Günther Anders
A cura di Simone Tunesi
Günther Anders nacque a Breslavia nel 1902. Laureato in filosofia nel 1923 sotto la guida di Husserl, nel 1933 dopo l’avvento al potere del nazismo (era ebreo) si trasferisce prima a Parigi e poi negli Stati Uniti (New York e Los Angeles) dove tra le altre cose fa anche l’operaio. Dopo essere stato il primo marito di Hannah Arendt, sposò nel 1945 la scrittrice Elisabeth Freundlich. Nel 1950 tornò in Europa, stabilendosi a Vienna dove morì nel 1992. È autore di un'opera ancora in parte inedita in cui l'interesse per la filosofia si alterna con quello per la letteratura e per l’arte. La sua opera più importante L’uomo è antiquanto si divide in due volumi: il primo del 1956 ha come sottotitolo Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, mentre il secondo; pubblicato nel 1980, Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale.
Sono famose, inoltre, le sue prese di posizione sulla bomba atomica (Essere o non essere e La coscienza al bando entrambi Einaudi, 1961 e 1962), sulla guerra del Vietnam (fece parte del tribunale Russell contro i crimini di guerra) e su Černobyl. Disponibili in traduzione italiana anche: Opinioni di un eretico (Teoria, 1991); Patologia della libertà (Palomar, 1994); Noi, figli di Eichmann (La Giuntina, 1995), Stato di necessità e legittima difesa (Cultura della pace, 1997), Saggi sull’esilio americano (Palomar, 2003) e Amare.Ieri. Annotazioni sulla storia della sensibilità (Bollati Boringhieri, 2004).
Un
episodio piuttosto curioso riguarda il nome del filosofo. Infatti Gunther
Anders non è altro che lo pseudonimo di Gunther Strern; il fatto risale alla
giovinezza dell’autore, quando un editore gli disse di scegliersi un nome diverso
per pubblicare i suoi lavori, giacché era un cognome tipicamente ebreo e oramai
stavano sempre più affermandosi le idee naziste. Così il giovane Gunther scelse
come cognome proprio “diverso” (in tedesco Anders significa appunto “diverso”). Norberto Bobbio nel presentare Essere o non essere: diario di Hiroshima e Nagasaki ha scritto:
"Lo scopo dell'autore è più quello di scuotere gli indifferenti, di incitare i dubbiosi, di rendere perpetuamente inquieti gli ottimisti di professione e vigilanti i già convinti, che non quello di suggerire soluzioni immediate e indiscutibili. Da una pagina autobiografica del libro si apprende che, quando l'autore ebbe acquistato coscienza che è in gioco, oggi, 'la conservazione del tutto', il suo pensiero dominante diventò quello di suscitare questa coscienza anche negli altri, a costo di apparire agli occhi di qualche vecchio amico un 'fissato'. A chi gli rimprovera di aver abbandonato la versatilità di un tempo, di voler viaggiare ormai su di un binario unico, risponde: 'Ma a che serve questa versatilità, quando siete tutti sul treno che corre difilato sul suo binario unico verso la catastrofe?'"
Il pensiero di Anders (inspiegabilmente poco conosciuto, non solo in Italia) si radica profondamente nella cultura nel ‘900, la sua filosofia è volta a stabilire le cause che hanno portato l’uomo a creare una società in cui l’unico protagonista è l’apparato tecnico.
Secondo Anders, infatti, oggi viviamo in un mondo in cui la macchina e gli oggetti prodotti in serie sono diventati i protagonisti della storia, il mondo è il luogo in cui ogni essere umano è 'gettato' e costretto a vivere in qualità di essere totalmente inadeguato ai nuovi tempi.
Figura paradigmatica di questa situazione è Prometeo. Infatti, ciò che caratterizza oggi, più che mai, l’uomo è la vergogna prometeica. L’uomo della civiltà tecnologica, come un novello Prometeo, è subalterno alle macchine da lui stesso create, e per queste prova soggezione e vergogna. Questa vergogna è anche legata a una sorta di dislivello tra l’uomo e i prodotti meccanici, che essendo sempre più efficienti e funzionali lo oltrepassano facendolo diventare antiquato. Le macchine sono perfette, funzionano e sono ripetibili in serie: questo concedo loro una sorta di eternità che all’uomo è negata. Di fronte alle macchine l’uomo perde la sua importanza all’interno del sistema sociale, egli diventa antiquato perché, appunto, ha bisogno di riposarsi, di mangiare, di divertirsi mentre le macchine funzionano “sempre” senza intervalli e distrazioni. Il parallelo uomo-macchina sembra, dunque, volgere tutto a favore di quest’ultima.
Se la prima rivoluzione industriale è consistita nell'introduzione del macchinismo, se la seconda si riferisce alla produzione dei bisogni, la terza rivoluzione industriale (quella che attualmente stiamo vivendo e che è nata nello scorso secolo) è per Anders quella che produce l'alterazione irreversibile dell'ambiente e compromette la sopravvivenza stessa dell'umanità.
Simbolo incontrastato e paradigma della nuova era (e della sua pseudo-cultura) è indiscutibilmente la televisione.
Secondo il filosofo tedesco lo sviluppo della radiotelevisione è la piena espressione della società tecnologica, dove i diversi "mezzi" acquistano in effetti la sovranità sulla vita, non solo lavorativa. Questo è il segnale di una nuova fase, più perfezionata, della cultura di massa. Prima, sostiene Anders, il pubblico di massa si trovava almeno unito dal fatto di assistere insieme a uno spettacolo (pensiamo al teatro o al cinema), di condividere le emozioni. Con la televisione questo non avviene più, in quanto si impone una forma di atomizzazione. Il carattere domestico del mezzo è per il filosofo il maggior responsabile dell’ appiattimento emozionale che caratterizza il nostro essere. Guardiamo tutti le stesse cose, compriamo tutti le stesse cose e di conseguenza parliamo delle stesse cose e pensiamo in blocco le stesse cose: non c’è più spazio per l’originalità, ma solamente per l’omologazione intellettuale. "Ogni consumatore è un lavoratore a domicilio non stipendiato che coopera alla produzione dell'uomo di massa", e aggiunge. "Dato che il mondo ci è fornito in casa, non ne andiamo alla ricerca; rimaniamo privi di esperienza". L’esperienza muta: ora la televisione occupa la maggior parte del nostro tempo libero e fare esperienza (interagire con gli altri, leggere, etc.) non sembra essere più necessario. Con la televisione cade, inoltre, ogni barriera tra realtà e fantasia. Infatti la televisione sembra sostituire anche i nostri sogni.
Molto interessante risulta essere anche il discorso (sempre legato alla tecnica) che Anders imposta sull’energia atomica, in particolare sull’episodio di Hiroshima e Nagasaki durante la seconda guerra mondiale. A tale proposito il filosofo elabora delle tesi:
1) Il 6 agosto 1945, giorno in cui fu sganciata la prima bomba atomica su Hiroshima, è cominciata una nuova era: l'era in cui possiamo trasformare in qualunque momento la terra intera in un'altra Hiroshima. Da quel giorno siamo onnipotenti in modo negativo; ma potendo essere distrutti ad ogni momento, ciò significa anche che da quel giorno siamo totalmente impotenti. Quest'epoca è l'ultima: la possibilità dell'autodistruzione del genere umano, non può aver fine che con la sua stessa fine.
2) La tesi apparentemente plausibile che nell'attuale situazione politica ci sarebbero (fra l'altro) anche "armi atomiche", è un inganno. Poiché la situazione attuale è determinata esclusivamente dall'esistenza di "armi atomiche", è vero il contrario: che le cosiddette azioni politiche hanno luogo entro la situazione atomica.
3) Ciò contro cui lottiamo, non è questo o quell'avversario che potrebbe essere attaccato o liquidato con mezzi atomici, ma la situazione atomica in sé. Poiché questo nemico è nemico di tutti gli uomini, quelli che si sono considerati finora come nemici dovrebbero allearsi contro la minaccia comune. Organizzazioni e manifestazioni pacifiche da cui sono esclusi proprio quelli con cui si tratta di creare la pace, si risolvono in ipocrisia, presunzione compiaciuta e spreco di tempo.
4) Le nubi radioattive non badano alle pietre miliari, ai confini nazionali o alle "cortine". Ognuno può colpire chiunque ed essere colpito da chiunque. Se non vogliamo restare moralmente indietro rispetto agli effetti dei nostri prodotti, dobbiamo fare in modo che l'orizzonte di ciò che ci riguarda, e cioè l'orizzonte della nostra responsabilità, coincida con l'orizzonte entro il quale possiamo colpire o essere colpiti; e cioè che diventi anch'esso globale. Non ci sono più che "vicini".
5) Ciò che si tratta di ampliare, non è solo l'orizzonte spaziale della responsabilità per i nostri vicini, ma anche quello temporale. Poiché le nostre azioni odierne, per esempio le esplosioni sperimentali, toccano le generazioni venture, anch'esse rientrano nell'ambito del nostro presente. Tutto ciò che è "venturo" è già qui, presso di noi, poiché dipende da noi.
6) Ciò che conferisce il massimo di pericolosità al pericolo apocalittico in cui viviamo, è il fatto che non siamo attrezzati alla sua stregua, che siamo incapaci di rappresentarci la catastrofe. Raffigurarci il non-essere (la morte, ad esempio, di una persona cara) è già di per sé abbastanza difficile; ma è un gioco da bambini rispetto al compito che dobbiamo assolvere come apocalittici consapevoli. Poiché questo nostro compito non consiste solo nel rappresentarci l'inesistenza di qualcosa di particolare, ma nel supporre inesistente questo contesto, e cioè il mondo stesso. Questa "astrazione totale" trascende le forze della nostra immaginazione naturale.
7) Ma poiché, come homines fabri, siamo capaci di tanto (siamo in grado di produrre il nulla totale), la capacità limitata della nostra immaginazione (la nostra "ottusità") non deve imbarazzarci. Dobbiamo (almeno) tentare di rappresentarci anche il nulla. Ecco quindi il dilemma fondamentale della nostra epoca: "Noi siamo inferiori a noi stessi", siamo incapaci di farci un'immagine di ciò che noi stessi abbiamo fatto. In questo senso siamo "utopisti a rovescio": mentre gli utopisti non sanno produrre ciò che concepiscono, noi non sappiamo immaginare ciò che abbiamo prodotto.
8) La frattura che divide l'umanità non passa, oggi, fra lo spirito e la carne, fra il dovere e l'inclinazione, ma fra la nostra capacità produttiva e la nostra capacità immaginativa. Questo "scarto" non divide solo immaginazione e produzione, ma anche sentimento e produzione, responsabilità e produzione. Si può forse immaginare, sentire, o ci si può assumere la responsabilità, dell'uccisione di una persona singola; ma non di quella di centomila. Quanto più grande è l'effetto possibile dell'agire, e tanto più è difficile concepirlo, sentirlo e poterne rispondere; quanto più grande lo "scarto", tanto più debole il meccanismo inibitorio. Liquidare centomila persone premendo un tasto, è infinitamente più facile che ammazzare una sola persona. Al "subliminare", noto dalla psicologia (lo stimolo troppo piccolo per provocare già una reazione), corrisponde il "sopraliminare": ciò che è troppo grande per provocare ancora una reazione.
9) Nulla di più falso della frase cara alle persone di mezza cultura, per cui vivremmo già nell'"epoca dell'angoscia". Questa tesi ci è inculcata dagli agenti ideologici di coloro che temono solo che noi si possa realizzare sul serio la vera paura, adeguata al pericolo. Noi viviamo piuttosto nell'epoca della minimizzazione e dell'inettitudine all'angoscia. L'imperativo di allargare la nostra immaginazione significa quindi in concreto che dobbiamo estendere e allargare la nostra paura. Va da sé che questa nostra angoscia deve essere di un tipo affatto speciale: 1) Un'angoscia senza timore, poiché esclude la paura di quelli che potrebbero schernirci come paurosi. 2) Un'angoscia vivificante, poiché invece di rinchiuderci nelle nostre stanze ci fa uscire sulle piazze. 3) Un'angoscia amante, che ha paura per il mondo, e non solo di ciò che potrebbe capitarci.
10) L'imperativo di allargare la portata della nostra immaginazione e della nostra angoscia finché corrispondano a quella di ciò che possiamo produrre e provocare, si rivelerà continuamente irrealizzabile. Non dobbiamo lasciarci spaventare; il fallimento ripetuto non depone contro la ripetizione del tentativo. Anzi, ogni nuovo insuccesso è salutare, poiché ci mette in guardia contro il pericolo di continuare a produrre ciò che non possiamo immaginare.
11) Sarebbe una leggerezza pensare che quelli che sono responsabili delle decisioni, grazie a posizioni di potere politico o militare comunque acquisite, sappiano immaginare l'inaudito meglio di noi. Assai più legittimo è il sospetto: che ne siano affatto inconsapevoli. Ed essi lo provano dicendo che noi siamo incompetenti nel "campo dei problemi atomici e del riarmo", e invitandoci a non "immischiarci". Molti di loro si appellano alla "competenza" solo per mascherare il carattere antidemocratico del loro monopolio. Se la parola "democrazia" ha un senso, è proprio quello che abbiamo il diritto e il dovere di partecipare alle decisioni che concernono la "res publica", che vanno, cioè, al di là della nostra competenza professionale e non ci riguardano come professionisti, ma come cittadini o come uomini. E un problema più "pubblico" della decisione sulla nostra sopravvivenza non c'è mai stato e non ci sarà mai. Rinunciando a "immischiarci", mancheremmo anche al nostro dovere democratico.
12) Oggi si può avviare una serie di azionamenti successivi schiacciando un solo bottone; compreso, quindi, il massacro di milioni. L'uomo che schiaccia il tasto non si accorge più nemmeno di fare qualcosa; e poiché il luogo dell'azione e quello che la subisce non coincidono più, poiché la causa e l'effetto sono dissociati, non può vedere che cosa fa. E' chiaro che solo chi arriva a immaginare l'effetto ha la possibilità della verità; la percezione non serve a nulla. Questo genere di mimetizzamento è senza precedenti: mentre prima i mimetizzamenti miravano a impedire alla vittima designata dell'azione, e cioè al nemico, di scorgere il pericolo imminente, oggi il mimetizzamento mira solo a impedire all'autore di sapere quello che fa. In questo senso anche l'autore è una vittima.
13) Finché l'agire si traveste ancora da "lavorare", è pur sempre l'uomo ad essere attivo; anche se non sa che cosa fa lavorando, e cioè che agisce. La menzogna celebra il suo trionfo solo quando liquida anche quest'ultimo residuo: il che è già accaduto. Poiché l'agire si è trasferito (naturalmente in seguito all'agire degli uomini) dalle mani dell'uomo in tutt'altra sfera: in quella dei prodotti. Essi sono, per così dire, "azioni incarnate". La bomba atomica (per il semplice fatto di esistere) è un ricatto costante: e nessuno potrà negare che il ricatto è un'azione. Qui la menzogna ha trovato la sua forma più menzognera: non ne sappiamo nulla, abbiamo le mani pulite, non c'entriamo. Assurdità della situazione: nell'atto stesso in cui siamo capaci dell'azione più enorme - la distruzione del mondo - l'"agire", in apparenza, è completamente scomparso. Poiché la semplice esistenza dei nostri prodotti è già un "agire", la domanda consueta: che cosa dobbiamo "fare" dei nostri prodotti (se, ad esempio, dobbiamo usarli solo come "deterrenti"), è una questione secondaria, anzi fallace, in quanto omette che le cose, per il fatto stesso di esistere, hanno sempre agito.
14) La guerra atomica possibile sarà la più priva d'odio che si sia mai vista. Chi colpisce non odierà il nemico, poiché non potrà vederlo; e la vittima non odierà chi lo colpisce, poiché questi non sarà reperibile. Nulla di più macabro di questa mitezza (che non ha nulla a che fare con l'amore positivo). Certo l'odio sarà ritenuto indispensabile anche in questa guerra. Per alimentarlo, si indicheranno oggetti d'odio ben visibili e identificabili, "ebrei" di ogni tipo. Ma quest'odio non potrà entrare minimamente in rapporto con le azioni di guerra vere e proprie: e la schizofrenia della situazione si rivelerà anche in ciò, che odiare e colpire saranno rivolti a oggetti completamente diversi.
Concludiamo
questa breve trattazione del pensiero andersiano con dei comandamenti che ,
secondo il filosofo, sembrano guidare l’uomo nell’epoca atomica e che, nella
loro agghiacciante verità, risultano essere paradigmatici: Il tuo primo
pensiero dopo il risveglio sia: "Atomo". Poiché non devi cominciare
un solo giorno nell'illusione che quello che ti circonda sia un mondo stabile.
Quello che ti circonda è qualcosa che domani potrebbe essere già semplicemente
"stato"; e noi, tu e io e tutti i nostri contemporanei, siamo più
"caduchi" di tutti quelli che finora sono stati considerati tali. E
questo sia il tuo secondo pensiero dopo il risveglio: "La possibilità
dell'apocalisse è opera nostra. Ma noi non sappiamo quello che facciamo".
Anders, per il suo modo estremamente critico di intendere le cose, può essere accostato a diversi filosofi come, ad esempio, Adorno, Marcuse, Bloch o Jonas. Tuttavia la sua filosofia si distingue (per le conclusioni a cui arriva) da altri autori; in particolare è piuttosto evidente la differenza che effettivamente esiste tra Jonas, Bloch e Anders. Analizzando il drammatico momento che coinvolge attualmente l’umanità e il pianeta, Jonas con il principio di responsabilità, e Bloch con il principio “speranza” ammettono più o meno esplicitamente che c’è ancora spazio per un’inversione di rotta. Anders, invece, teorizza il principio “disperazione” (cfr. Pier Paolo Portinaro, Il principio disperazione), secondo il quale, ormai, non è più lecito nemmeno sperare in quanto la condizione a cui l’uomo oggi è arrivato è sostanzialmente irrecuperabile. Se Heidegger diceva che ormai solo un Dio ci può salvare, Anders si spinge oltre e dice che, dopo la bomba atomica, la salvezza non sembra più una realtà possibile.