KARL OTTO APEL
VITA
OPERE
PENSIERO
DANTE E VICO
Karl Otto Apel si è accostato alla storia del pensiero italiano per ragioni non puramente erudite o storiografiche, ricostruendo la linea di sviluppo della "idea" di lingua da Dante a Vico. Si tratta, come sottolinea Apel stesso, di una prospettiva che comporta l’abbandono o, almeno, la fuoriuscita da quadri storiografici lungamente invalsi e che hanno incentrato l’interesse sulle grandi problematiche ontologiche e gnoseologiche, relegando il linguaggio in una posizione settoriale - come del resto è accaduto anche nella filosofia classica tedesca. Ma così non può e non deve più essere dopo l’imponente "svolta linguistica" del nostro secolo che risulta sempre più determinante nel quadro complessivo della discussione filosofica, dal neopositivismo alla filosofia analitica, allo strutturalismo, su su fino all’ontologia e filosofia ermeneutica. Quella che viene messa in questione è la grande tradizione moderna tanto nel suo versante nominalistico, quanto in quello razionalistico e secondo il quale il linguaggio si riduce a un sistema di segni operativi sia pur nella molteplicità di varianti e di motivazioni di questa impostazione. Né d’altra parte, rispetto a questa concezione, si può considerare come alternativa adeguata e convincente la filosofia del linguaggio di carattere mistico-rivelativo che risale a Eckhart e a Böhme e che pure ha fatto sentire la sua presenza negli sviluppi della filosofia del linguaggio tra Sette ed Ottocento specialmente in Germania. L’unica ed autentica mediazione è invece rappresentata dalla tradizione umanistica del pensiero italiano che ha saputo raccogliere e sviluppare il nucleo centrale e vitale della filosofia del linguaggio classica o, se si preferisce, dell’accentuazione ciceroniana del momento dell’invenzione rispetto a quello del giudizio, sciogliendolo però dall’universalismo del latino a cui per secoli è apparso inscindibilmente collegato. Di qui la rilevanza dell’opera di Dante nel De vulgari eloquentia come scoperta ed affermazione della lingua nazionale o lingua materna; ma una scoperta che, a differenza di quanto è avvenuto nella grecità, non è più sincronica al formarsi del sapere filosofico, alla scoperta del logos, bensì si realizza in tensione rispetto a una cultura derivata e consolidatasi nell’orizzonte delle lingue classiche. Nella complessa traiettoria storica e teorica dell’idea di lingua che da Dante, attraverso umanesimo, rinascimento e barocco, giunge a Vico, spetta un posto centrale e cruciale proprio all’opera che, per un lato mette in luce retrospettivamente le potenzialità innovatrici di tale traiettoria e, per l’altro, come Apel sottolinea ripetutamente, presenta motivi di attualità rispetto al nostro tempo. Più esattamente, la posizione di Vico rappresenta la consapevolezza e la valorizzazione di momenti insopprimibili, fondamentali, ed in questo senso "trascendentali" della originaria inventività della lingua che per troppo tempo sono stati soffocati o emarginati da una concezione puramente "operativa" del linguaggio, le cui propaggini del resto non mancano di operare anche nella filosofia del Novecento. L’importante è comunque che Vico non deve essere appiattito o risolto in una generica rivalutazione di elementi antiilluministici o preromantici; al contrario, si tratta di cogliere la peculiarità (ed attualità) della sua concezione della lingua distinguendola nettamente dalle concezioni lirico-idilliache della lingua originaria come da qualsiasi riduzione del concetto umanistico di lingua al piano puramente estetico-pedagogico. La peculiarità di Vico è di aver dischiuso, con la scoperta dell’universale fantastico, quell’orizzonte di comprensione dell’originario mondo mitico del logos arcaico che è intrinsecamente comunicativo e socializzante poiché si incardina sulla simpatia dell’uomo con l’ambiente e realizza così un tessuto ermeneutico anteriore alla distanza segnata e richiesta dai processi intellettivi e matematizzanti; un tessuto costituito non soltanto da suoni, ma da gesti, da comportamenti rituali e formalizzanti, come si può constatare in molti casi del rituale giuridico religioso. Volendo cercare affinità storiche non è a Herder che si deve guardare, quanto piuttosto a Hölderlin con la sua sensibilità per il carattere mitopoietico della lingua, così come va sottolineato che Vico nella sua concezione della originarietà della lingua attinge a dimensioni anteriori e diverse da quelle rappresentate dalla tradizione biblica; in questo senso, anzi, per la sua stessa concezione delle età della lingua e dell’uomo è essenziale la consapevolezza della distinzione tra storia salvifica e storia profana, pur nel quadro di una visione provvidenzialistica complessiva. Vico dunque non si limita a riprendere, ma radicalizza e porta ad una svolta la tradizione umanistica del primato della topica, la concezione della metafora come chiave della comprensione poetica originaria del mondo, e questo non tanto negli scritti precedenti quanto nella Scienza Nuova dove si ha il superamento della concezione umanistica, in quanto la sapienza poetica originaria viene del tutto sciolta da qualsiasi connessione con le concezioni tradizionali di un semplice adombramento o ornamento di un sapere presupposto e dalla commistione con elementi mistici platonici o cristiani
Per questo si può considerare "trascendentale" ed attuale la concezione vichiana che condivide con il soggettivismo moderno l’affrancamento dallo stampo del latino medievale, ma non si chiude nel soggettivismo delle correnti predominanti nel pensiero moderno, bensì risale alle dimensioni intersoggettive della comunicazione linguistica e della sua istituzionalizzazione letteraria. Un trascendentale pertanto che non si contrappone affatto alla storicità interna del pensiero e del linguaggio, ma, al contrario, la rivendica ed evidenzia con la dottrina della circolarità tra filosofia e filologia e con la concreta lettura della tipologia ideale della storia dello spirito attraverso l’interpretazione della storia del linguaggio nella sua funzione non settoriale, ma fondativa rispetto al profilarsi delle diverse fasi e figure non solo della comunicazione, ma dell’intero costume e pensiero dell’uomo.
LA CONCEZIONE DELLA VERITA’ NELLA METAFISICA
Poiché quello della verità é uno dei problemi centrali della riflessione filosofica, Karl Otto Apel ritiene che si possano individuare nella storia del pensiero tre epoche diverse, in relazione a tre diversi paradigmi di verità: la verità come corrispondenza o adeguazione di conoscenza e mondo, la verità come certezza soggettiva della coscienza e, infine, la verità come corrispondenza di ordine semantico . Della dottrina della verità come "adaequatio" Apel rintraccia la fondazione in Aristotele e lo sviluppo consapevole in Tommaso d'Aquino . Due sono le difficoltà che ne hanno reso necessario l'abbandono: l'impossibilità di individuare come qualcosa di osservabile la differenza tra vero e falso e l'impossibilità da parte del soggetto conoscente di porsi in un terzo luogo, diverso dal soggetto e dall'oggetto, per coglierne la relazione di corrispondenza. Il secondo paradigma, prospettando la verità come certezza soggettiva, rappresenta, per Apel, la dissoluzione dell'ontologia tradizionale a vantaggio di una indagine gnoseologica . Se Platone rappresenta lo stadio preliminare del primo paradigma di verità ed elabora la prima dottrina consapevole del giudizio , Aristotele evidenzia una concezione ontologica forte della verità come corrispondenza . Il secondo modello di verità è l'espressione della moderna filosofia della coscienza da Cartesio ad Husserl. Al suo interno Apel distingue una teoria dell'evidenza, una teoria della coerenza e una teoria del verum-factum che da Vico giunge fino a Kant.
LA VERITA’ DA CARTESIO A HUSSERL
Nella teoria dell'evidenza - spiega Apel - ciò che conta è la presenza nella coscienza di dati soggettivi, senza che si possa verificare la loro corrispondenza con dati esterni : vero, in tal senso, è ciò che, cartesianamente, risulta chiaro e distinto all'io. Il terzo modello di verità, invece, ritiene che non tutto ciò che è presente alla consapevolezza dell'io risulta vero, ma solo ciò che costruiamo a priori. Secondo Apel, le scienze della natura intrattengono un rapporto privilegiato con la teoria della verità come corrispondenza, ma ignorano il concetto di verità che è in gioco nelle cosiddette "scienze umane" . Secondo Apel, Kant oscilla tra evidenza, coerenza e verità fattuale, perché non è né un filosofo razionalista, né un semplice empirista. Per Hegel, invece, la verità è la coerenza delle determinazioni all'interno della totalità dell'Idea. Con la crisi della filosofia teoretica determinata da Nietzsche, dal pragmatismo americano e dai filosofi postmoderni, tra cui Rorty e Feyerabend, entra in crisi anche l'idea di verità, ridotta, tra l'altro, a volontà di potenza. Husserl, per Apel, è stato l'ultimo rappresentante classico della filosofia della coscienza ed ha cercato di conciliare nell'idea di intenzionalità quale certificazione soggettiva di un dato oggettivo la teoria classica della corrispondenza e la teoria moderna dell'evidenza . Eppure, secondo Apel, la constatazione apparentemente pacifica di un dato di fatto presuppone sempre una interpretazione linguistica del mondo.
LA VERITA’ NELLA SEMIOTICA TRASCENDENTALE
Apel analizza il terzo paradigma delle teorie della verità, quello che prende atto della svolta linguistica operata dalla filosofia analitica. Per illustrare questo nuovo paradigma di verità, Apel istituisce un confronto tra Husserl, l'ultimo esponente della teoria dell'evidenza, e Tarski, il primo e più importante teorico della verità come coerenza semantica. Per conciliare queste due opposte esigenze e fondare una teoria trascendental-semantica della verità, secondo Apel, si tratta di prendere le mosse da Peirce . Questi, respingendo tutti gli esiti soggettivistici della teoria pragmatistica della verità, ha cercato di rintracciare un contesto a cui sia assicurata una validità pubblica non di tipo utilitaristico, ma accettata dalla comunità degli scienziati.Illustrando la teoria della verità come consenso quale si trova in Peirce e che anticipa la sua teoria trascendental-semeiotica o trascendental-pragmatica, Karl Otto Apel ne rintraccia delle anticipazioni in Aristotele, negli stoici e in Kant . Questo nuovo modello trascendental-semeiotico di verità, per Apel, deve costituire una sintesi tra la teoria della verità come evidenza soggettiva e la teoria della verità come coerenza e, soprattutto, deve difendersi dall'accusa di relativismo o da quella di ridurre il vero al consenso fattuale: essa, infatti, secondo Apel, concilia la coerenza dei concetti e l'evidenza dell'esperienza, all'interno di un processo di ricerca che regolativamente si approssima al consenso dei parlanti. Per replicare all'accusa di soggettivismo e relativismo formulata da Hoesle, secondo cui in questo paradigma la verità verrebbe ridotta ad un accordo, mentre dovrebbe accadere il contrario, Apel fa notare che la verità non è un possesso metafisico stabile o definitivo, ma un termine a cui la ricerca tende .Sulla linea di Peirce si colloca l' "etica del discorso" di Habermas, con la differenza che Apel concepisce le precedenti teorie della verità come integrabili all'interno del paradigma consensuale. Infatti l'idea kantiana di una sintesi unificatrice della conoscenza può valere solo per il singolo individuo mentre tutto ciò che aspira ad essere vero in termini di coerenza, evidenza od esperimento deve attingere il consenso della comunità dei ricercatori . La teoria consensuale della verità, secondo Apel, trova applicabilità in tutte le forme del sapere filosofico e scientifico, anche in quelle conoscenze a priori che, come tali, non dovrebbero aver bisogno del consenso fattuale. Così la stessa teoria filosofica della verità come consenso deve poter essere vera a priori, prima e indipendentemente da ogni consenso, eppure deve essere sottoposta alla verifica del discorso e della critica. Essa non ha nulla di relativistico, in quanto ammette alcuni principi incontrovertibili, la cui negazione porterebbe ad una contraddizione.
ETICA DELLA COMUNICAZIONE
Apel illustra la problematica all'interno della quale ha elaborato un'"etica della comunicazione", di cui è considerato il fondatore; egli nota come la scienza, da un lato, con le sue applicazioni tecniche, mette in campo questioni morali circa la valutazione delle conseguenze di azioni collettive, dall'altro lato, in quanto sapere avalutativo, esclude una fondazione razionale dell'etica. Nella situazione attuale, secondo Apel, di fronte alle sfide della crisi ecologica ed economica una macroetica che sappia fondare la responsabilità delle azioni si rende ancora più auspicabile. Se il singolo, oggi, è impotente di fronte ai problemi dell'umanità e si impone un'etica del discorso che sappia rendere consapevole la corresponsabilità degli uomini; se è necessario organizzare in discorsi le divergenze di opinione, per approssimarsi all'interesse generale e mettere a frutto il sapere degli esperti, diventa decisivo il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa, che sottopongono all'attenzione dell'opinione pubblica soluzioni e idee, sviluppando in essa una coscienza critica mondiale. Apel non ignora l'uso distorto e strumentale dei mezzi di informazione, che, tra l'altro, esercitano un'influenza negativa sui paesi del Terzo mondo esaltando la violenza o il consumismo. Oggi la fondazione razionale di una "macroetica" universale è respinta non dal positivismo e dall'esistenzialismo ma da pensatori che si sono fatti fautori di un'etica particolare e storica, secondo la quale le norme sono sempre criteri storicamente determinati, che si inscrivono in tradizioni e culture particolari.
BRANI ANTOLOGICI E INTERVISTE
L’ETICA NELL’EPOCA DELLA SCIENZA
Negli anni sessanta scrissi per la prima volta un saggio sull’etica pubblicato più tardi con il titolo "Trasformazione della filosofia". Il tema era quello della fondazione razionale dell’etica nell’epoca della scienza. Il problema per me era che da un lato l’epoca della scienza e della tecnica aveva accresciuto smisuratamente la responsabilità degli uomini e reso per così dire a portata di mano la necessità di una nuova etica. Dall’altro, però, la scienza stessa faceva sembrare impossibile una fondazione razionale dell’etica, in primo luogo la scienza viene considerata come avalutativa; in secondo luogo la razionalità è determinata dalla scienza, la scienza ha per così dire colonizzato il concetto di razionalità. E dunque, poichè la razionalità stessa deve essere avalutativa, diventava impossibile dare una fondazione razionale della scienza e delle sue conseguenze. Ne risultava un paradosso: mentre da un lato la scienza con la sua applicazione tecnica aveva messo al mondo nuovi problemi enormi e in particolare quello di una etica delle conseguenze delle azioni collettive, dall’altro una fondazione razionale dell’etica nell’epoca della scienza non sembrava più possibile. Questa è stata per me la sfida paradossale che mi ha spinto a fondare una etica della comunicazione. Il concetto decisivo per me allora è stato il seguente: certamente è corretto affermare che la scienza in rapporto al suo oggetto, sia necessariamente avalutativa – in questo senso almeno le scienze della natura sono necessariamente avalutative . Ma è falso pensare che gli scienziati nei rapporti tra loro - soggetti della scienza in rapporto ad altri soggetti della conoscenza scientifica- abbiano anch'essi necessariamente un atteggiamento avalutativo. Questo è del tutto sbagliato; al contrario, una condizione della possibilità della scienza è che vi sia almeno per la comunità degli scienziati una etica minima, fondamentale. Con questo non è naturalmente ancora data la base per una etica della comunicazione umana, però è possibile generalizzare questa impostazione, che muove dal modello della comunità della comunicazione tra gli scienziati, riflettendo sul fatto che la cosa ultima , ciò che nella filosofia non possiamo eludere, è il pensiero o l’argomentare. Ora se si considera il pensiero non come pensiero solitario , ma come argomentare – e questa mi sembra che sia la concezione che se ne ha nel nostro secolo – si vedrà che chiunque pensi seriamente fa già parte di una comunità della argomentazione ; più in particolare, fa parte sia di una comunità di comunicazione , reale, sia di una comunità ideale, anticipata in modo controfattuale: se egli argomenta seriamente, deve rivolgersi per così dire continuamente ad una comunità ideale della comunicazione in grado di controllare la validità dei suoi argomenti e in grado di fornire il consenso alle sue pretese di validità. Sotto questo profilo, sul piano di questa comunità della argomentazione, dobbiamo già sempre avere riconosciuto una etica: l’esistenza di determinate norme fondamentali della parità e della corresponsabilità di tutti i membri di questa comunità dell’argomentazione. Questo fu il modo in cui io allora trovai nel concetto della comunicazione o della comunità della comunicazione la via per uscire dal paradosso, dall’apparente impossibilità di fondare razionalmente l’etica nell’epoca della scienza.
[Tratto dall’intervista "Etica della Comunicazione" , 24 aprile 1991, Napoli Vivarium]TRADIZIONE E CONOSCENZA
In Essere e Tempo non si parla così tanto di linguaggio come nel secondo Heidegger, diciamo ad esempio nella Lettera sull’umanismo , dove Heidegger dice che il linguaggio è la casa dell’Essere e la dimora dell’essenza umana e dove egli si richiama
anche a Humboldt. Però mi sembra che Heidegger già in Essere e tempo ha parlato della esplicazione pubblica della nostra comprensione del mondo ed abbia con questo inteso l’esplicazione linguistica e che in questo modo abbia già superato la fenomenologia eidetica del suo maestro Husserl che era orientata prelinguisticamente. Direi perciò che la fenomenologia in Essere e Tempo subisce una svolta ermeneutico-linguistica. Con questa svolta Heidegger per così dire si incontra per così dire con la svolta pragmatica della filosofia analitica del linguaggio e quindi con il secondo Wittgenstein, come ho già avuto modo di accennare. Lo si vede da alcuni passi che io ho già richiamato, quelli in cui Heidegger in riferimento al problema del mondo esterno perviene agli stessi risultati di Wittgenstein, quelli in cui egli rigetta il problema se c’è effettivamente un mondo esterno e la necessità di una prova del mondo esterno, perché la stessa domanda è mal posta, da cui risulta che egli si lascia guidare dalla esplicazione linguistica della nostra comprensione del mondo, proprio come il secondo Wittgenstein. Lo stesso si vede quando Heidegger dice che non è adeguato dire che noi percepiamo dei rumori, piuttosto noi percepiamo la motocicletta che passa o il picchio che batte. Egli ci vuole dire che tematizzare qualcosa nella nostra coscienza, poniamo rumori, dati di senso oppure rappresentazioni, è cosa che richide uno sforzo particolare, perché in questo caso dobbiamo oggettivare un oggetto particolare che è diverso dall’oggetto che noi oggettiviamo normalmente. Questo oggetto che noi oggettiviamo normalmente non è una semplice presenza nel mondo, ma, come dice Heidegger, qualcosa che è alla portata di mano, cioé che si incontra in un contesto pratico del mondo della vita, in una significatività e in una determinata appagatività. Qui Heidegger si incontra àncora una volta con l’analisi dei giochi linguistici di Wittgenstein. Ciò lo si può mostrare in concreto, direi però che tendenzialmente tra l’analisi linguistica di Wittgenstein e l’ermeneutica del linguaggio di Heidegger si rileva una certa differenza. Wittgenstein è sempre sulle tracce della mancanza di senso, delle insensatezze della filosofia tradizionale. A lui interessa sempre in primo luogo smascherare le questioni insensate della filosofia, per mostrare alla mosca la via per uscire dalla bottiglia. In Heidegger piuttosto l’accento è posto sul mostrare che si vive già sempre in un mondo interpretato, che c’è un mondo che è già determinato dalla tradizione e, come poi dirà, dalla storia dell’Essere. Su questo punto Heidegger compie una trasformazione del suo concetto di verità. In Essere e Tempo egli ha detto che noi ci troviamo già sempre in un mondo della vita che è aperto dall’essere-nel-mondo. In seguito egli può dire che il fatto di questa apertura del mondo proviene da una illuminazione, da uno svelamento del senso che è sempre al contempo anche nascondimento di senso e che lo svelamento è un evento nella storia dell’essere. Quindi ora per Heidegger l’accesso al mondo viene a dipendere dalla storia dell’Essere e questa accesso, questa illuminazione del senso dell’Essere nella storia dell’Essere si articola poi per Heidegger nei linguaggi concreti della nostra storia. L’accento giace per lui nel fatto che noi da questo punto di vista siamo dipendenti dalla tradizione e dal linguaggio alto, i quali hanno reso possibile la nostra comprensione del mondo.LA RIFONDAZIONE DELLA MORALE
Partendo dalla constatazione che qualsiasi contestazione razionale presuppone "l’inaggirabilità della ragione discorsiva e delle relative norme del discorso", Apel arriva a concludere che la fondazione ultima in filosofia è possibile tutte le volte che altrimenti "il gioco linguistico dell’argomentazione" risulterebbe impossibile.
E questo è il caso della fondazione riflessivo-trascendentale a cui Apel fa riferimento come modello specifico della filosofia:
Su questo riconoscimento riflessivo dell’inaggirabilità del punto di vista della ragione discorsiva e delle relative norme del discorso, poggia la possibilità di rispondere non solo alla domanda iniziale "perché mai essere razionali?", ma anche alla nostra domanda iniziale "perché mai essere morali?". Se si condivide un concetto di fondazione orientato in senso logico-formale, risulta, come noto, impossibile offrire a questi due interrogativi una valida risposta – interrogativi affatto cruciali per la questione relativa alla possibilità di una morale post-convenzionale nella moderna crisi adolescenziale (Dostoevskij e Nietzsche). Come si afferma a ragione, presupponendo la logica apodittica obiettivabile e formalizzabile, ogni risposta dovrebbe già presupporre ciò che deve venir fondato (il riconoscimento delle norme di ragione) e finirebbe cosí in una petitio principii. Perché, al contrario, in ogni fondazione intesa in senso logico-apodittico, si deve già presupporre proprio la ragione sotto forma di norme del discorso? A questa domanda la fondazione ultima pragmatico-trascendentale risponde tramite stretta riflessione sulle condizioni inaggirabili di possibilità della validità dell’argomentare (del pensiero!).
Per questa ragione, confrontandomi con il "razionalismo critico", che dichiara impossibile in linea di principio ogni "fondazione ultima" in filosofia, formulai il criterio per una fondazione ultima nel modo seguente: "Se non posso contestare qualcosa senza cadere in una auto-contraddizione attuale [= performativa] ed insieme non posso fondarlo deduttivamente senza cadere in una petitio principii logico-formale, allora esso rientra tra quelle presupposizioni pragmatico-trascendentali dell’argomentazione, che devono esser state già sempre riconosciute, affinché il gioco linguistico dell’argomentare possa conservare il suo senso" (Apel 1975a; v. anche Kuhlmann 1985). La mia formulazione dimostra chiaramente che il metodo riflessivo-trascendentale della fondazione ultima, specifico a mio parere della filosofia, tiene conto fin dall’inizio dell’aporia in cui si incorre muovendo dal concetto, improntato sulla logica formale, dell’argomentazione come derivazione di qualcosa da qualcos’altro (deduzione, induzione o abduzione). Non le incombe quindi obbligo alcuno di confutare il cosiddetto "trilemma di Münchhausen" (o regresso all’infinito o petitio principii o dogmatizzazione di una premessa assiomatica), in cui cadrebbe ad avviso di Hans Albert (Albert 1968, pp. 11 ss.) ogni tentativo di fondazione ultima. Inoltre, andrebbe sottolineato che il metodo riflessivo-trascendentale, in quanto linguistico-pragmatico, non fa neppure ricorso, nel senso della classica filosofia trascendentale, ad una evidenza, esente da interpretazione, della coscienza dell’io. Essa risale piuttosto all’evidenza paradigmatica del gioco linguistico, nel quale può venir costruita l’auto-contraddizione performativa insita nella contestazione dei presupposti in questione; come ad esempio quella seguente: "io asserisco con ciò come intersoggettivamente valido (ovvero, come liberamente accettabile da ogni partner del discorso) il fatto che io non debba riconoscere la norma della libera accettabilità delle asserzioni". [...] È chiaro quindi che anche noi intendiamo questa forma della fondazione ultima come alternativa alla derivazione delle norme fondamentali dell’etica da qualsivoglia fatti. Non si tratta qui di esibire un fatto nel mondo, per derivare da esso qualcos’altro – una norma fondamentale – tramite obiettivabili operazioni logiche; si tratta bensí di un ricorso riflessivo al riconoscimento già sempre avvenuto di norme fondamentali in quanto tali (quindi in quanto dover-essere!). Detto altrimenti, nella fondazione ultima pragmatico-trascendentale (della filosofia tanto teoretica quanto pratica) non ha luogo nessun ricorso fondativo a fatti fondamentali né ontologici né antropologici (come spesso viene ipotizzato), tali fitti vengono bensí introdotti in modo euristico, quali candidati per il test riflessivo della fondazione ultima. Il test consiste tuttavia in un esperimento di pensiero, con cui viene dimostrata – in modo strettamente riflessivo – l’incontestabilità senza auto-contraddizione performativa. [Etica della comunicazione]
L’ETICA DEL DISCORSO E LE SUE NORME
Apel contrappone al relativismo la convinzione che per poter esprimere qualsiasi tesi, compresa quella relativista, sia necessario riconoscere e accettare le norme del discorso. Su di esse poi è possibile fondare un’etica razionale. Ma alla fine egli deve ammettere che fondare una scelta per il bene sulla sola forza della ragione rimane una tesi problematica e difficile da sostenere:
L’idea stessa di una decisione fra le due alternative di fondo [...] risulta in vero intelligibile solo presupponendo che già si possa argomentare (pensare!). Ma ciò presuppone a sua volta il già avvenuto riconoscimento delle norme del discorso (Apel 1973, pp. 31l ss.). Su questo riconoscimento riflessivo dell’inaggirabilità del punto di vista della ragione discorsiva e delle relative norme del discorso, poggia la possibilità di rispondere non solo alla domanda iniziale "perché mai essere razionali?", ma anche alla nostra domanda iniziale "perché mai essere morali?". Se si condivide un concetto di fondazione orientato in senso logico-formale, risulta, come noto, impossibile offrire a questi due interrogativi una valida risposta – interrogativi affatto cruciali per la questione relativa alla possibilità di una morale post-convenzionale nella moderna crisi adolescenziale (Dostoevskij e Nietzsche). Come si afferma a ragione, presupponendo la logica apodittica obiettivabile e formalizzabile, ogni risposta dovrebbe già presupporre ciò che deve venir fondato (il riconoscimento delle norme di ragione) e finirebbe cosí in una petitio principii. Perché, al contrario, in ogni fondazione intesa in senso logico-apodittico, si deve già presupporre proprio la ragione sotto forma di norme del discorso? A questa domanda la fondazione ultima pragmatico-trascendentale risponde tramite stretta riflessione sulle condizioni inaggirabili di possibilità della validità dell’argomentare (del pensiero!).
Per questa ragione, confrontandomi con il "razionalismo critico", che dichiara impossibile in linea di principio ogni "fondazione ultima" in filosofia, formulai il criterio per una fondazione ultima nel modo seguente: "Se non posso contestare qualcosa senza cadere in una auto-contraddizione attuale [= performativa] ed insieme non posso fondarlo deduttivamente senza cadere in una petitio principii logico-formale, allora esso rientra tra quelle presupposizioni pragmatico-trascendentali dell’argomentazione, che devono esser state già sempre riconosciute, affinché il gioco linguistico dell’argomentare possa conservare il suo senso" (Apel 1975a; v. anche Kuhlmann 1985). La mia formulazione dimostra chiaramente che il metodo riflessivo-trascendentale della fondazione ultima, specifico a mio parere della filosofia, tiene conto fin dall’inizio dell’aporia in cui si incorre muovendo dal concetto, improntato sulla logica formale, dell’argomentazione come derivazione di qualcosa da qualcos’altro (deduzione, induzione o abduzione). Non le incombe quindi obbligo alcuno di confutare il cosiddetto "trilemma di Münchhausen" (o regresso all’infinito o petitio principii o dogmatizzazione di una premessa assiomatica), in cui cadrebbe, ad avviso di Hans Albert (Albert 1968, pp. 11 ss.) ogni tentativo di fondazione ultima. Inoltre, andrebbe sottolineato che il metodo riflessivo-trascendentale, in quanto linguistico-pragmatico, non fa neppure ricorso, nel senso della classica filosofia trascendentale, ad una evidenza, esente da interpretazione, della coscienza dell’io. Essa risale piuttosto all’evidenza paradigmatica del gioco linguistico, nel quale può venir costruita l’auto-contraddizione performativa insita nella contestazione dei presupposti in questione; come ad esempio quella seguente: "io asserisco con ciò come intersoggettivamente valido (ovvero, come liberamente accettabile da ogni partner del discorso) il fatto che io non debba riconoscere la norma della libera accettabilità delle asserzioni". La struttura riflessiva della fondazione, ora schizzata, in quanto relativa all’inaggirabile riconoscimento già sempre avvenuto delle presupposizioni dell’argomentazione, offre anche la possibilità di decifrare il richiamo di Kant all’"evidenza" del "fatto [non empirico] della ragione [pratica]", con cui Kant, nella sua seconda Critica, suggella l’impossibilità, precedentemente ammessa, di una deduzione trascendentale della validità dell’imperativo categorico. Se infatti fosse possibile interpretare nel senso di un perfetto apriorico la struttura profonda della grammatica del discorso kantiano a riguardo di un "fatto" non empirico, allora non vi leggeremmo – come invece da altri affermato (Ilting 1972) – una variante della "fallacia naturalistica", bensí un rinvio alla possibilità della fondazione ultima riflessivo-trascendentale. È chiaro quindi che anche noi intendiamo questa forma della fondazione ultima come alternativa alla derivazione delle norme fondamentali dell’etica da qualsivoglia fatti. Non si tratta qui di esibire un fatto nel mondo, per derivare da esso qualcos’altro – una norma fondamentale – tramite obiettivabili operazioni logiche; si tratta bensí di un ricorso riflessivo al riconoscimento già sempre avvenuto di norme fondamentali in quanto tali (quindi in quanto dover-essere!). Detto altrimenti, nella fondazione ultima pragmatico-trascendentale (della filosofia tanto teoretica quanto pratica) non ha luogo nessun ricorso fondativo a fatti fondamentali né ontologici né antropologici (come spesso viene ipotizzato), tali fatti vengono bensí introdotti in modo euristico, quali candidati per il test riflessivo della fondazione ultima. Il test consiste tuttavia in un esperimento di pensiero, con cui viene dimostrata – in modo strettamente riflessivo – l’incontestabilità senza auto-contraddizione performativa.
Pur avendo risolto la questione filosofica della fondazione ultima in forza di un atto di conoscenza riflessivo, non si è ancora risposto alla domanda seguente: chi ha raggiunto tale cognizione (il che non vale per tutti, dato che è indispensabile aprirsi a tale riflessione trascendentale), come ad esempio la cognizione che egli ha l’obbligo di agire moralmente, cioè che egli ha già sempre riconosciuto come moralmente vincolanti le norme fondamentali della giustizia, della solidarietà e della co-responsabilità in quanto norme fondamentali del discorso – questa persona filosoficamente avveduta tradurrà anche, in forza di una volontà buona, la conoscenza da lui cosí conseguita in decisioni pratiche (sia a livello di discorso argomentativo, sia anche a livello della prassi di vita)? A me sembra che solo con questo interrogativo si sia toccato il problema davvero inteso da Popper, quando egli parla della necessità di una decisione "irrazionale", ma "morale", a favore della ragione in forza di un "atto di fede" (Popper 1958, vol. 2, pp. 284 ss); e che qui l’etica del discorso giunga a toccare il limite del cognitivismo (Apel 1986b).
È in effetti difficile guadagnare in etica un aspetto razionale alla questione della motivazione, almeno nel caso in cui, diversamente dal Socrate dell’antichità classica e piuttosto nel senso del cristianesimo e di un Kant, si muova dalla convinzione che qualcuno possa compiere volontariamente e consapevolmente ciò che egli stesso è in grado di riconoscere come male. Qui, come parrebbe, rimane soltanto la possibilità di domandarsi, in termini di psicologia empirica, quale forza motivazionale abbiano davvero gli atti cognitivi etico-filosofici per la prassi comportamentale. Osserverei tra parentesi che il noto psicologo evolutivo e filosofo morale Lawrence Kohlberg è giunto a tal riguardo ad un risultato degno di nota. In base ai risultati dell’esperimento Milgram (in cui alcuni vennero invitati, in nome della scienza e della sua autorità, a somministrare ad altre persone scosse elettriche e, su comando, ad aumentarne vieppiú l’intensità, nonostante le simulate urla di dolore delle "vittime"), coloro i quali possedevano una competenza di giudizio morale di livello post-convenzionale si sarebbero dimostrati, secondo Kohlberg, piú pronti degli altri ad opporsi all’ordine impartito in base a ragioni di ordine morale. Anche da un punto di vista filosofico, comunque, sembra intuitivamente poco plausibile supporre che chi, ad esempio durante la crisi adolescenziale, si ponga seriamente la questione di una possibile giustificazione del dovere morale, comprenda ed accetti in termini cognitivi la risposta da noi sopra schizzata, non debba risultarne motivato anche nelle sue decisioni di rilievo pratico – sebbene ciò non garantisca una volontaria messa in atto di queste sue cognizioni.
[Etica della comunicazione]RAPPORTO FRA PRIMO E TERZO MONDO
Da una parte il primo mondo deve addossarsi la responsabilità anche degli altri, dall’altra esso deve evitare ogni forma di paternalismo e valorizzare le altre culture all’interno di norme di convivenza accettate da tutti e della necessità di cooperazione:
Nei tentativi volti a superare le barriere comunicative, che soprattutto i privilegiati sarebbero tenuti a compiere, si dovrebbe evitare di assumere un atteggiamento di tutela paternalistica. Sebbene l’etica del discorso consideri moralmente doveroso per i partecipanti alla comunicazione che essi difendano in modo avvocatorio anche gli interessi di coloro che ne sono esclusi, tuttavia gli interessi di questi ultimi andrebbero dapprima ermeneuticamente compresi; ed in tale sforzo ermeneutico i membri adulti di un altro mondo culturale non possono venir considerati come individui in stato di minore età e neppure come i futuri nati delle prossime generazioni.Né la pretesa di validità universale avanzata dall’etica del discorso esige in qualche modo che le varie forme di valutazione del mondo quotidiano, connesse con ideali di realizzazione della vita buona diversi da cultura a cultura, vengano livellate in un’unica gerarchia di valori valida per tutti gli uomini e teleologicamente orientata. Si tratta piuttosto, tramite regolazione discorsiva anche dei conflitti di valutazione a livello inter-culturale, di proteggere la specificità e pluralità delle forme di vita socio-culturali: di dare a tale pluralità tanto spazio quanto (e non piú di quanto) sia conciliabile con le norme di convivenza capaci di consenso e, al presente, anche con la cooperazione co-responsabile nella soluzione dei problemi dell’umanità. [Etica della comunicazione]
SUL FALLIBILISMO
Confrontandosi con le posizioni di altri filosofi tedeschi contemporanei, Apel si impegna in una forte confutazione del relativismo assoluto. Egli imposta il rapporto certezza-dubbio alla maniera di Agostino e insiste sulla possibilità di una "fondazione pragmatico-trascendentale" della morale (influenza di Kant), che parte dal diritto di tutti alla dignità dialogica, fondato sulla ragione. [Rorty è un filosofo americano di orientamento postmoderno, noto esponente di un relativismo molto accentuato, legato all’ermeneutica]:
Dagli anni 70 ho sostenuto che una fondazione ultima – una fondazione pragmatico-trascendentale della filosofia pratica e teorica – è possibile. Habermas è molto distante da tutto questo. Negli ultimi anni egli sostiene un principio senza restrizioni secondo cui "tutto è fallibile". Da qui la nostra principale divergenza. Anch’io sono un fallibilista. Ma ad Habermas dico: il significato profondo del fallibilismo non può essere compreso se non si presume che almeno qualcosa non sia fallibile. Tra i giochi linguistici immaginati da Wittgenstein ve n’è anche uno in cui parliamo dei giochi linguistici in generale. Questo è il gioco linguistico trascendentale. Chi dice "Tutto è fallibile" rientra in questo gioco. Ma che cosa significa l’espressione "Tutto è fallibile"? Se non ci sono verità a cui si possano contrapporre delle falsità, non sarà possibile nessun discorso, nessun’affermazione, compresa quella secondo cui "tutto è fallibile". Non posso dubitare se non presuppongo qualche certezza, qualche cosa che non può essere messo in dubbio. Tutti i giochi linguistici poggiano su paradigmi di certezza. Anzi, direi che è soprattutto il gioco del dubbio a presupporre certezze. Altrimenti il dubbio stesso diventa impossibile. Tra i presupposti dei giochi linguistici ce ne sono alcuni molto importanti che non possono essere negati senza cadere in gravi auto-contraddizioni performative. Per esempio, non posso dire, come fa Rorty, "non ho pretese di verità", perché anche la sua è una pretesa di verità. Rorty risponde che non è vero, che la sua è solo conversazione. Mi spiace per Rorty, perché in questo modo sarà impossibile parlare e argomentare con lui. Visto che non ha nessuna pretesa di verità, sarà impossibile criticarlo. E sottrarsi alla critica è sleale. Cosí come è scorretto, invece di parlare con frasi compiute, rivolgersi a qualcuno con un "lalalà": che senso ha parlare e discutere con lui? Se io chiedo a Rorty: "Di che cosa mi vuoi convincere? quale è la tua pretesa?" e lui risponde: "Non ho nessuna pretesa", non vedo perché dovrei discutere con lui. Popper ha detto giustamente che la piú grande colpa di un filosofo è quella di non essere criticabile. Rorty è assolutamente impossibile da criticare. Per lui tutto è conversazione, non ci sono criteri, ragioni, pretese di verità. [...] Tra le cose che non si possono negare, pena il cadere in una autocontraddizione performativa come quella appena descritta, ci sono alcune norme etiche fondamentali. Una di queste è quella secondo cui esiste un eguale diritto per tutti a poter comunicare e argomentare. Non ci devono essere restrizioni a questa norma: tutti abbiamo un identico diritto di parlare su ogni singolo problema. Un’altra norma è quella della eguale corresponsabilità nell’affrontare e risolvere i problemi. Io credo che esista una fondazione pragmatico-trascendentale che renda possibile l’etica. Questa è sempre stata la principale differenza tra Habermas e me. Nel suo ultimo grande lavoro Fatti e norme emergono però nuovi problemi e nuove divergenze. Io non posso essere d’accordo con la sua strategia di differenziazione dei discorsi (morale, giuridico e democratico), né con l’idea secondo cui il principio del discorso è moralmente neutrale: in questo modo egli distrugge l’"etica del discorso" che avevamo condiviso. Io continuo ad essere convinto – e non vedo buone ragioni per negarlo – che l’etica del discorso sia quella che informa le norme etiche fondamentali: chiunque sia impegnato in un’argomentazione deve avere dei principi e conoscere certe norme fondamentali, basate sugli eguali diritti e responsabilità di cui dicevo. In Fatti e norme, inoltre, Habermas pone il diritto allo stesso livello della morale. Non ci sarebbe un fondamento morale del diritto, perché entrambi starebbero allo stesso livello originario. Ancora. Per Habermas il principio del diritto sarebbe identico al principio della democrazia. Non sono d’accordo. Anch’io sono favorevolissimo alla democrazia, ovviamente. Ma non credo che la si possa porre allo stesso livello di originarietà e di universalità del diritto e della morale. Alcuni principi di fondo su cui si basa la democrazia possono essere criticati: per esempio, il principio maggioritario. È vero che ciò che oggi abbiamo di meglio è la democrazia. Ma che il principio maggioritario sia sempre giustificato è una questione aperta. Quanto all’etica, bisogna dire che ci sono due prospettive che non possono essere separate completamente, ma che comunque vanno distinte. Da una parte vi è la domanda relativa al come e al perché possiamo avere una vita buona o una vita felice. Dall’altra invece abbiamo un’etica della giustizia, il cui principio fondamentale afferma che tutti gli individui hanno lo stesso diritto di scegliere il proprio ideale di vita. È questo il livello dei diritti umani universali, che ci evita di cadere nello storicismo e nel relativismo: si tratta di accettare l’ineliminabile pluralità e differenza delle visioni morali garantendo a tutti il diritto alla libera scelta. [Il paradosso del fallibilista]