ANSCOMBE
A cura di Diego Fusaro
Gertrud Elisabeth Anscombe (1919-2001), allieva di Wittgenstein e professoressa a Cambridge, è autrice dell’importante scritto Intenzione (1957), nel quale va sostenendo che il comportamento è intenzionale soltanto in relazione ad una certa sua descrizione (aspetto volontario), ed è in intenzionale in relazione ad altre sue descrizioni (aspetto neurofisiologico): ella sostiene inoltre che nel comportamento non c’è alcuna razionalità, finché esso non sia compreso come razionale. Detto altrimenti, secondo la Anscombe, il comportamento riceve il suo carattere intenzionale dal fatto di essere posto in un contesto di traguardi e di cognizioni. Delle diverse descrizioni che si possono fornire di un evento, solo una rientra nell’intenzionalità, ossia nell’autodeterminazione consapevole del soggetto che agisce. Qualora le descrizioni siano più d’una, si ha allora una “catena teleologica”, come nel caso in cui si muova il braccio per pompare acqua allo scopo di riempire un recipiente per permettere agli abitanti di una casa di bere. Se l’acqua fosse avvelenata ma io fossi allo scuro di questo particolare, allora non si potrebbe affermare che ho pompato l’acqua per avvelenare gli abitanti della casa: infatti, in questo caso, al mio agire manca l’autodeterminazione consapevole. Nella prospettiva fatta valere dalla Anscombe, l’azione viene spiegata in base a ciò a cui essa tende anziché in base a ciò da cui essa deriva. Ad avviso della Anscombe, la struttura delle volizioni è eccellentemente rappresentata dal sillogismo di Aristotele, che non riesce a render conto in maniera corretta dei processi inferenziali: infatti, il “sillogismo pratico” dà una plausibile correlazione tra le intenzioni del soggetto agente e la conoscenza dei mezzi adatti, giacché l’agire umano presenta sempre aspetti irriducibili alla mera successione di accadimenti fisici. Il “sillogismo pratico” è una struttura deduttiva che indica il processo che porta l’agente all’azione: il suo primo momento (ossia la prima premessa, che è singolare e contingente) esprime la volizione del soggetto agente; il secondo momento (ossia la seconda premessa, che è anch’essa contingente e soggettiva) esprime la conoscenza delle condizioni finalizzate al raggiungimento di quanto voluto; il terzo momento (cioè la conclusione) esprime infine la disposizione del soggetto agente a realizzare le condizioni stesse. In questo “sillogismo pratico” è assente una necessità di tipo causale, poiché manca una connessione nominale tra intenzione e comportamento. Ricorriamo ad un esempio pratico: se desidero liberarmi di una zanzara che mi tormenta e se credo che l’unico modo per farlo consista nello spalancare la finestra, ciò non dimostra che spalancare la finestra sia per davvero il solo modo per liberarmi della zanzara. Questo indirizzo di pensiero, che potremmo chiamare “antiriduzionistico”, ritorna anche in autori come Dray, Hampshire, Kenny, Melden e Peters, per i quali (che hanno come punto di partenza le posizioni del “secondo” Wittgenstein) il nesso tra intenzione e azione non è causale, giacché volizioni, credenze e motivazioni non possono essere concepite come cause dell’azione se manca l’inaggirabile contributo dell’intenzione; e l’azione secondo intenzione è diversa dal puro movimento corporeo proprio perché è concepita fin da principio in relazione ad uno scopo da ottenere. La conseguenza è che l’azione secondo intenzione è sostanzialmente sociale, giacché presuppone una comunità di istituzioni, di abitudini, di tecnologie, ed è gravida di un significato il cui riconoscimento rientra negli scopi del soggetto agente.
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