ARISTOTELE E HOBBES

 

 

Rifacendoci alla distinzione tra “realismo politico” e “filosofia politica”, distinzione in base alla quale il primo (che trova in Tucidide e in Machiavelli due dei suoi più grandi eroi) non mira se non all’ordine mentre il secondo aspira ad un ordine che sia giusto, possiamo rilevare fin da ora come essi operino su due piani diversi e mai riducibili l’uno all’altro. Quello del realismo politico è il piano della continuità, cosicché si ritrovano nel corso storico costanti strutturali che si ripetono: non è un caso che Machiavelli si trovi ad operare con categorie e schemi interpretativi piuttosto vicini a quelli adoperati molti secoli prima da Tucidide. Al contrario, quello della filosofia politica è il piano della discontinuità: sicché Aristotele, Hobbes e Hegel – che rappresentano i tre grandi paradigmi della filosofia politica occidentale – affrontano sì problematiche in certa misura analoghe, ma lo fanno con strumenti diversissimi fra loro e secondo modalità inaccostabili le une alle altre. In forza di ciò, diventa possibile distinguere le varie epoche storiche a seconda dei modi in cui, all’interno di esse, sono stati affrontati determinati problemi politici. Ciascuno dei tre grandi modelli della filosofia politica (Aristotele, Hobbes, Hegel) riassume in sé una caterva di varianti diversamente declinate: per citare un solo esempio, in età medievale Marsilio da Padova, nel suo Defensor pacis, muove dalla Politica di Aristotele per poi distaccarsene gradualmente e assumere una posizione che può essere etichettata come proto-hobbesiana. La lunga stagione inaugurata da Aristotele (nella quale rientra il platonismo stesso), che si protrae fino alle soglie dell’età moderna, è superata dalla posizione politica fatta valere da Hobbes, che nei confronti di Aristotele si pone in maniera volutamente polemica: ma a sua volta, nella prima metà dell’Ottocento, la posizione hobbesiana verrà superata da quella hegeliana, la quale introdurrà un nuovo paradigma destinato a conoscere un incredibile numero di varianti negli anni a venire (tanto Marx quanto Gentile si rifanno alla linea politica tratteggiata da Hegel). Si tratta allora di capire a che cosa sia dovuta questa discontinuità che segna la filosofia politica e che, come abbiamo visto, è scandita in tre tappe fondamentali (l’aristotelismo, la filosofia politica hobbesiana, l’hegelismo): si tratta di scansioni meramente soggettive, riconducibili al diverso modo con cui i tre filosofi hanno affrontato tali problematiche, o piuttosto abbiamo a che fare con scansioni determinate da condizioni storiche oggettive? Come spesso accade, la verità non sta unilateralmente da una parte: tanto la soggettività dell’autore quanto le condizioni storiche oggettive influiscono in maniera imprescindibile, anche se non è del tutto chiaro quale delle due componenti abbia maggior peso. La grande dicotomia politica che caratterizza la filosofia politica fino all’Ottocento (quando, con Hegel, si prospetta la necessità di ridisegnare il quadro) è quella tra Aristotele e Hobbes. All’olismo aristotelico, secondo cui per comprendere la società occorre partire dal tutto e non dalle singole parti, Hobbes contrappone quell’individualismo in base al quale è solo partendo dalla considerazione dei singoli individui che è possibile comprendere la società nel suo complesso: similmente, all’organicismo aristotelico Hobbes oppone un meccanicismo tale per cui lo Stato non è se non una macchina o – come Hobbes stesso lo definisce – un “corpo artificiale” del tutto diverso dagli organismi che si trovano in natura. Se poi Aristotele prospetta una concezione teleologica della società, secondo cui quest’ultima tenderebbe a un fine consistente nella realizzazione di un ordine immanente alla natura stessa, Hobbes, dal canto suo, ne propone una nichilista e costruttivista: a suo avviso infatti la natura, lungi dal presentare una qualche forma di ordine, si presenta come il regno del caos e del disordine, con la conseguenza che l’ordine è un qualcosa che può essere imposto in maniera forzosa attraverso una costruzione sociale (da qui il nome di “costruttivismo”). Proprio da tali considerazioni hobbesiane prende le mosse il contrattualismo - che è figlio del giusnaturalismo -, teoria secondo la quale lo Stato è il frutto di un patto siglato dagli individui che altrimenti si troverebbero in una perenne guerra di tutti contro tutti, poiché l’uomo – nota Hobbes – non è affatto un animale socievole, come se lo immaginava Aristotele. Ed è interessante come, nel De cive, Hobbes si spinga ben più in là del rovesciamento della tesi aristotelica della naturale socievolezza dell’uomo e arrivi a sostenere che il linguaggio non è che una “tromba di sedizione” che gli uomini impiegano per guerreggiare fra loro e che la ragione è un’arma utilizzata per portar guerra ai propri simili. Hegel spesso ci è presentato come sintesi di questi due momenti che configgono tra loro: il suo è, infatti, un pensiero olistico della totalità organica (e in ciò è vicino all’aristotelismo), ma ciò non toglie che Hegel sia e resti un pensatore figlio della modernità e del culto della libertà e dell’individuo (tematiche particolarmente care a un Protestante come lui). E del resto si tratta di alternative che non si escludono mutuamente e che ammettono una composizione, a meno che non si voglia liquidare – sulle orme di Nietzsche e di Marx– la sintesi hegeliana come illusoria, alla stregua di quella, invalsa in età medievale, tra aristotelismo e cristianesimo (e una tale lettura, tuttavia, porterebbe a leggere la storia dell’Occidente come successione di sintesi fallite). Questi tre autori segnano così marcatamente delle discontinuità giacché, col loro pensiero, riflettono esperienze epocali di fallimento nella soluzione politica e avanzano la pretesa radicale di fornire soluzioni: essi inaugurano un paradigma proprio in forza del fatto che fanno un bilancio ragionato di un’epoca, criticano le soluzioni avanzate dagli altri pensatori e ne propongono di proprie. Così Aristotele è un pensatore che si trova a condividere la critica socratico/platonica alla poliV opulenta e disordinata, pluralista e spaesante, ma poi finisce per ritenere errata la terapia adottata da Platone per far fronte alla crisi in cui la poliV versa. Lo Stagirita non propone riforme che intervengano in maniera diretta sugli ordinamenti, ma valorizza e favorisce le differenze e le pluralità vigenti all’interno della poliV, poiché è convinto che esse compongano un’unità che è inscritta nella natura stessa e che deve essere fatta passare da uno stato potenziale ad uno attuale. Non è un caso che, ad Aristotele, Hobbes preferisca Platone, scorgendo in lui - architetto ideale di una kallipoliV -  un filosofo più vicino al costruttivismo. Aristotele non fantastica immaginarie città ideali: egli è convinto che ci si debba limitare a lavorare su quelle sinergie, interne alla poliV esistente, le quali spingono in direzione dell’ordine. Ma Hobbes non esita a riconoscere il pieno fallimento del paradigma aristotelico/cristiano: la retorica repubblicana, che si sostanzia della teoria politica aristotelica, e il fondamentalismo religioso, proliferante in virtù della dottrina cristiana, sono alla base di un’inarrestabile dissoluzione affondano le loro basi rispettivamente nell’aristotelismo e nel cristianesimo. Pertanto, al modello aristotelico/cristiano, Hobbes oppone come antidoto un paradigma fondato sul calcolo delle utilità degli individui, i quali, calcolando i loro interessi e vantaggi, abbandonano il primitivo stato di natura del bellum omnium contra omnes e danno vita alla macchina dello Stato. Hegel pensa la modernità dopo l’evento epocale della Rivoluzione Francese e, grazie ad essa, giunge alla comprensione di tre punti fondamentali: in primis, egli si accorge di come la modernità abbia prodotto la società civile, la quale però non contiene in sé la risoluzione del problema dell’ordine (infatti, la società civile è divisa in classi e dunque massimamente diseguale); in secondo luogo, egli prende atto di come l’accentramento governativo in senso democratico non costituisca la risoluzione di tutti i problemi, soprattutto alla luce del fatto che la democrazia è sfociata in Terrore giacobino. Infine, Hegel nota come il patto cosmopolitico degli Stati (il foedus pacificum di cui parlava Kant in Per la pace perpetua) sia illusorio e mai realizzabile. Dei tre, quello aristotelico è il paradigma che più dura: nato per primo, esso ritorna con insistenza addirittura nella seconda metà del Novecento, assunto da quella nutrita serie di autori – tra i quali Hannah Arendt - che si richiamano esplicitamente ad una filosofia della prassi e assumono la frwnhsiV come faro dell’agire. Il modello hobbesiano, dal canto suo, ha una vita assai più breve, dal momento che, nato nel Seicento, sopravvive per non più di due secoli, fino a Kant e al primo Fichte (anche se in realtà anche John Rawls, in pieno Novecento, si pone con la sua dottrina del “velo di ignoranza” sulla scia di Hobbes). Ancora meno dura il paradigma hegeliano, a tal punto che alcuni studiosi hanno addirittura messo in dubbio che le filosofie di Marx, di Schmitt e di Gentile, così diverse tra loro, potessero essere concepite come varianti del modello hegeliano. Ciò è del resto avvalorato anche dal fatto che mai come nel Novecento le posizioni politiche sono state tanto diverse e inaccostabili fra loro: non solo nel senso che le ideologie che si sono confrontate sono state assai diverse, ma anche e soprattutto nel senso che i modi stessi di intendere la politica sono stati assai variegati e diversificati. Per rifarci forse al caso più eclatante, mentre Carl Schmitt va sostenendo – in Il concetto del politico – che le due grandi categorie attraverso le quali leggere la politica sono quelle dell’amico e del nemico, in maniera antitetica Arendt intende la politica come sede di un agire comunicativo e non conflittuale.

 

 

ARISTOTELE, POLITICA   

 

La Politica di Aristotele è un’opera che non può essere propriamente compresa se non la si inserisce in maniera opportuna all’interno del sistema aristotelico. Essendo lo Stato una delle grandi acquisizioni di quell’età moderna che sorge al tramontare del Medioevo, al cuore della riflessione politica di Aristotele vi è un’entità extrastatale: la poliV, un’unità territoriale più vasta di quella che siamo soliti definire “città” ma più ristretta rispetto al moderno “Stato”; proprio in forza del suo essere a metà strada tra la città e lo Stato, il termine poliV è stato spesso tradotto come “città-Stato”, anche se la miglior soluzione consiste nel non tradurlo e mantenerlo in greco. Ogni poliV - nota Aristotele nell’incipit dell’opera – non è che una koinonia, ovvero una comunità politica che, alla stregua di ogni altra cosa esistente, dev’essere definita in base al suo teloV, identificabile con il conseguimento di un certo bene. Il primo nodo da sciogliere riguarda allora la specifica finalità della poliV: qual è tale finalità? In cosa consiste? Nel tentare di capire questo punto, dobbiamo secondo Aristotele accuratamente rifuggire dal modo di procedere di quanti assimilano fra loro la figura del despota, del padre e del padrone, come se fossero termini interscambiabili. Si tratterà allora di differenziare le comunità in base al teloV cui esse tendono. Ancor prima di avviare la ricerca, Aristotele ci fornisce – come suo solito – indicazioni metodologiche: come negli altri campi del sapere, occorre pervenire alla comprensione del tutto scomponendolo nelle varie parti che lo costituiscono (in ciò sta l’olismo aristotelico); questo, nella sfera della filosofia politica, si traduce in un ritorno alle origini, il che ci aiuta a capire come in Aristotele olismo ed evoluzionismo procedano di pari passo. In quest’ottica, lo Stagirita parte dalla considerazione della famiglia (oikoV) per poi giungere a quell’evoluzione della famiglia stessa che è la poliV, passando per quelle stazioni intermedie delle quali la più importante è data dal villaggio. Già all’interno di quel primo nucleo originario che è la famiglia, si verificano due grandi disuguaglianze: quella tra uomo e donna e quella tra comandante e comandato. Se il rapporto tra l’uomo e la donna ha come fine la riproduzione della specie, quello tra comandante e comandato ha invece la conservazione del gruppo sociale (nel caso in questione: la conservazione della famiglia). Ciò resta valido anche all’interno della poliV, giacché in essa si attua una riproduzione delle generazioni e la conservazione del gruppo sociale. Se la famiglia è funzionale alla vita, il villaggio mira all’autosufficienza: dal canto suo, la poliV si pone come comunità perfetta che esiste non per rendere possibile la vita (a ciò provvede il villaggio), ma per renderla felice, il che mette in luce come nel discorso aristotelico etica e politica siano in forte connessione fra loro. Ogni poliV – rileva Aristotele – esiste kata fusin, è cioè naturale al pari della famiglia, dal momento che la natura è il fine a cui queste comunità mirano: ma ciò per cui una cosa esiste non può che costituire il meglio e proprio in ciò risiede l’identità aristotelica di assiologia e ontologia. Da ciò si evince come ogni Stato – posto che di Stato si possa parlare in riferimento all’età dei Greci – è un prodotto naturale e come, in forza di ciò, l’uomo stesso sia uno zwn politikon, ossia un animale politico, sociale e socievole (tutti aggettivi ricompresi nella nozione di politikon). Ne segue allora che chi vive in isolamento per sua libera scelta è o una bestia o un dio e tende per sua natura ad essere un individuo bellicoso e incline al conflitto. Ciò detto, lo Stagirita mette in luce un punto a lui assai caro, che ritorna in parecchi altri suoi scritti: la natura non fa nulla invano e – egli aggiunge – l’uomo è un “animale parlante” (zwn logon ecwn): se non fosse dotato del linguaggio e fosse soltanto un animale politico, allora in nulla si distinguerebbe dalle api o dalle greggi, siccome anch’esse tendono per loro natura ad associarsi. Ma poiché oltre che della fonh (voce) l’uomo è equipaggiato anche del logoV (ossia del linguaggio e, insieme, della ragione), la comunità politica cui egli dà vita si qualifica come qualità etica in cui certi valori (il bene, il giusto, ecc) sono condivisi. Infatti, mentre la voce esprime soltanto la gioia o il dolore, la parola dà voce anche a ciò che giova e a ciò che nuoce, ovvero al giusto e all’ingiusto, rendendo per questa ragione possibile una comunità che sia insieme etica e politica. Fedele all’assunto olistico che dà la precedenza al tutto rispetto alle parti, Aristotele sostiene che per natura la poliV sta prima della famiglia: infatti è soltanto dalla scomposizione della poliV stessa che si può risalire alla famiglia, che è e resta impensabile al di fuori della poliV. I tre grandi modelli di filosofia politica – quello aristotelico, quello hobbesiano e quello hegeliano – sono costruiti su delle dicotomie o, nel caso di quello hegeliano, su tricotomie, ancorché quella di Aristotele lo sia solo in senso lato. L’impiego delle dicotomie è del resto piuttosto diffuso: al mondo del diritto romano dobbiamo quella pubblico/privato, a Ferdinand Tönnies quella comunità/società. La grande dicotomia della filosofia politica aristotelica è quella oikoV/poliV, anche se poi lo Stagirita assume il villaggio come categoria intermedia tra le due. Anche il modello hobbesiano è dicotomico: contrapposto allo stato di natura è infatti la società civile o politica. Agli uomini è infatti dato di vivere in due scenari: o in quello dello stato di natura, che noi non abbiamo mai visto ma che troviamo descritto nei racconti dei viaggi in terre remote, dove non c’erano leggi, potere sovrano e Stati. Oppure nello scenario dello Stato, che riprende gli aspetti positivi (libertà e uguaglianza in primo luogo) dello stato di natura, correggendone i limiti. Dal canto suo, il modello hegeliano tenta la sintesi di quello aristotelico e di quello hegeliano, secondo le leggi dell’Aufhebung: i termini fondamentali del modello di Hegel sono la famiglia, la società civile e lo Stato. La famiglia è direttamente derivata da Aristotele, lo Stato da Hobbes: la società civile, invece, è una realtà sconosciuta ai precedenti autori e corrisponde alla civil society di cui parlavano gli autori scozzesi (Hume, Adam Smith), ossia alla società economica di mercato che nasce in età moderna. Se ai tempi di Aristotele l’economia era primariamente amministrazione dell’oiokoV e dei suoi beni, nell’età moderna essa riguarda gli individui, le classi e i gruppi sociali su scala globale. Abbiamo in precedenza visto come l’incipit della Politica annunci la naturale socievolezza dell’uomo, definito sia come zwn politikon sia come zwn logon ecwn. E, all’interno di una concezione che va sostenendo il primato del tutto sulle parti, Aristotele mette in luce il tessuto connettivo che lega le parti fra loro, cercando anche di spiegare perché una pluralità di individui con interessi diversi e spesso contrastanti stia insieme dando vita a fenomeni di integrazione. Nel tentativo di far luce su questa problematica, Aristotele prende in esame la filia, ovvero l’amicizia che lega tra loro gli esseri umani: a tale tematica è dedicato il cap.8 dell’Etica nicomachea. Lo Stagirita qui ci propone una tipologia delle forme di amicizia che ne include tre: v’è in primo luogo l’amicizia in vista del piacere, poi quella in vista dell’utile, infine quella in vista della virtù. La prima è quella che si stabilisce tra quanti si intrattengono con piacere tra loro; la seconda, invece, è quella che viene a instaurarsi in vista dell’interesse di quanti la contraggono; è, per così dire, un’amicizia strumentale. Infine, la terza e superiore forma di amicizia, finalizzata alla virtù, è quella mediante la quale si diventa migliori, avviando un processo di valorizzazione delle proprie capacità. Quest’ultima è l’amicizia che Aristotele considera decisiva per capire la politica. È una forma di amicizia tale per cui si agisce quasi in competizione con l’amico per primeggiare in generosità, in grandezza d’animo e in tutte le altre virtù. Tutte e tre queste amicizie sono di fondamentale importanza per far sì che nella poliV si generi l’amicizia politica, che è inattuabile nella misura in cui la convivenza non gratifica gli uomini, ossia quando è priva di piacere e di benessere. In questa prospettiva, il modello platonico della poliV, ascetica e autoritaria insieme, è oggetto di sempre reiterate critiche da parte di Aristotele, il quale resta convinto che le tre forme di amicizia da lui descritte debbano convergere, in maniera tale che nell’amicizia politica tutti ci guadagnino (amicizia in vista dell’utile), ne traggano piacere (amicizia in vista del piacere) e migliorino (amicizia in vista della virtù). Una poliV sarà allora tanto meglio riuscita quanta più amicizia in vista della virtù sarà in essa presente, anche alla luce del fatto che tra amicizia politica e amicizia per la virtù sussiste una perenne tensione, paragonabile a quella sussistente tra vita teoretica e vita pratica. La prospettiva aristotelica è rovesciata da Hobbes nel De cive: il filosofo inglese concepisce il vasto quanto ambizioso progetto filosofico, gli Elementa philosophiae, il cui titolo, oltre al richiamo all’opera euclidea, lascia trasparire la volontà di muovere non dal tutto (come aveva fatto Aristotele), bensì dagli elementi, dalle parti. Tre sono le sezioni che compongono gli Elementi di filosofia: Sul corpo (De corpore), Sull’uomo (De homine) e Sul cittadino (De cive). Dopo aver illustrato, nel primo paragrafo del primo capitolo del De cive, come le facoltà umane si riducano a quattro elementi fondamentali (passioni, forza fisica, ragione, esperienza) in interazione fra loro, Hobbes – a partire dal secondo paragrafo – dichiara guerra ad Aristotele e alla sua concezione dell’uomo come animale naturalmente politico e socievole. In totale disaccordo con lo Stagirita, Hobbes sostiene che la società non è naturale all’uomo, ma è anzi un qualcosa legato alla contingenza e tale da spingere gli uomini a stare insieme (può essere ad esempio la scarsità di beni, o anche la crescita demografica che costringe a vivere più persone in uno stesso spazio, ecc). Non possiamo allora credere, con Aristotele e mediatamente con la tradizione cristiana, che l’uomo sia secondo natura un animale socievole, anche considerando la selettività della benevolenza: infatti – rileva Hobbes – se l’uomo fosse davvero socievole e amasse l’uomo, dovrebbe amare ugualmente ogni uomo in quanto uomo e non, come sempre accade, soltanto alcuni uomini (i suoi parenti, ad esempio). Da ciò si può evincere come, lungi dall’amare l’uomo in quanto tale, ciascuno di noi ami alcuni uomini non già per inclinazione naturale, ma piuttosto perché da essi trae vantaggi. Dunque, ogni qual volta riscontriamo socievolezza tra gli individui, ciò avviene in virtù del fatto che da tale relazione essi traggono vantaggi. Si tratta, è evidente, di una tesi marcatamente utilitaristica e opposta a quella che sarà successivamente formulata da Kant: se per quest’ultimo ogni uomo è un fine, per Hobbes è invece un mezzo da sfruttare al fine di ricavarne vantaggi. Sicché, se vogliamo capire perché gli uomini stanno insieme, dobbiamo guardare non alle loro intenzioni, ma alle conseguenze (cioè all’utile e all’onore): si tratta dunque di un’etica utilitaristica, teleologica, sequenzialistica e non deontologica. Preparatosi il terreno in questo modo, Hobbes procede prendendo in esame le tre forme di amicizia individuate da Aristotele e smascherandole una dopo l’altra. Partendo dall’amicizia per l’utile, il filosofo inglese nota che, se gli uomini si incontrano per commerciare, allora ciascuno di essi si cura esclusivamente dei propri affari e non del socio: ne nasce un’amicizia esteriore e finalizzata all’utile, dettata dal timore più che dall’amore (si sta infatti insieme contro qualcuno, non in favore di qualcuno). Passando all’amicizia per il piacere, egli nota poi come se gli uomini si incontrano per divertirsi, ciascuno si compiace delle cose che suscitano il riso e ciascuno mira a gratificare il suo amor proprio e la propria gloria, secondo quello che Habermas definisce come “agire drammaturgico”. Del resto, in questi incontri volti al divertimento capita sempre che si sparli degli assenti e perfino, quando si assentano temporaneamente, dei presenti. Così avviene che chi ha subito troppe scottature diventi misantropo e non voglia più saperne di relazioni sociali. Per quel che riguarda l’amicizia in vista della virtù, Hobbes è ancora più critico: quando ad esempio ci si incontra per filosofare, ognuno vuole insegnare agli altri, ponendosi in modo autoritario. Tutte le riunioni umane sono dettate dal desiderio di trarne utilità o gloria: la terza forma di amicizia aristotelica, l’amicizia per la virtù, è da Hobbes liquidata come inesistente. Se dunque le tre forme di amicizia si riducono a questo, allora non sarà possibile un’amicizia politica e l’uomo non sarà affatto un animale socievole, ma anzi userà la ragione per confliggere contro i suoi simili. Col secondo libro della Politica, Aristotele conduce una serrata critica contro il modello politico prospettato da Platone, già preso di mira sul finire del primo libro. Proprio nelle ultime battute di esso, lo Stagirita mette in luce la distinzione tra dominio politico (proprio della poliV) e dominio dispotico (tipico dell’oikoV), ossia distingue tra l’ambito in cui sussistono le naturali disuguaglianze tra il padre e i figli, tra l’uomo e la donna e tra il padrone e lo schiavo (assimilato al bue), e l’ambito in cui non vi sono disuguaglianze naturali. Anche nella poliV, in realtà, vi sono disuguaglianze, ma esse sono non già naturali, bensì funzionali alla poliV stessa: la grande distinzione qui in vigore è fra chi comanda e chi è comandato, ma si tratta di un rapporto non dato una volta per tutte, ma tale da variare nel tempo in virtù della rotazione delle cariche. Sicché nella poliV il cittadino si trova ora ad essere comandato, ora a comandare. Ciò non toglie che, nel tessuto della città, tutti i cittadini siano uguali e se proprio si vuol trovare una disuguaglianza, la si può rinvenire nella disparità tra i giovani (che sono comandati) e gli anziani (che comandano). In maniera alquanto significativa, Aristotele dice [1259 B] che “quando le magistrature sono per la massima parte in mano ai cittadini, c’è alternanza tra governante e governato” e il cittadino tende, per sua inclinazione naturale, a voler essere uguale ai suoi simili. Lo Stagirita rileva poi che, quando un cittadino si trova ad essere governato da un altro cittadino, la disuguaglianza funzionale che si manifesta nell’esercizio di una data magistratura è evidenziata dall’apparato esterno dei titoli, degli onori, delle cariche. In quella divisione dei ruoli, può esserci differenza dei ruoli stessi, ma mai confusione dei medesimi. In ciò, Aristotele si distingue in maniera piuttosto netta da Platone, giacché quest’ultimo distingueva in modo marcato la funzione del comando da quella dell’obbedienza, riconoscendo – seppur attraverso una “nobile menzogna” – che le differenze tra le varie classi sociali e i ruoli ad esse competenti sono naturali alla pari delle differenze tra i metalli. Le diversità del modello aristotelico rispetto a quello platonico affiorano in maniera ancora più forte nel secondo libro, nel quale è messo alla berlina tanto l’utopistico progetto della Repubblica quanto quello delle Leggi. La critica che Aristotele muove al suo antico maestro si svolge su due piani, su uno categoriale di principi filosofici e su un altro - più concreto - di critica empirica: in altri termini, è come se alla critica mossa dal punto di vista della filosofia politica, Aristotele ne affiancasse un’altra dal punto di vista del realismo politico. Per quel che riguarda il primo aspetto, Platone è accusato di aver inteso la poliV come una struttura unitaria e, in definitiva, pensata sul modello dell’oikoV; in questo senso, Platone è colpevole di aver frainteso la natura della poliV e della politica, confondendone i piani con quelli dell’oiokoV. Lungi dall’essere quell’unità riconosciuta da Platone, la poliV è – nota Aristotele – pluralità che ammette sì una gerarchia (fra governato e governante) ma che sia funzionale alla poliV stessa e non strutturale. Il problema di fondo che animava l’intero progetto platonico era quello della stasiV, ossia della lotta civile: nella poliV si trovano infatti a convivere due città diverse e opposte – quella dei ricchi e quella dei poveri -, cosicché finché vi saranno queste due città, vi sarà anche antagonismo e, con esso, conflittualità sempre rinnovantesi. Ma, benché abbia colto il problema, Platone non è stato in grado di risolverlo, giacché, anziché eliminare queste due città antagoniste, le ha riprodotte in forma autoritaria nella sua kallipoliV. Del resto, se la poliV diventa assoluta unità, smarrendo ogni differenza e pluralità, ne segue che a rigore essa non sarà più neppure una poliV, tutt’al più sarà una forma di oikoV, dal momento che si può parlare di poliV quando v’è pluralità e differenza. Ben si capisce allora perché il modello monistico prospettato da Hobbes risulti assai più vicino a quello platonico (che tende a ridursi a famiglia) che non a quello aristotelico, soprattutto in forza del fatto che il filosofo inglese punterà tutto sulla famiglia e, soprattutto, sull’uomo singolo. Il Leviatano stesso, che nel linguaggio hobbesiano simboleggia lo Stato, non è se non un colosso costituito da tanti singoli uomini (i sudditi) che, uniti, danno lo Stato: ciascuno di essi è tenuto ad occupare il posto che gli è stato dato, senza che vi sia alcuna possibilità di quella rotazione delle cariche prevista da Aristotele. Più vicina alla posizione di quest’ultimo sarà Hannah Arendt, la quale concepirà la politica in senso aristotelico, come regno della pluralità e della differenza, accusando l’intera tradizione occidentale di aver fatto proprio il modello unicizzante di Platone. Proprio Platone, nella Repubblica, aveva irrigidito in senso quasi castale il rapporto intercorrente tra i governati e i governanti: nel settimo libro della Politica, Aristotele va sostenendo [1332 A] che se le differenze tra i cittadini fossero costitutive, come quelle che dividono gli dei dagli uomini, allora avrebbe ragione Platone ad ammettere che alcuni devono per natura governare sempre mentre ad altri spetta di essere sempre governati; ma poiché tali differenze non sussistono e anzi tutti i cittadini sono eguali (tema squisitamente moderno e stante alla base della democrazia), allora tutti e nella stessa misura devono avvicendarsi nel comandare e nell’essere comandati. Il fatto che i cittadini siano tra loro eguali non implica però che tra il governato e il governante non vi siano differenze: il primo deve obbedire ai comandi del secondo, che si trova in posizione egemonica rispetto a lui; ma tale differenza è funzionale alla poliV stessa, non le è congenita né è naturale. Naturale è invece la differenza che, nell’ambito dell’oikoV, Aristotele riconosce tra il padre e il figlio, tra l’uomo e la donna e tra il padrone e lo schiavo, concepito un mero strumento da lavoro alla pari del bue o dell’aratro. Nella sua critica indirizzata all’ex maestro, Aristotele si spinge anche più in là, assumendo come bersaglio le proposte platoniche in fatto di articolazione delle classi sociali: Platone aveva formulato il progetto altamente pedagogico di riforma dell’istruzione e della socializzazione degli individui, convinto che, per uscire dal vigente disordine sociale, non bastasse l’imposizione di una nuova costituzione, ma fosse necessaria una riforma antropologica della natura umana (ancora Gramsci, in pieno Novecento, parlerà di “riforma intellettuale e morale” per arrivare al comunismo). In particolare, per ottenere una nuova natura umana, occorre – secondo Platone – il conseguimento di un nuovo paradigma di riferimento, che può essere ottenuto allontanando i figli dalle famiglie di origine e dalle loro particolarità educative. La prima critica che Aristotele muove a questo progetto è che si tratta di un disegno profondamente contraddittorio, poiché se il suo fine è di conseguire la pace nella poliV e di mettere al bando una volta per tutte la stasiV, allora la comunanza di donne e figli prospettata da Platone finirà per alimentare il conflitto anziché estinguerlo. Aristotele nota ciò alla luce del fatto che “dove donne e figli sono comuni, ci sarà meno amicizia[politica]” e aumenterà esponenzialmente il numero dei conflitti e delle dispute. Ciò detto, lo Stagirita insiste soprattutto sulla proprietà privata, che costituisce il punto cruciale per il mantenimento dell’ordine nella poliV. In particolare, egli attacca duramente la condanna platonica della proprietà privata: Platone aveva sostenuto che, in fin dei conti, la fonte di tutti i mali sociali era la proprietà privata, da cui sorgeva ogni forma di conflitto, di invidia e di antagonismo; ora, Aristotele nota che non è la proprietà in quanto tale a causare conflitti, ma piuttosto sono certe modalità di proprietà (soprattutto nel caso in cui vi sono cittadini che dispongono di immense proprietà e altri che sono invece nullatenenti): inoltre, lo Stagirita nota che il collettivismo prospettato da Platone non è in grado di restituire la pace. Dal canto suo, Aristotele è convinto che le conflittualità potranno essere, se non eliminate, certamente contenute nella misura in cui a trionfare sono non le grandi, bensì le piccole proprietà e, con esse, il ceto medio (col che la quale egli anticipa molte tesi moderne), in linea con la tesi, sempre reiterata, della medietà della virtù. Se a prevalere sono le piccole proprietà e il ceto medio, allora viene a cadere la lotta tra la città dei ricchi e quella dei poveri e la società, da piramidale che era, assume la forma di un rombo, i cui vertici sono occupati rispettivamente dai ricchi e dai poveri e il cui popolatissimo centro è invece occupato dal ceto medio. Successivamente, Aristotele sviluppa una tesi che sarà ripresa in età moderna, quella dell’uso sociale della proprietà privata, che non dà diritto assoluto sempre sui propri beni: v’è una dimensione d’obbligo per cui il detentore della proprietà deve pagare certi prezzi. È, in altri termini, un temperamento sociale della proprietà. Aristotele conduce poi un’argomentazione di tipo eudemonistico: una società può stare insieme solamente se tutte le sue parti sono soddisfatte; ma non si può essere soddisfatti se non si dispone di proprietà privata, come attesta ogni esperienza. È infatti grazie alla proprietà privata che si può essere felici, provando la gioia dell’essere liberali con gli amici e con gli stranieri. Aristotele rileva inoltre che Platone sottovaluta la componente eudemonistica della proprietà anche per il fatto che condanna due classi (i governanti e le guardie) ad un’ascesi che è francamente eccessiva. È impossibile che la società sia nel suo insieme felice se le sue parti non lo sono. I punti finora emersi dalla lettura della Politica aristotelica sono essenzialmente due: in primo luogo, abbiamo rilevato come si tratti di una prospettiva evolutiva, tale per cui il momento politico è un punto di evoluzione e, per così dire, di arrivo rispetto alla famiglia. In secondo luogo, abbiamo messo in luce come alla base della politica aristotelica vi sia un’antropologia comunitaria in forza della quale l’uomo è animale insieme politico e socievole: una siffatta antropologia trova la sua più alta espressione nella filia, con la quale si trovano a convergere la felicità e la virtù (infatti la filia politikh è amicizia politica che dà la più grande gratificazione possibile ai cittadini). Dobbiamo ora prendere in esame un terzo punto decisivo, di cui finora non ci siamo occupati: quello riguardante il diritto naturale. In Aristotele, la concezione della giustizia accentua molto il momento eudemonistico (poco marcato in Platone), a tal punto che lo Stagirita così scrive nell’Etica nicomachea [1129 B]: “giusto è ciò che produce e custodisce per la comunità politica la felicità e le sue componenti”. La connessione qui operata è tra giustizia e felicità, quest’ultima intesa come il prodotto del convergere di azioni che provengono da diversi piani anche diversissimi tra loro. E ancora una volta Aristotele muove da una concezione della giustizia come medietà, più precisamente come medietà tra quei due estremi di cui già Platone (Repubblica, II) aveva colto in pieno l’importanza: il commettere ingiustizia e il subirla. La medietà tra questi due opposti configurantisi come eccessi (commettere ingiustizia significa infatti voler avere di più di quanto spetti, mentre subirla vuol dire avere di meno). Aristotele si sofferma soprattutto sul rapporto intercorrente tra giustizia, legge e uguaglianza, giacché la giustizia è una forma di ordine che presuppone la legge e l’uguaglianza, come egli nota sempre nell’Etica nicomachea [1129 B]. In tale prospettiva, si dirà giusta un’azione nella misura in cui essa instaura una qualche forma di uguaglianza fra gli individui, ancorché Aristotele alluda qui all’uguaglianza come proporzionalità e non come identità o come uguaglianza in senso geometrico. A questo proposito, egli procede a distinguere tra due diversi tipi di giustizia, a seconda di come si instaura l’uguaglianza nella società: da un lato, v’è la giustizia distributiva; dall’altro, la giustizia correttiva, a sua volta suddivisa in commutativa e in riparatrice. La giustizia distributiva è quella che distribuisce un qualche bene a degli individui sulla base del loro bisogno o del loro merito. Quella correttiva, invece, parte da una situazione di uguaglianza e la ristabilisce là dove viene violata (se ad esempio un tale patisce un torto, la giustizia correttiva pone ad esso riparo). Due sono però le modalità della giustizia correttiva: una è volontaria, l’altra involontaria. La prima è la giustizia commutativa (detta anche “giustizia dello scambio”), che presuppone una struttura diadica (vi sono due individui che effettuano scambi fra loro) e orizzontale (tali individui sono sullo stesso piano: non accade più quel che accadeva con la giustizia distributiva, che prevedeva un intervento “dall’alto” volto a distribuire i beni). Sull’altro versante, la giustizia riparatrice (che in epoche successive sarà definita come “giustizia penale”) non prevede azioni volontarie, quali erano quelle della giustizia commutativa (ad esempio, due individui che sul mercato decidono di mettere in atto una transazione): le azioni con cui essa ha a che fare sono invece involontarie e, per capire questo punto, possiamo pensare a un individuo che, al di là della sua volontà, ha subito un torto. La grande dicotomia che soggiace e che dà forma a questo schema della giustizia è quella pubblico/privato: la giustizia distributiva è pubblica, mentre quella correttiva ha a che vedere coi privati (ciò è più evidente se riferito a quella commutativa, meno se riferito a quella riparatrice). Il grande problema contro cui cozza la giustizia distributiva è quello del merito: qual è il merito secondo cui bisogna distribuire i beni? Aristotele è perfettamente consapevole che la nozione di “merito” sia polivoca, cosicché presso gli oligarchici essa è in riferimento alla ricchezza, presso i democratici è in riferimento alla liberalità, ecc. Di fronte a questa situazione, che Max Weber ricondurrebbe nella categoria del “politeismo dei valori”, Aristotele sostiene che il giusto è un qualcosa di proporzionale. Nella sfera della giustizia correttiva, domina non la proporzione geometrica, ma quella aritmetica; infine, nella giustizia commutativa la specificità del giusto è nel suo essere medietà tra gli estremi del perderci e del guadagnarci troppo: così, quando si litiga, ci si reca davanti a un giudice, il quale è “come la giustizia vivente” ed è il mediatore per eccellenza, ossia colui che bilancia tra gli estremi. Ciò detto, Aristotele procede poi a distinguere tra giusto naturale e giusto convenzionale, anticipando la distinzione tipicamente moderna tra giusnaturalismo e positivismo giuridico. Il giusnaturalismo implica, per sua stessa natura, un dualismo dei sistemi normativi per cui il sistema delle leggi naturali è affiancato da quello delle leggi positive. Al contrario, il positivismo giuridico implica un monismo del sistema normativo, per cui ad esistere sono solo le leggi positive (ciò non toglie che, oltre alle leggi giuridiche, ve ne possano essere altre, magari morali: ma, ciò non di meno, queste ultime non hanno valore giuridico). Dal canto loro, i giusnaturalisti dicono che le leggi positive sono giuste e dunque da rispettare esclusivamente se sono in accordo con quelle naturali. Aristotele pone le basi di questa distinzione parlando di un giusto per natura (dikaion fusei) che si può avvertire nei più diversi contesti culturali e che dunque non deriva dai costumi e dagli usi: ma ciò non di meno la legge naturale può essere riconosciuta solo nella poliV, poiché è solo là che, nell’ordine costituito, si coglie la distinzione tra legge positiva e legge naturale. Aristotele pare anche suggerire che fuori dalla città e prima di essa non vi sia diritto naturale e che questo viga soltanto tra i membri di una stessa comunità, il che vuol dire che Aristotele lascia un certo spiraglio al relativismo culturale. Il diritto positivo cambia di città in città, di Stato in Stato, ma quello naturale – dicono i moderni – resta lo stesso per tutti gli uomini: diversamente la pensa Aristotele, il quale riconosce che anche il diritto naturale non è estraneo al gruppo politico e sociale a cui si appartiene. Ed è curioso notare come i Greci, ancor prima della fusiV e del nomoV, abbiano l’hqoV, ossia l’insieme delle norme della tradizione, un insieme organico in cui non v’è ancora distinzione tra giusto positivo e giusto naturale.

 

Verso Hobbes

Nell’Etica nicomachea [1134 B], Aristotele sostiene che “naturale è quel giusto che mantiene ovunque lo stesso effetto e non dipende dal fatto che ad uno sembra buono oppure no”: da quest’asserzione emerge bene l’opposizione tra il giusnaturalismo e il convenzionalismo, quest’ultimo presentato come una sorta di relativismo o di soggettivismo protagoreo. Partendo da qui, possiamo valutare la distanza che separa Hobbes dal giusnaturalismo classico: anch’egli si richiama a più riprese alla legge naturale, ma la intende come un qualcosa che è soggetto alla manipolazione delle preferenze del singolo. Al contrario, il giusnaturalismo greco e, in particolare, aristotelico era fondato su due assunti fondamentali: a) l’ordine eterno della natura è il fondamento di ogni diritto valido universalmente: dunque è l’ordine implicito della fusiV a rendere possibile il discorso sulla legge naturale; b) la ragione umana è l’organo della conoscenza del diritto proprio in forza del fatto che si fonda su quell’ordine naturale di cui abbiamo testé detto. Prima di passare da Aristotele a Hobbes, è bene rilevare come tale concezione della naturalità e della conoscibilità razionale dell’ordine sia stata messa in crisi dal cristianesimo o, meglio, da certo cristianesimo: il suo avvento implica una sorta di sincretismo rispetto alla concezione classica, anche se poi, nel suo significato metafisico originario, si presenta come sfida al mondo greco. Sul piano ontologico, infatti, il cristianesimo muove dalla creazione del mondo dal nulla e dunque non pone l’accento su un ordine eterno della natura, ma piuttosto sul fatto che il mondo e l’ordine stesso sono il frutto di una creazione ex nihilo. Sul piano epistemologico, poi, ne segue un ridimensionamento della ragione naturale: se infatti essa è per Aristotele capace di cogliere intuitivamente l’ordine naturale, per i cristiani essa è invece contraddistinta da limiti intrinseci e la sua sola funzione è quella di ricostruire un ordine e non di riconoscerne uno già esistente. In particolare, passando attraverso il cristianesimo, le posizioni possibili diventano tre: 1) v’è chi assume che ci sia un ordine e che esso sia manifesto alla ragione umana e pertanto coglibile intuitivamente; 2) v’è chi (la scienza moderna in primis) pensa che ci sia un ordine ma che esso sia nascosto e solo parzialmente riconoscibile dalla ragione, cosicché la conoscenza deve combinare un aspetto empirico/sperimentale a uno ipotetico/convenzionale (ad esempio, si sa che c’è un ordine e, per ciò, bisogna avanzare ipotesi convenzionali). 3) Come estremizzazione della posizione precedente, v’è chi crede che non ci sia un ordine che se anche ci fosse non sarebbe comunque accessibile alla conoscenza umana: si approda così allo scetticismo (Montaigne) o alla fede (Pascal) o alla convinzione che l’ordine naturale non esista ma che lo si possa artificialmente costruire (Hobbes). Quest’ultima concezione, in particolare nella sua veste hobbesiana, affonda le sue radici nella scolastica medievale: se Tommaso tenta un sincretismo tra ragione aristotelica e rivelazione cristiana, a far saltare tale sintesi e a preparare il terreno al convenzionalismo hobbesiano sono Duns Scoto e Guglielmo da Ockham, i quali mettono in forse la discussione teleologica cristiana – ereditata da Aristotele – e ritengono indimostrabile che ogni singola azione sia volta a un fine. Comincia in questa maniera a incrinarsi il nesso tra ontologia e assiologia, quel nesso per cui ens et bonum convertuntur: si comincia a mettere in discussione il nesso bontà/onnipotenza divine, alla luce del fatto che la bontà è indimostrabile e pertanto non se ne può derivare il precetto di amare il prossimo. Ponendo al centro la volontà, Scoto e Ockham ritengono che i precetti del Decalogo dipendano direttamente dalla voluntas divina, con la conseguenza che nell’ordine del mondo troviamo non già la ratio, bensì la voluntas: quest’ultima sfugge alla conoscenza razionale. Non v’è allora un ordine naturale che si manifesta all’uomo: al contrario, la conoscibilità riguarda un ordine artificiale, costruito ad hoc e dunque si tratta di conoscenza ipotetico/convenzionale. Così per Hobbes si possono conoscere i corpi politici perché li creiamo noi stessi, ponendo in essi l’ordine: secondo il principio vichiano del verum ipsum factum, si può conoscere solo ciò di cui si è facitori. Fortissime sono le conseguenze che una tale posizione ha sull’etica: il giusnaturalismo classico, da Aristotele a Tommaso, è definibile in base all’affermazione “esistono princìpi di giustizia che sono oggettivamente veri”: ad essi, che configurano un ordine naturale, devono attenersi le leggi positive per poter essere giuste. Il fatto che ci siano leggi naturali colte intuitivamente dalla ragione permette di affermare che essa è in grado di discernere il bene e il male: è questo il “cognitivismo etico”. Dal canto suo, Hobbes è il primo sostenitore di rilievo di una posizione non cognitivista (detta “relativista” dai suoi avversari), il cui terreno è stato preparato dalla riflessione di Scoto e di Ockham: per Hobbes, bene e male sono solo oggetto di preferenze soggettive, cosicché non si possono definire il giusto e l’ingiusto in base al consenso di tutti (consensus omnium), come invece facevano i giusnaturalisti. Inoltre – nota Hobbes – se le leggi avessero origine dal consenso collettivo, allora esse potrebbero anche essere abrogate da tale consenso e ciò le renderebbe alquanto fragili: anche per questo motivo il filosofo inglese non esita a schierarsi contro il giusnaturalismo.

 

Hobbes

Hobbes introduce la distinzione fondamentale tra diritto naturale (ius naturae) e legge naturale (lex naturae): lex e ius – egli nota – non sono la stessa cosa e tale dicotomia rimanda ad un problema sostanziale che ora esamineremo. Ius naturae è il diritto naturale ed è innanzitutto libertà che appartiene al singolo individuo (ius indica dunque il diritto soggettivo), di contro alla tradizione giusnaturalistica, che era, da Aristotele in poi, olistica e non individualistica. Viceversa, lex è il contrario della libertà, è vincolo collettivo della libertà dell’individuo e rimanda sì ad una prospettiva olistica, più precisamente alla prospettiva artificiale dello Stato. Nella prima parte del De cive, Hobbes si sforza di definire l’ipotetico scenario dello stato di natura, caratterizzato dall’assenza del potere sovrano e, partendo da ciò, egli prova a costruire un’antropologia e poi uno Stato. Nello stato di natura, egli non considera le famiglie (come invece faceva Aristotele), ma gli individui: essi si trovano in una condizione duplice di uguaglianza e di volontà di nuocere (voluntas ledendi). Questi due punti di partenza sono il rovesciamento di quelli di Aristotele, che muovendo dalla famiglia notava come quella originaria fosse una situazione di disuguaglianza (padre/figlio, marito/moglie, padrone/schiavo) e come l’uomo fosse uno zwn politikon mosso da filia. Tanto l’idea di uguaglianza originaria quanto quella di voluntas ledendi, che Hobbes assume come punto di partenza, sono il portato del cristianesimo, ancorché la teoria di Hobbes sia assolutamente laica e stia alla base dello Stato laicamente inteso. Da questi due elementi originari, scaturisce che nello stato di natura, ove si è uguali ma ognuno vuole nuocere agli altri, la condizione umana è di paura reciproca e già Tucidide, del quale Hobbes tradusse da giovane le Storie, poneva tra i fattori della politica il foboV, ossia la paura. Questa costruzione, tale per cui dall’uguaglianza e dalla volontà di nuocere deriva un diffuso stato di paura, è in Hobbes complicata da un’attenta analisi delle passioni: egli cerca di spiegare perché l’uguaglianza porti alla paura e perché ne nasca un terrore pervasivo. Nel terzo paragrafo del cap.1 del De cive, egli dice che la paura reciproca deriva appunto dall’uguaglianza e dalla volontà di nuocere, precisando che “sono uguali coloro che possono fare cose uguali l’uno contro l’altro” e dato che tutti possono uccidere (chi con la forza, chi con la frode), allora se ne ricava che nello stato di natura tutti gli uomini sono uguali. La volontà di nuocere è in tutti, ma non è la stessa per tutti: ci sono i moderati e i prepotenti, e i secondi, in base a un’eccessiva stima di sé, si sentono autorizzati a prevaricare (è ciò che accade, ad esempio, nei Promessi sposi quando è intimato a Fra’ Cristoforo di cedere la diritta); i primi, pur non essendo vanagloriosi, finiscono poi ugualmente per nuocere agli altri per difendere i loro averi e la loro libertà (essi nuocciono per difendersi, sicché sono meno colpevoli rispetto ai prepotenti). Inoltre, Hobbes nota che causa frequentissima del nuocere è che molti desiderano al contempo una stessa cosa che finisce poi nelle mani di chi risulta più forte nella lotta. Pertanto la volontà di nuocere dipende a) dalla prepotenza, b) dalla necessità di difendersi (ossia dalla diffidenza), c) dalla competizione per i beni. Queste tre radici, coagendo con l’uguaglianza, realizzano la situazione di paura che regna nello stato di natura. Però poi Hobbes complica il quadro introducendo un’altra variabile (ed è qui che fa la sua comparsa il diritto naturale): egli infatti sostiene che nello stato di natura gli uomini si perpetrano violenze d’ogni tipo (quaestio facti) e che – qui sta il punto saliente – essi hanno il diritto a farlo (quaestio juris) perché ne va della loro stessa sopravvivenza. In questa prospettiva, il discorso hobbesiano si spezza in una componente descrittiva e in una normativa. Considerati i molti pericoli che minacciano la vita del singolo nello stato di natura, non è affatto biasimevole prendersi cura di sé, cercando ciò che per sé è un bene e fuggendo ciò che è per sé un male. In questi termini, l’uomo è presentato come un animale desiderante il bene (innanzitutto l’autoconservazione) e fuggente il male (innanzitutto la morte) e che così agisce con la stessa necessità con cui una pietra, se lasciata, cade al suolo. Hobbes si propone dunque di analizzare l’uomo con le stesse leggi con cui Galileo studiava il mondo: non è assurdo né biasimevole se ci si adopra per conservare il proprio corpo dai dolori e dalla morte; lo si fa con diritto e il diritto è “la libertà che ciascuno ha di usare delle proprie facoltà secondo retta ragione”. In opposizione alla lezione cristiana, Hobbes dice che tutto ciò che fanno nello stato di natura, gli uomini lo fanno con diritto: oltre ad essere uguali e ad avere certe passioni, essi sono legittimati ad averle e ad agire a quel modo al fine di autoconservarsi. In vista dell’autoconservazione, essi hanno diritto a tutto ciò che serve alla loro autoconservazione: la conseguenza è il bellum omnium contra omnes, ossia una costante guerra di tutti contro tutti. Gli individui sanno di avere il diritto ad ogni cosa (ius ad omnia) pur di autoconservarsi: soltanto l’individuo è giudice dei mezzi che gli occorrono per la propria autoconservazione. Hobbes lascia intendere che uguaglianza e libertà sono concetti alquanto problematici, che finiscono per produrre conflittualità tra gli individui, ciascuno dei quali sa di aver diritto a tutto. Non si può dire che cosa sia giusto per il singolo individuo (qui sta il non cognitivismo etico di Hobbes), giacché soltanto egli è giudice di sé, e talvolta finisce per essere giudice fallibile. Nello stato di natura, la misura dell’azione è l’utilità o, meglio, la valutazione soggettiva dell’utilità: a rendere ulteriormente instabile la condizione che caratterizza lo stato di natura è la fallibilità del giudizio dei singoli. Il loro è dunque un conflitto di identità ancor prima che di beni: l’agire e addirittura il parlare sono il manifestare coi fatti e con le parole la volontà di lottare e di nuocere. In questi termini, Hobbes ha ampiamente dimostrato la contraddittorietà dell’esistenza nello stato di natura: da tutto ciò, egli deduce che si deve uscire da tale stato di natura, essendo in esso continuamente minacciata la sopravvivenza di tutti gli individui. A permettere l’uscita è la lex naturae: la sua presenza indica che, accanto allo ius naturae, nella natura umana c’è la legge di ragione, che suggerisce possibili vie per uscire dalla conflittualità imperante nello stato di natura. Uno dei mezzi di autoconservazione era, per l’appunto, la legge naturale: gli individui, per garantire l’autoconservazione, potevano cioè decidere di darsi leggi che li tutelassero. Ma il ricorso alla lex naturae dipende dall’individuo: sta a lui scegliere se usarla oppure no. Da ciò si capisce come, nella prospettiva hobbesiana, il giusnaturalismo sia utilizzato per poi essere buttato a mare. La legge (da legere, in italiano “legare”) è per sua stessa natura un vincolo alla libertà: quest’ultima, secondo un materialista quale è Hobbes, non è che assenza di impedimento al moto, cosicché la legge si configura come un ostacolo che limita tale moto proibendo determinate cose. Essa opera nella duplice direzione di proibizione (additando quali cose non è possibile fare) e di obbligazione (prescrivendo ciò che si deve fare): ora, il giusnaturalismo non operava una distinzione tanto netta e proponeva soluzioni compromissorie rese possibili dall’assenza di siffatta distinzione e dal fatto che non concepiva gli individui come ostili fra loro e anzi guardava alla sola comunità. La legge di natura cerca di eliminare il conflitto (mentre il diritto naturale lo sortiva come effetto), anche se in fin dei conti non funziona in maniera completa: e se Hobbes vede nel diritto un elemento che produce il conflitto, al contrario per i giusnaturalisti nè la legge naturale né quella positiva, intesa come mera specificazione e rafforzativo di quella naturale, portano a ciò (infatti la legge naturale mi dice di non uccidere, quella positiva mi dice che la pena per l’omicidio è il carcere). Sicchè per i giusnaturalisti la legge naturale è sufficiente per neutralizzare il conflitto: dal canto suo, Hobbes assume una diversa posizione, sostenendo che la sola legge naturale non basta per azzerare il conflitto, giacché essa opera nello stato di natura, in cui vigono sì precetti di legge naturale che proibiscono certi comportamenti (ad esempio mi dicono di stare ai patti, di non essere ingrato, di essere accomodante verso gli altri, ecc), ma ciò non di meno nello stato di natura, data la natura fortemente conflittuale degli uomini, il conflitto è inevitabile e la ragione suggerisce ad ognuno di usare i mezzi ch’egli ritiene adeguati per la propria sopravvivenza. Pertanto il singolo finisce per non rispettare la legge naturale, perché il conflitto è tale da far sì che il rispetto della leggi di natura si volga a suo svantaggio. Per chiarire questo punto, Hobbes cita le relazioni tra gli Stati: essi si trovano in una situazione di perenne stato di natura, hanno il potere sovrano, che non ne riconosce altri superiori, e per ciò se anche stipulano tra loro dei patti, essi presentano la clausola rebus sic stantibus, cosicché quando almeno uno dei due Stati non ha più l’interesse a rispettarli, li infrange. Da ciò si capisce come le leggi naturali obblighino sì l’individuo, ma in foro interiore, nella sua coscienza e mai nei comportamenti esterni. Se tutti fossero moderati, allora le leggi naturali sarebbero sufficienti: ma poiché vi sono anche i prepotenti, che attaccano gli altri, anche i moderati si trovano nella condizione di dover confliggere, per difendersi. Hobbes attribuisce alla ragione un ruolo che non è limitato al calcolo razionale: essa è innanzitutto un mezzo di sopravvivenza, serve cioè come strumento di calcolo per rapportare i mezzi ai fini in maniera tale da garantire l’autoconservazione del soggetto. Ma per dare un contributo che sia realmente tale, la ragione deve anche promuovere l’autoconservazione del gruppo: qui emerge la nozione di recta ratio, la quale si esprime coi dettami della legge naturale e non è più la ragione strumentale che mira unicamente all’autoconservazione del singolo. Essa mira piuttosto all’autoconservazione dell’intero gruppo: è perciò una “ragione morale” e superiore, nel senso che si pone il problema di rendere possibile la convivenza fra individui. Compie il primo passo verso la kantiana “razionalità morale” che induce a riconoscere gli individui come fini, come valori, di contro alla ragione strumentale, che negli individui scorgeva esclusivamente degli strumenti. In realtà si tratta di un processo funzionante solo in maniera ipotetica: se nello stato di natura gli individui seguissero la legge naturale, allora non ci sarebbe alcun problema; ma dal momento che essa obbliga solo in foro interiore, nello stato di natura “nemo tenetur ad impossibilia”, nessuno può cioè mettere a repentaglio la propria vita. Ne segue allora che la legge naturale non risolve il problema, ma indica una via per risolverlo. I singoli si accordano fra loro per lottare contro altri, ma ciò non risolve la situazione, perché la guerra continua a sussistere: bisogna cercare la pace e bisogna rinunciare al proprio diritto di autoconservazione illimitata nella misura in cui vi rinunciano anche tutti gli altri. Se è vero che il diritto all’autoconservazione è impregiudicabile e irrinunciabile, non è altrettanto vero che gli individui debbano sempre mantenere il diritto su tutte le cose (ius ad omnia): occorre trovare un accordo per cui essi mantengano il diritto alla vita ma perdano gli altri, che possono essere trasferiti ad un potere comune e artificiale (il sovrano), il quale è la somma di tutti i diritti in esso trasferiti e serve a tutelare gli individui. Per questo motivo, nello Stato il sovrano non può in alcun caso privare i sudditi della vita, giacché essi sono entrati in esso proprio al fine dell’autoconservazione. La prima legge naturale derivata, secondo la quale bisogna trasferire lo ius ad omnia ad un potere sovrano, è alquanto problematica: tale trasferimento non è infatti immediato, ovvero non c’è una rinuncia immediata in vista di un bene del quale, nello stato di natura, non si ha ancora conoscenza. Sicché Hobbes ci presenta dapprima l’essere umano come diffidente e antisocievole e poi, ribaltando la prospettiva, lo tratteggia come fiducioso nel firmare il patto sociale in vista di un bene che ancora non c’è. Ma v’è anche un altro problema altrettanto serio: finché egli parla dello stato di natura, ci presenta una ragione strumentale e un linguaggio finalizzato all’inganno, cosicché non si capisce perché tale ragione riesca poi, mediante le leggi naturali, a mutare la condizione umana e a configurarsi come ragione morale. Se nello stato di natura non sussistono patti che possano avere validità assoluta, giacché valgono solo con la clausola rebus sic stantibus, allora come si può arrivare ad un patto di tutti in favore del potere sovrano? Ciò comporta infatti che tutti gli individui rinuncino allo ius in omnia in favore di chi è slegato dal patto (da ciò scaturirà che il sovrano, proprio perché slegato dal patto, detiene un potere assoluto, indivisibile, irrevocabile). Le leggi naturali sono riconosciute dalla recta ratio, ma non basta conoscerla: bisogna applicarle e qui sta il difficile. Il problema che Hobbes si pone è quello non già della validità o della giustizia delle leggi naturali, bensì della loro efficacia: ed esse sono efficaci nella misura in cui garantiscono la sicurezza degli uomini. Sicché anche per Hobbes la legge naturale fornisce il fondamento di validità a quella positiva, ma sta poi al potere fornirle l’efficacia: ciò è ben espresso dal motto “auctoritas, non veritas, facit legem”. Dal canto suo, Aristotele ammette che anche le api e le formiche, pur prive di ragione, siano capaci di costruire società al pari degli uomini: in disaccordo, Hobbes nota come siano cose diverse, poiché le aggregazioni degli animali non sono Stati né essi devono essere detti “politici”, in quanto sono tutti volontà distinte che mirano verso il medesimo fine senza che da ciò nasca la volontà unica. Tutto cambia se consideriamo gli uomini, i quali si distinguono per ben sei aspetti: 1) tra gli uomini c’è contesa per onore e per dignità, da ciò nascono l’odio e l’invidia e, da essi, la guerra; 2) l’uomo è animale che si contrappone polemicamente ai suoi simili, pretendendo uno statuto di superiorità al bene privato: in altri termini, per l’uomo non v’è identità tra bene privato e bene comune. 3) Gli animali non vedono difetti nell’amministrazione delle loro repubbliche: invece, alcuni degli uomini introducono novità, ciascuno a modo suo, cosicché scaturiscono le guerre civili. 4) Gli animali mancano dell’arte della parola, la quale suscita i turbamenti dell’animo. Avverso ad ogni forma di retorica, la quale usa la lingua come “tromba di sedizione”, Hobbes nota che la parola umana sa esagerare in maniera tale per cui le descrizioni trapassano in prescrizioni e proibizioni: speranza e paura sono le due molle di questa antropologia. 5) Gli animali non operano distinzioni tra torto e danno: gli uomini, invece, sono tanto più dannosi quanto più si danno all’ozio. Se gli animali non si spingono oltre la battaglia per la fame, l’uomo è vanaglorioso, combatte per una moltitudine di motivi. 6) Il consenso degli animali è naturale, quello degli uomini è artificiale, avviene tramite un patto. La volontà di tutti deve essere unica e perciò ciascuno deve riporre la propria volontà in un singolo: in questo senso, la volontà generale è contrapposta a quella di tutti i singoli. Si fonda così il contrattualismo, anche se in realtà l’idea del patto sociale era già presente nella cultura occidentale fin dal Critone di Platone, opera in cui tale patto è fondato sulla gratitudine per i benefici ricevuti. Nel Medioevo il discorso del patto torna ad essere centrale nella vita prima feudale, poi comunale, giacché si contrattano con l’imperatore i diritti. Nell’ambito di questo dibattito, due erano le principali concezioni del patto: a) c’era chi lo intendeva come pactum societatis, concependo la società come il frutto di un accordo fra gli individui che, stanchi di vivere da soli, si aggregano per vivere insieme, rinunciando a qualcosa per ottenere in cambio qualcos’altro; b) c’era poi chi lo intendeva come pactum subiectionis, sostenendo che la società altro non era se non un aggregato di individui - già formanti un popolo – che si sottomette a un sovrano e, così facendo, genera un impero o un regno, chiedendo, in cambio di tale sottomissione, protezione e obbedienza. Dal canto suo Hobbes, erede di questa tradizione, parla di pactum unionis come unità simultanea dei due patti: gli individui – egli dice – contemporaneamente diventano popolo e si sottomettono a un sovrano. I giuristi partivano dalla lex de imperio, secondo la quale il potere era trasferito dal popolo al sovrano, ma tale trasferimento poteva essere inteso o come concessio o come translatio: nel primo caso, il popolo trasferisce la sovranità al signore in usufrutto, mantenendola sempre come propria e perciò riservandosi il diritto di revocarla; nel secondo caso, invece, si ha un trasferimento del potere, il quale transita dal popolo al sovrano. Nel caso della concessio, il popolo affida al sovrano l’esercizio della sovranità, ma la titolarità resta al popolo; nel caso della translatio, sono ceduti al sovrano sia la titolarità sia l’esercizio del potere. Ora Hobbes, che vive nel pieno della guerra civile e che pertanto si prefigge l’obiettivo di non far sì che essa si ripeta, sa bene come la concessio porti ad una soluzione instabile, giacché nel momento in cui il popolo revoca il potere al sovrano, ecco che scoppia la guerra civile. Tuttavia egli rileva come anche la translatio comporti seri problemi, giacché comporta l’idea che, in origine, ad essere sovrano fosse il popolo, il quale poi cedeva al sovrano titolarità ed esercizio del potere, cosicché esso potrebbe da un momento all’altro tornare sui propri passi. Per evitare che ciò possa verificarsi, Hobbes congegna un patto che sia tale da non potersi più sciogliere: chi cerca di annullarlo, sarà un sedizioso e, in quanto tale, dovrà essere punito dallo Stato. Nel cap.6, Hobbes illustra le caratteristiche del patto sociale e ragiona sulle conseguenze che esso comporta. Già Bodin definiva la sovranità come potere assoluto (nel senso di legibus solutus: l’unico limite erano a suo avviso le leggi divine) e perpetuo, cioè irrevocabile. Però tale tesi era poi minata dalle assunzioni della giurisdizione che faceva riferimento alla lex de imperio. Storicamente, Hobbes ha buone ragioni per essere scettico su molte professioni di assolutismo fatte al suo tempo, giacché in realtà il potere non era realmente assoluto (Bodin stesso lo vede vincolato dalla legge salica): per questo motivo, egli, con la sua costruzione teorica, si propone di fondare in maniera concreta il potere assoluto del sovrano e, per fare ciò, muove dal patto sociale. Quello che egli descrive è un patto che lega le mani a chi lo stringe, rendendolo un patto perpetuo ed assoluto, tale da non poter più essere sciolto una volta che è stato stipulato. Ciò emerge chiaramente nel De cive (VI, 20), quando il filosofo inglese sostiene che il patto è un contratto stipulato da tutti gli individui contemporaneamente e in favore di un terzo che, non vincolandosi al patto stesso, ne resta slegato, cosicché ad esso è garantita assolutezza ed irrevocabilità. In conseguenza di quel patto, il potere sovrano è irrevocabile non solo di fatto, ma anche di diritto: si potrebbe a questo punto obiettare – ed è quel che Hobbes stesso fa – che se tale patto è fondato dal consenso reciproco degli individui, allora esso può essere revocato nel momento in cui a deciderlo sia quello stesso consenso che l’ha statuito. Hobbes smonta questa possibile obiezione rilevando che basta che uno solo non sia d’accordo a revocarlo perché esso sia, di fatto e di diritto, irrevocabile: in altri termini, sarebbe legittimo revocarlo se l’unanimità dei contraenti fosse d’accordo, ma essendo ciò impossibile ne segue che il patto è e resta irrevocabile. Quando tale potere sovrano è affidato non a un sovrano ma ad un’assemblea (il che è possibile, ma di fatto Hobbes opta per la prima possibilità), ecco allora che possono esservi opinioni diverse e varrà il principio della maggioranza, per cui la volontà unica sarà quella della maggioranza, ma ciò varrà esclusivamente quando lo Stato s’è già costituito. Appena quarant’anni dopo Hobbes, John Locke sosterrà la possibilità di sciogliere il potere sovrano: a suo avviso lo stato di natura è – un po’ come per Aristotele – una condizione fondamentalmente pacifica, nella quale tuttavia, mancando un giudice che possa dirimere le contese, possono insorgere conflitti di interessi tra gli individui e qualcuno può indebitamente far sua la proprietà altrui (proprietà che per Locke sussiste già nello stato di natura). Proprio al fine di avere un giudice che impedisca tali soprusi si stipula il patto sociale e si fonda lo Stato. Ben si capisce come, a differenza di Hobbes, Locke non abbia interesse ad instaurare un potere assoluto, ma piuttosto si preoccupi di trovare un giudice che restauri un ordine violato. Da ciò affiora l’idea di come la modernità non possa in alcun caso essere ridotta alla dicotomia Aristotele/Hobbes: la prima grande variante che la contraddistingue è quella rappresentata da Hobbes, la seconda è l’appena citata filosofia politica di Locke, che fa sua una concezione antropologica mediana tra Aristotele e Hobbes. Locke muove infatti dal modello hobbesiano di stato di natura (pur concependolo in maniera piuttosto diversa) e dall’uscita da esso; però poi riconosce, sulla scia di Aristotele, alle leggi naturali una forte capacità impositiva, cosicché ne emerge una concezione liberale del potere e destinata a vincere, nell’età moderna, su quella assolutistica prospettata da Hobbes. Infine, la terza variante della modernità è data da Hume e da Adam Smith: essi non muovono dall’idea del contratto sociale, cercano invece di guardare alla genesi delle società umane e in esse rinvengono delle convenzioni (non dei patti) tra individui, le quali finiscono per produrre stabilità e ordine. Lungi dall’essere costruito artificialmente (come sosteneva Hobbes), l’ordine delle società moderne è cresciuto per evoluzione delle relazioni (divisione del lavoro, specificazione dei bisogni, ecc) che poi creano la simpatia: se infatti intrattengo rapporti di reciproca utilità con un altro individuo, accade poi che col tempo il rapporto assumerà anche qualità morali di simpatia). Ed è interessante come tanto Hume quanto Smith sviluppino questa tesi della benevolenza e della simpatia a partire dal mercato. Tutte queste varianti della modernità, che a tutta prima possono apparire diversissime e perfino autoelidentisi, hanno in comune l’attenzione – tipicamente moderna - per l’individuo. Fatta questa panoramica sulla filosofia politica dell’età moderna, torniamo a Hobbes: il sovrano non si accorda con nessuno, è semplicemente il beneficiario del patto. Quest’ultimo si presenta nei suoi confronti come un dono che gli individui gli fanno e non come un atto di reciprocità che lo coinvolga direttamente (la reciprocità varrà dopo la stipulazione, quando i sudditi saranno tenuti ad obbedire e in cambio avranno protezione del sovrano). Col patto comune, gli individui si vincolano due volte (pactum subiectionis e pactum societatis), cosicché, se anche tutti ci ripensassero e volessero revocarlo, sarebbe il sovrano a opporsi. A questo punto, Hobbes si pone un’obiezione: non si rischia che, essendo assoluto e irrevocabile, il potere sovrano degeneri in tirannide? Essendo svincolato dalle leggi, il sovrano potrà fare quel che vuole? Hobbes nota che, se si dà il potere assoluto a una repubblica democratica, non si va incontro ad obiezioni, ma se il potere sovrano è affidato alla monarchia, allora subito sorgono i problemi, perché il monarca può comportarsi a suo piacimento, da tiranno e da folle. Che lo Stato sia contenuto nella persona del re – rileva Hobbes -, ai più risulta difficile da accettare, anche perché se un uomo godesse di tanto potere, i più vivrebbero in modo miserabile. Egli si propone pertanto di smascherare la tesi secondo cui, essendo sciolto dalle leggi, il sovrano potrebbe atteggiarsi a mo’ di tiranno: lo fa attraverso tre argomentazioni. 1) Anche se può fare ciò legittimamente, senza cioè commettere torto verso i sudditi, non può farlo giustamente, perché va contro il volere di Dio. Sicché (in Hobbes come in Bodin) il potere del sovrano è assoluto ma non a tal punto da liberarlo dal diritto morale di rispettare le leggi divine. 2) Anche se potesse tiranneggiare giustamente, non avrebbe comunque alcun motivo di farlo e di spogliare i cittadini, giacché non gliene verrebbe alcun bene: questo argomento utilitaristico mette in luce come un tale agire sarebbe irrazionale e improduttivo. 3) Il sovrano avrà talvolta la predisposizione ad agire malvagiamente: non è da escludere che il sovrano possa essere un tiranno, però non è limitandogli il potere che ciò cesserà di accadere. Infatti, se ha potere sufficiente per difenderci, allora ne ha abbastanza anche per opprimerci. Da ciò si evince che la colpa è fondamentalmente della natura malvagia degli uomini e non del potere sovrano. Ci può essere prudenza nell’esercizio del potere (così è per gli Stati cristiani), ma ciò è dovuto solo a una strategia e non toglie il fatto che quello del sovrano sia un diritto assoluto. Il titolare del potere deve essere, secondo Hobbes, anche colui che lo esercita: da ciò deriva l’indivisibilità dei poteri – principio contrario a quello, propugnato dal liberalismo, della divisione dei poteri, finalizzata a scongiurarne gli abusi. In questo senso, la teoria di Hobbes può essere interpretata contro le intenzioni del suo autore: egli sostiene espressamente di preferire la forma monarchica (giacché uno solo è più rapido nel prendere le decisioni, evita i conflitti, ecc), ma ciò non di meno dice cose che saranno lette in senso anti-monarchico da autori a lui successivi. Ciò avviene già nel Tractatus logico-polithicus e nel Trattato politico di Spinoza: quest’ultima opera, in particolare, si concentra sulle teorie dello Stato e, fin dal primo capitolo, l’autore va sostenendo che le passioni, lungi dall’essere vizi (come lo concepiva una lunghissima tradizione), sono proprietà essenziali della natura umana. In seguito, Spinoza definisce la virtù del potere come sicurezza, recuperando alcuni assunti di Hobbes: il fine degli individui è l’autoconservazione e,pertanto, il diritto naturale ha – hobbessianamente – a che vedere con essa. Se l’impianto teorico è piuttosto vicino a quello di Hobbes, ciò non di meno Spinoza mette poi in forse il primato della monarchia, ponendo invece l’accento sulla versione democratica del contratto sociale, la quale sarà portata fino in fondo da Rousseau. E proprio nel De cive (cap.12, par.8) troviamo un paragrafo sintomatico di questo passaggio dalla monarchia alla democrazia:Hobbes sta trattando delle opinioni sediziose, le quali producono la dissoluzione dello Stato; tra queste, egli annovera il diritto di giudicare che cosa sia il bene e che cosa il male, sostenendo che tale giudizio non spetti ai singoli, perché la ragione non può stabilire in senso universale ed oggettivo che cosa siano, cosicché, per garantire la stabilità dello Stato, dev’essere il potere sovrano a giudicare che cosa sia bene e che cosa sia male. Anche il diritto di resistenza, del tirannicidio, della divisibilità dei poteri e del fatto che il sovrano stesso sia soggetto alle leggi positive sono messi al bando: e del resto, la stessa proprietà privata, in quanto frutto della ripartizione effettuata dal potere sovrano, può da esso essere revocata. Anche l’ignorare la differenza tra moltitudine e popolo è un gravissimo errore che dev’essere estirpato, poiché produce guerre: ed è proprio da questo punto che si giungerà alla teoria radicale della democrazia. Il popolo è un che di unitario, ha azione e volontà uniche: “anche nelle monarchie il popolo comanda”, scrive Hobbes, “infatti il popolo vuole attraverso la volontà di un solo uomo”. La moltitudine è invece una pluralità indistinta e “il re è il popolo”: il potere monarchico è dunque ridotto a potere sovrano della collettività. Sicché Hobbes, argomentando a sostegno del potere e contro le rivoluzioni popolari, apre inavvertitamente spiragli in direzione rivoluzionaria, giacché titolare del potere sovrano finisce per essere un qualcosa che è anteriore alla persona fisica del sovrano: tale è il popolo costituito attraverso il patto sociale. Col suo modello contrattualistico, Hobbes ha allora costituito il grado zero della teoria liberale e, al contempo, di quella democratica: col suo dispositivo teorico, egli riconosce l’ambito della società civile e, nel paragrafo successivo, parla della tassazione e sostiene – in una prospettiva perfettamente razionalistica, tale da tener conto delle esigenze di una nascente società mercantile – che “le ricchezze si producono con l’industria” e “si conservano con la parsimonia”. Così dicendo, Hobbes instaura una teoria della divisione del lavoro tra pubblico e privato. Lo Stato regge la spada che protegge ed è alimentata dal lavoro dei cittadini. Le imposte sono allora il salario per quelli che difendono i beni privati e l’industrialità dei singoli. In questi termini, lo Stato è un “guardiano notturno” (Nozick) che vigila affinché non si verifichino furti e torti, tesi che sarà portata alle estreme radicalizzazioni dai liberali. Ma una tale prospettiva, che sostiene che il popolo è il re, è anche il punto d’avvio per la teoria democratica. Così, Rousseau, che si colloca sulla linea contrattualistica (non a caso la sua opera più celebre si intitola Contratto sociale),  è assai critico nei riguardi di Hobbes e di Locke. La stessa filosofia della storia che sta alla base del suo pensiero è diversissima da quella dei due autori inglesi: nello stato di natura – nota Rousseau – gli uomini sono inclini alla benevolenza reciproca e a vivere isolati, senza cercarsi a vicenda se non per soddisfare i bisogni elementari. Essi, anziché muoversi guerra, provano una pietà reciproca e vivono seguendo il sentimento. Dallo stato di natura escono per ragioni contingenti (ad esempio, per via della divisione del lavoro, della crescita demografica, ecc): dal primigenio stato pacifico di appagamento dei bisogni si entra nella società civile, la quale si identifica con la disuguaglianza, la prevaricazione e la corruzione. Se per Hobbes insostenibile era lo stato di natura, per Rousseau tale è la società civile, la quale si presenta pertanto come il male da superare. Il contratto sociale, nell’ottica rousseauiana, è il momento di una possibile rigenerazione della società: anch’egli, al pari di Hobbes, pensa lo Stato come prodotto artificiale e il patto come pactum unionis. Ma la sua è una filosofia della libertà, non dell’ordine. Quando parla del contratto sociale (Contratto sociale, cap.6), egli va sostenendo la necessità di trovare un’associazione “che protegga la persona e i beni di ogni associato”, in maniera tale che ognuno, unendosi a tutti, obbedisca a se stesso e, dunque, resti libero come persona. Il problema è allora quello della preservazione della libertà, intesa come autonomia: se per Hobbes non v’è molta libertà nello Stato (v’è quella dei privati, intesa come assenza di costrizioni, ma non quella politica), al contrario per Rousseau essa è autonomia che rende i singoli autonomi e non eteronomi. Per ottenere un tale risultato, occorre stipulare un patto che (come quello di Hobbes) sia alienazione pressoché totale, in maniera tale che ciascuno si dia tutto e che dunque la condizione di partenza sia la stessa per tutti, senza che qualcuno abbia interesse a renderla onerosa per gli altri. L’alienazione di cui parla Rousseau è però ancora più radicale rispetto a quella hobbesiana, giacchè il filosofo ginevrino sostiene che “chi si dà a tutti, non si dà a nessuno”. In questo senso, ogni forma di dipendenza personale è una forte compromissione della libertà in quanto a autonomia. Sicché il primato spetta alla totalità, non agli individui: l’obiettivo che Rousseau si prefigge è di far stare insieme, in qualche modo, la totalità con la prospettiva individualistica. In Hobbes, c’era forte valenza verticale e gerarchica, in quanto dall’alto il sovrano imponeva ai sudditi (e ciò in forza di un privilegiamento del pactum subiectionis): in Rousseau, invece, c’è privilegiamento del pactum societatis, con la conseguenza di un maggior interesse per la società nella sua orizzontalità. Dall’unione dei due patti (di soggezione e di società) nel pactum unionis deriva – e ciò vale tanto per Hobbes quanto per Rousseau – una forte disattenzione per i diritti dell’individuo, come avranno modo di rilevare soprattutto i liberali. A questo punto, dopo aver fatto una rapida panoramica su alcuni dei principali filosofi politici della modernità, possiamo tentare una schematizzazione. Per quel che riguarda lo stato di natura, lo si può concepire o come un avvenimento storico realmente accaduto oppure come un’ipotesi di ragionamento. Così Hobbes è per la seconda posizione, mentre Locke sostiene che lo stato di natura è realmente esistito e che tuttora esiste nelle popolazioni delle Americhe del suo tempo. Lo stato di natura può poi essere inteso come bellicoso oppure come pacifico: Hobbes è per la prima posizione, mentre Locke e Rousseau si collocano sulla seconda. Infine, si può dire che lo stato di natura è una condizione di isolamento oppure che è una condizione di socialità: sicuramente Rousseau è per la prima posizione, giacché a suo avviso gli individui conducono un’esistenza isolata, unendosi quasi solo per la procreazione e per la crescita dei figli. Più sfumata è invece la posizione di Hobbes: a suo avviso, lo stato di natura non è isolamento, ma neanche socialità in senso positivo; è piuttosto una socialità realizzata in termini profondamente conflittuali. Diversamente, Pufendorf – facendo sua la posizione di Hobbes, ancorché in versione ammorbidita - riterrà che lo stato di natura sia sociale. Anche per quel che invece concerne il patto sociale, si può sostenere che esso sia un fatto storico oppure un’ipotesi di ragionamento: per Hobbes è un’ipotesi, anche se poi nel De cive va in cerca di prove storiche all’interno delle Scritture; similmente, Kant, nel suo scritto Sul detto comune ‘questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi’ (1793) scrive che “questo contratto, detto contratto originario ovvero patto sociale, come coalizione in un popolo di ogni volontà privata e particolare in volontà pubblica e comune non è in alcun caso da presupporsi come un fatto, anzi come tale non è neppure possibile”. Si tratta – nell’ottica kantiana – di una semplice idea della ragione che ha indubitabile realtà pratica, in quanto obbliga ogni legislatore ad emanare le sue leggi così come esse sarebbero potute nascere dalla volontà riuscita di un intero popolo: questa è la pietra di paragone della legittimità delle leggi (è, allora, una quaestio juris). Il patto sociale può poi essere diversamente inteso per le sue modalità d’attuazione: può essere inteso come patto d’associazione (Locke) o di soggezione, oppure come patto d’unione (Hobbes e Rousseau: ma per il primo è trasferimento dei diritti ad un terzo, per il secondo alla collettività di cui l’individuo stesso è membro). Diverse sono poi le tesi in merito al contenuto del patto sociale, a seconda della quantità e della qualità dei diritti che con esso vengono trasferiti: così per Hobbes sono trasferiti tutti fuorché uno, mentre per Locke solo uno (quello di farsi giustizia da sé) è trasferito. Infine, variano i modi di concepire la finalità del patto, a seconda delle concezioni filosofiche generali dell’autore: per alcuni (Hobbes), la finalità è la protezione dell’individuo; per altri (Rousseau), il fine è trasformare gli individui corrotti dalla società (i quali sono assai simili a quelli dello stato di natura di cui parla Hobbes). Per Kant, la finalità è morale, giacché si tratta di migliorare gli individui. Per quel che riguarda il potere sovrano, esso può essere inteso come assoluto (Hobbes e Rousseau) oppure come limitato (Locke e Kant); indivisibile (Hobbes e Rousseau) oppure divisibile (Locke e Kant). Rousseau propugna l’indivisibilità del potere sovrano, convinto che esso scongiuri i particolarismi e i privilegi che ne derivano. Ciò non di meno, egli è e resta libertario, sostenendo l’indivisibilità del potere legislativo, ma facendo dell’esecutivo (di cui sarebbe facile abusare) un che di distinto e di subordinato a quello legislativo (è quest’ultimo, infatti, a dare ordini all’esecutivo). Del resto, per Rousseau l’unico patto è quello d’unione: stipulatolo, il governo è istituito per decisione del corpo sovrano. Infine, il potere sovrano può essere inteso come irreversibile (Hobbes, Rousseau, Kant) oppure come reversibile (Locke, che ammette il diritto di resistenza).


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