa, il tempo è il volto formale (lo spirito) dello spazio, deriva anche la stretta unità, all’interno del processo evolutivo, tra il corpo e lo spirito. Benché lo spirito rappresenti la più alta realizzazione evolutiva che noi conosciamo, non è l’ultima: infatti l’evoluzione procede ininterrottamente e in maniera indefinita il proprio cammino. Sicché, al di là dello spirito, in futuro dovrà emergere un livello superiore di realtà: ma noi non possiamo ancora concepire l’essenza di questa realtà futura. A tale realtà futura Alexander dà il nome di deità: essa non è che l’oscuro e indefinito oggetto di venerazione di tutte le rappresentazioni storiche di Dio. In Spazio, tempo e deità, Alexander si muove con maggiore autonomia rispetto alla tradizione filosofica e con maggiore attenzione ai risultati delle ricerche scientifiche: egli sostiene che le idee non sono intermediarie tra lo spirito umano e la realtà empirica. Esse sono le cose; laddove però s’intenda che le cose non si esauriscono nella loro materialità; infatti la materia ha solo dimensione spaziale, mentre le cose sono delle determinazioni particolari di una realtà unitaria e originaria che è lo “spazio-tempo” di cui parla la fisica di Einstein. Tuttavia dell’unità “spazio-tempo” Alexander dà un’interpretazione decisamente metafisica, sostenendo – come abbiamo visto – che il tempo sta allo spazio come lo spirito sta al corpo dell’uomo. Poiché spazio e tempo sono un'unità, cosí anche l’uomo è unità di spirito e di corpo. Il che implica non solo che, in generale, non c’è separazione tra spirito e corpo nell’uomo, ma anche che non c’è mondo spirituale da una parte e mondo materiale dell’altra, e non c’è un mondo di essenze separato dal mondo delle esistenze. Per cui le connessioni percepite mentalmente tra le cose non sono soggettive, ma oggettive: sono connessioni ideali intrinseche alla realtà e proprie di essa. Come si spiega la relazione indicata? Con la teoria dell’evoluzione, dice Alexander. La materia, noi diciamo, si è evoluta nel tempo; in realtà ciò significa che il tempo è il principio e la condizione dell’evoluzione della materia; principio interno, non esterno. In virtú di questa evoluzione, la materia ha raggiunto un assetto organico, da cui è emerso l’uomo. Ciò significa anzitutto che l'unità spirito-corpo dell’uomo ha la sua radice in quella spazio-temporale della realtà cosmica. E poi che lo spirito è certo qualcosa di specifico rispetto alla materia del corpo, non riducibile ad essa, ma non sussiste fuori della materia; esso ne è, sul piano evolutivo, il prolungamento. Significa anche che nell’individuo lo spinto è l’energia interiore del corpo, è una determinazione specifica, spaziale, del tempo, anzi è la forma piú alta del tempo. E infine significa che lo spirito è il fondamento comune di tutti gli individui umani, ma anche di tutte le realtà naturali e sensibili.