INTRODUZIONE AL "DE PHILOSOPHIA" E AL "PROTREPTICO"

A cura di Alessandra Quintiliani
Il De Philosophia e il Protreptico di Aristotele: due dialoghi perduti

Questa esposizione è volta all’esame, seppure sommario, di due tra più noti scritti essoterici di Aristotele: il De Philosophia e il Protreptico. Scritti in forma dialogica, fanno parte di quella produzione giovanile che ci permette – nonostante le limitazioni dovute alla scarsità dei frammenti superstiti – di seguire al meglio l’evoluzione dottrinale del filosofo e di stabilire l’esistenza o meno di un periodo di adesione al platonismo nella vita di Aristotele.

1. De Philosophia

1.1. La datazione

A causa dell’esiguo numero di frammenti giunti fino a noi e dell’incertezza sulle informazioni cronologiche, è molto difficile collocare con esattezza quali opere giovanili appartengono al periodo successivo ai due trattati Sulle Idee e Sul Bene.

Tuttavia, avendo come riferimento questi scritti e confrontando le loro dottrine con quelle dell’ultima produzione platonica, - di cui spesso ci sono richiami -, è possibile arrivare ad una approssimativa data di composizione.

Per quanto riguarda specificatamente il De philosophia, due sono le ipotesi più significative circa la datazione dell’opera. L’una è stata avanzata da Jaeger e accettata, per esempio, in parte da Unterstainer, l’altra è stata proposta da Theiler, trovando in seguito il supporto degli studi compiuti da Bignone, Nuyens, P. Moraux, Düring, Berti.

Secondo Jaeger, il dialogo, - rifiutando la dottrina delle idee separate e delle idee-numeri ed essendo su questo punto parallelo al I libro della Metafisica -, sarebbe posteriore alla morte di Platone, - a cui Aristotele alluderebbe nel fr. 6 -, e sarebbe stato composto quindi durante il soggiorno di Aristotele ad Asso (348/47 - 345/44 a.C.). Lo studioso, infatti, non ha ritenuto possibile che il filosofo avesse criticato una fondamentale teoria del maestro, quando questi era ancora in vita. Questa ipotesi è stata applicata da Jaeger anche ai due trattati Sulle Idee e Sul Bene, usualmente datati tra il 357/356 e il 355 a.C.

Prima del lavoro di Jaeger, invece, il Sulla Filosofia era generalmente considerato anteriore alla morte di Platone. A questa posizione si sono rifatti gli studiosi, - a cui si deve la seconda ipotesi sulla probabile datazione dello scritto aristotelico -, secondo i quali esso risalirebbe all’ultimo periodo della vita di Platone e sarebbe precedente anche ad un altro dialogo giovanile aristotelico, il Protreptico.

Tentare di stabilire il più correttamente possibile la data del De philosophia è di un’importanza notevole, dal momento che essa segna un certo significativo distacco da parte di Aristotele da alcuni aspetti della filosofia platonica. Egli, infatti, non solo riprende la critica della dottrina delle idee, ma espone una complessa concezione intorno al sapere, alla cosmologia, alla teologia e all’anima, che già rispecchia il grado di profondità raggiunto dal filosofo nella speculazione, ormai distante dal platonismo.

Tuttavia, esistono alcuni punti di contatto tra alcune teorie del Sulla Filosofia, - specialmente quelle del III libro, che contiene la prima "teologia" aristotelica -, ed alcune dell’ultimo Platone. In particolar modo questo scritto è stato generalmente confrontato con il Timeo, - composto dopo il 360 a.C., forse tra il 358-57 -, da alcuni considerato la probabile fonte o punto di partenza sia del De philosophia stesso, sia degli ultimi libri delle Leggi.

Il Timeo aveva sviluppato l’idea che il mondo sensibile fosse penetrato dall’ordine, dalla misura e dalla proporzione. Questa introduzione del numero e della misura avevano permesso una valorizzazione del mondo sensibile nel pensiero di Platone, cambiandone la visione ed attenuando quel pessimismo riscontrabile nel Fedone o in altri dialoghi della maturità.

Aristotele terrà conto di queste concezioni e di quelle analoghe del Filebo e nel De philosophia semplificherà la costruzione platonica, cercando di attenuare il contrasto tra il modello e la copia, estendendo al mondo sensibile ad esempio la prerogativa di quello ideale: l’eternità.

Da ciò si può congetturare, quindi, che il De Philosophia, denotando qualche richiamo al Timeo, sia stato scritto qualche tempo dopo quest’ultimo, probabilmente nel 355 o nel 354 a.C. A conferma di tale tesi, inoltre, si dovrebbe ricordare che la distanza tra il De Philosophia e Sul Bene non dovette essere molta, se ambedue presero spunto da teorie del Filebo e del Timeo e se il II libro del De Philosophia presuppone il trattato Sul Bene, riassumendolo e criticandolo.

1. 2. Il contenuto

Dopo aver concluso con gli studi superiori l’avviamento alla dialettica, in un primo tempo, - ossia con i dialoghi Sulle Idee e Sul Bene, che hanno il carattere di opere interne all’Accademia -, Aristotele approfondì i problemi riguardanti le idee e i principi supremi della realtà, nel modo in cui erano stati posti dal platonismo. In seguito ritenne necessario rendere nota, mediante la pubblicazione del dialogo De Philosophia, la sua posizione circa la sofia in generale ed i principi supremi che ne formano l’oggetto, criticando prima alcuni punti del platonismo e sviluppandone poi lo spunto per lui più fecondo, la trascendenza del divino.

L’opera è divisa in tre libri: nel primo Aristotele, attraverso una rassegna storica, ha enucleato il concetto di filosofia come conoscenza dei principi supremi della realtà; nel secondo ha criticato la dottrina delle idee e delle idee-numeri; nel terzo, infine, ha presentato la sua teologia e cosmogonia, introducendo molte novità rispetto al problema della trascendenza, vista non nel mondo delle idee, bensì nella "... prima e somma divinità (...)" (De Phil., fr. 1 Ross).

Dal momento che proprio i frammenti conservati del III libro contengono dottrine specifiche e nuove rispetto alla precedente produzione aristotelica, l’attenzione sarà rivolta su questi e in particolar modo su quelli riguardanti la nozione di anima.

Il fr. 26, riportato da Cicerone nel I libro del suo De natura deorum, è l’unico che si riferisca esplicitamente al III libro del De Philosophia. Senza entrare nell’ambito delle questioni che il brano ha posto, è necessario sottolineare come questo testo indichi chiaramente l’oggetto proprio III libro del De philosophia, attestando come in esso Aristotele si occupasse del problema del divino.

Nel testo si afferma che: "Aristotele nel terzo libro della sua opera Della filosofia molte cose confonde dissentendo dal suo maestro Platone. Ora infatti attribuisce tutta la divinità ad una mente, ora dice che il mondo stesso è dio, ora prepone al mondo un altro essere e gli affida il compito di reggere e governare il moto del mondo per mezzo di certe rivoluzioni e ritorni all’indietro, talora dice che dio è l’etere (il calore del cielo), non comprendendo che il cielo è una parte di quel mondo che altrove ha designato come dio (...)" (De Phil., fr. 26 Ross).

Stando alle affermazioni di Cicerone sembra che Aristotele trattasse in modo molto complesso il problema del divino, al punto da far supporre che tale argomento fosse presente nell’intero libro.

Questo frammento, come pure altri, pur trattando dell’esistenza di dio, non ne offre una vera e propria dimostrazione razionale. Tale dimostrazione si trova nel già citato fr. 16, costituito dal commento di Simplicio ad un brano del De caelo, in cui Aristotele espone sinteticamente una prova dell’immutabilità di dio.

In questo testo la dimostrazione dell’esistenza di dio come ottimo, - secondo Jaeger identica a quella denominata argumentum ex gradibus nei pensatori della Scolastica -, è condotta al fine di provare l’immutabilità di dio.

La dimostrazione secondo cui dio è ottimo costituisce, infatti, la premessa di quella secondo cui dio è immutabile. Se effettivamente la causa e il fine del mutamento è sempre il migliore, l’ottimo sarà sempre causa prima e fine ultimo di ogni mutamento degli altri enti, restando esso immutabile poiché perfetto.

Pur essendo questo argomento analogo a quello contenuto nella Repubblica di Platone (380 d - 381 c), come ricorda lo stesso Simplicio, c’è chi, come Berti, vede nel fr. 16 "contenuta implicitamente la famosa dottrina aristotelica del motore immobile, che muove tutte le cose come causa finale". Egli, inoltre, crede che tale concezione sia presente, - assieme a quella di un dio cosmico, cioè il mondo stesso e in particolar modo, come si vedrà, la parte eterea di esso -, nel già esaminato fr. 26.

Di causa finale e della natura come fine tratta anche il fr. 28, desunto dalla Fisica aristotelica, che ben si ricollega al tema del precedente testo.

Da queste testimonianze e dal fr. 17 si può affermare che nel De Philosophia, la dimostrazione dell’esistenza di dio è condotta maggiormente attraverso prove di tipo teleologico e che dio è concepito come causa finale del cosmo. Respingendo, quindi, per questo aspetto la compagnia del Timeo platonico, ove il mondo è costruito dal demiurgo secondo il modello ideale, qui Aristotele sembra caratterizzare un dio "demiurgo" autore dell’ordine, non tanto come creatore, ma quanto come fine.

Che il dio inteso come puro pensiero, motore immobile e causa finale del cosmo, sia il vero concetto di dio del giovane Aristotele, è confermato, secondo Berti, dall’unico frammento conservato di un’altra opera giovanile, intitolata Sulla preghiera. Alle fine di esso, infatti, scrive Simplicio, Aristotele avrebbe concluso "che il dio o è intelligenza o qualcosa al di là dell’intelligenza" ( Sulla Preghiera, fr. 1 Ross).

Conseguenza della tesi secondo la quale dio sarebbe autore dell’ordine cosmico, come espressione della sua perfezione, è la dottrina dell’eternità del mondo, presente in più frammenti, presumibilmente appartenenti al III libro del De philosophia. I più importanti sono riportati da Filone nella sua opera De aeternitate mundi, dove, dopo aver esposto la dottrina stoica delle conflagrazioni cosmiche, contrappone la tesi aristotelica.

"Aristotele, devotamente e piamente opponendosi, diceva che l’universo è ingenerato e incorruttibile e accusava di terribile ateismo coloro che ritenevano il contrario e pensavano invece che non differisce in nulla da un manufatto questo dio visibile, questo universo divino che veramente abbraccia il sole, la luna e ogni altro pianeta e ogni altra stella fissa (...)". (De Phil., fr. 1 Ross)

Da questo brano traspare una certa intonazione religiosa con cui il filosofo sostiene l’eternità del mondo. Questa, infatti, è ammessa per non accomunare l’ordine dell’universo ad un qualsiasi manufatto umano. Il cosmo, così, nel suo ordine è rivelatore dell’esistenza della divinità ed è talmente perfetto da essere considerato anch’esso in un certo senso divino. L’affermazione dell’eternità del mondo, tuttavia, non muta il carattere di subordinazione del mondo a dio, che anzi è necessaria poiché il mondo è manifestazione della divinità.

La teoria dell’eternità del mondo, - che si ritrova nella Fisica insieme alle tesi sul geocentrismo e sulla finitezza dello spazio, cardini fondamentali della concezione aristotelica dell’universo -, segna una novità rispetto al platonismo. Nel Timeo, infatti, Platone aveva affermato che tutto il cosmo non è stato sempre, ma è stato creato, cominciando da un principio, per opera di un artefice o Demiurgo, che lo ha formato a imitazione del modello eterno.

Secondo Jaeger la dottrina esposta nel De Philosophia è in netto contrasto con quella di Platone ed è la prova della rottura di Aristotele dal maestro. A tal proposito si dovrebbe notare, tuttavia, che nel testo sopra riportato le critiche aristoteliche non sembrano riferirsi con certezza a Platone, anzi probabilmente, come crede lo stesso Jaeger, sono rivolte agli atomisti. Inoltre, Platone nel Timeo al passo 37 d non affermò mai che il mondo dovesse perire; anzi nell’opera si legge che esso fu generato cercando di renderlo eterno come il modello ideale. In base a quest’ultima concezione, Bignone crede di poter affermare che Aristotele dovesse sentirsi vero interprete, e non critico, della dottrina di Platone, poiché insistendo sull’eternità del mondo, egli attestava il grande valore della tesi platonica della divinità del cosmo ordinato, sebbene giustificata diversamente dalla dottrina delle idee.

La tesi dell’eternità del mondo è attribuita ad Aristotele anche da Cicerone nel fr. 20 Ross del De Philosophia, dove si legge: "e una volta che questo tuo sapiente stoico ti avrà esposto punto per punto queste dottrine, verrà Aristotele, e fondendo l’aureo fiume della sua eloquenza, e ti dirà che quello è un insensato: giacché il mondo non ha mai avuto origine, poiché non vi è stato alcun inizio, per il sopravvenire di una nuova decisione, di un’opera così eccellente (...)".

Poiché qui Aristotele sembra proporre anche un argomento contro la generazione del mondo, "si potrebbe credere di essere di fronte al più netto contrasto con la dottrina di Platone, invece ancora una volta si deve constatare una profonda dipendenza dello scolaro dagli insegnamenti del maestro. La ragione per cui Aristotele esclude che il mondo abbia avuto un inizio temporale è infatti l’impossibilità che un’opera così perfetta dipenda da un disegno concepito ad un certo momento e dunque non eterno. È questo il medesimo discorso fatto da Platone nel Timeo (29 a), dove si afferma che il mondo, essendo così bello, deve necessariamente avere per modello una realtà eterna, ossia il mondo ideale". ( E. Berti, p. 363). Le due dottrine, quindi, sembrerebbero avere uno stesso fondamento, ossia quel convincimento platonico che la perfezione è propria dell’eterno: la sola differenza consisterebbe, quindi, nel rigetto da parte di Aristotele delle idee separate.

Strettamente collegata alle tesi sul divino e sull’eternità del mondo è la concezione della divinità degli astri. Di questa abbiamo testimonianza da Cicerone, il quale attesta quanto segue: "Le stelle poi occupano la zona eterea. E poiché questa è la più sottile di tutte ed è sempre in movimento e sempre mantiene la sua forza vitale, è necessario che quell’essere vivente che vi nasca sia di prontissima sensibilità e di prontissimo movimento. Per la qual cosa, dal momento che sono gli astri a nascere nell’etere, è logico che in essi siano insite sensibilità e intelligenza. Dal che risulta che gli astri devono essere ritenuti nel numero delle divinità (...)". (De Phil., fr 21 Ross)

Dal testo emerge chiaramente l’animazione degli astri, i quali, essendo esseri animati posseggono la conoscenza, sia sensibile che intellettiva, ed il movimento. Essi, inoltre, vengono detti divini, poiché hanno le facoltà proprie degli esseri animati in un grado superiore. Queste tesi erano già state enunciate da Platone nel Timeo (38 e; 40 b), ma nel Peri Philosophia troviamo una prova della divinità degli astri assente dall’opera platonica. Aristotele, infatti, qui inserisce un nuovo elemento, l’etere, distinto dai quattro tradizionali, - terra, acqua, aria e fuoco -, più sottile e più mobile di tutti ed adatto più di ogni altro alla generazione degli esseri animati.

L’etere non sembra essere presente in nessuno dei dialoghi sicuramente platonici, fatta eccezione per un passo dell’Epinomide (981 c) sulla cui autenticità, però, ci sono forti dubbi. Nello stesso Timeo, inoltre, al passo 40 a dove vi è un elenco delle specie degli esseri viventi, si afferma che gli astri sono formati di fuoco. C’è chi, tuttavia, scorge nel passo 55 c di quest’opera un accenno alla dottrina dell’etere, dal momento che Platone afferma: "essendoci ancora una sola e quinta combinazione, di essa si servì dio per l’universo quando ne fece il disegno finale".

In ogni modo, la dottrina di un quinto elemento più divino, di cui è formata la regione celeste, eterna e incorruttibile, non soggetta al divenire, caratterizzerà anche le teorie fisiche della maturità sugli elementi della realtà naturale.

Dall’inserimento di questo nuovo elemento, l’etere, non soggetto a generazione e corruzione, deriva l’incorruttibilità dei corpi celesti stessi.

Questi, nella seconda parte del fr. 21, vengono caratterizzati per il movimento volontario, fattore che maggiormente contribuisce a sottolinearne la divinità.

Divinità che Aristotele ribadisce, - come attesta Nemesio nel medesimo fr. 21 -, anche attraverso l’attribuzione agli astri del moto circolare. Essendo, infatti, questo movimento perfetto, poiché il suo inizio coincide con la sua fine, esso potrà caratterizzare solamente i corpi celesti.

I restanti frammenti riguardano la concezione dell’anima.

Un insieme di testimonianze, riportate per lo più da Cicerone e raccolte nel fr. 27, attribuisce al filosofo una particolare dottrina dell’anima, che ha causato notevoli difficoltà agli studiosi.

In una di esse si legge: "Aristotele (...) dopo aver considerato quei quattro ormai noti generi di principi, dai quali tutto ha origine, ritiene che vi sia una certa quinta natura, dalla quale deriva l’intelligenza (quintam quandam naturam..., e qua sit mens); pensare, infatti, e prevedere e imparare e insegnare e scoprire qualcosa e così via numerose altre cose, ricordarsi, amare e odiare, desiderare e temere, soffrire e godere: tutte queste cose e altre a queste simili egli ritiene che non possano essere insite in alcuno di quei quattro generi; aggiunge quindi un quinto genere privo di nome e così con nuovo nome chiama lo stesso animo endelecheia quasi fosse un certo movimento continuato e perenne (quintum genus adhibet vacans nomine et sic ipsum animum endelecheian appellat novo nomine quasi quandam continuatam motionem et perennem)". ( De Phil., fr. 27 Ross)

Dal testo qui riportato risulta che Aristotele, ritenendo che le attività psichiche non potessero avere come principio i quattro elementi tradizionali a causa del loro carattere materiale, inserì una quinta quandam natura, che sarebbe stata propria dell’anima. Questa particolare natura sarebbe stata priva di nome, mentre l’anima sarebbe stata denominata con un nuovo termine, endelecheia, che, a detta di Cicerone, avrebbe significato un movimento continuato e perenne.

In un altro passo Cicerone sembra considerare la possibilità che l’anima sia "quella quinta natura non nominata, piuttosto che non compresa" (De Phil., fr. 27 Ross). In un terzo passo troviamo quanto segue: "se poi vi è una certa quinta natura, per la prima volta introdotta da Aristotele, questa è propria degli dei e delle anime. (...) Nessuna origine delle anime può essere rinvenuta nella terra. (...) E così qualsiasi è la cosa che sente, conosce, vive e vegeta, è necessario che essa sia celeste e divina e perciò stesso eterna. Né invero la stessa divinità, quale è intesa da noi, può essere intesa in altro modo se non come una certa mente separata e libera, distaccata da ogni commistura mortale, che tutto sente e muove, essa stessa fornita di un moto sempiterno. Di questo genere e di questa natura è l’intelligenza umana" ( De Phil., fr. 27 Ross).

Rispetto al precedente frammento questo testo introduce l’identificazione della natura divina con la natura della mente umana, affermando che essa è dotata di movimento eterno.

Le testimonianze qui riportate attribuiscono ad Aristotele una dottrina secondo cui l’anima possiede una particolare natura, diversa dai quattro elementi materiali, per cui sarebbe dotata di un movimento continuo, che ne giustificherebbe la denominazione di endelecheia.

La parola endelecheia, che deriva da en (uno) e delechos (lunghezza, sostantivo poi eliminato da mekos), significa appunto continuità, perpetuità.

Questa dottrina dell’endelecheia da alcuni critici è stata paragonata e messa in contrasto con quella natura dell’entelécheia (forma, atto del corpo), presente nel De Anima. Lo Heitz si convinse, ad esempio, che Cicerone fraintese il concetto di entelécheia, mutandolo in quello di endelecheia. Lo studioso, quindi, erroneamente corresse il testo ciceroniano in entelécheia, condannando come non esatta la testimonianza dello scrittore latino.

Fu il Bignone, in seguito, a rimettere ordine nella questione e a dimostrare che le testimonianze di Cicerone dovessero essere considerate veramente dottrine appartenenti al De Philosophia, essenzialmente diverse da quelle esposte nel De Anima. Lo studioso, infatti, si disse sicuro che Cicerone nei capitoli delle Tusculane, dove è presente la dottrina dell’anima endelecheia, seguisse fedelmente l’Aristotele delle opere pubblicate, di cui, per suo tramite, è possibile ricostruirne un’importante parte.

Studiando il concetto di endelecheia, Bignone mise in luce il carattere platonico-accademico dell’anima quinta natura come ciò che si muove da sé e che è principio di moto continuo e perenne. Egli ha ricordato, infatti, che la teoria dell’anima come "ciò che si muove da sé" (autokineton) o come "ciò che è sempre in movimento" (aeikineton) era già presente nel Fedro di Platone (245 c 6 sgg.), come prova della immortalità dell’anima stessa. A conferma del fatto che tale dottrina fosse professata dall’Accademia, Bignone ha ricordato Senocrate, il quale definiva l’anima come "il numero che muove se stesso" ( Senocrate, fr. 60).

"L’anima dunque – secondo lo studioso - è, per il primo Aristotele, immortale, per la sua endelecheia, per la sua stessa essenza che è la continuità. L’endelecheia basta per ciò come predicato all’anima, anche senza l’eterno moto, per determinare la suprema essenza".

La designazione della quinta natura come vacans nomine trova riscontro, secondo Bignone, in Epicuro, il quale, per una probabile influenza aristotelica, inserì nella costituzione dell’anima un elemento akatonomaston, cioè appunto senza nome. Questa testimonianza epicurea è per noi molto importante perché prova che Cicerone con l’espressione vacans nomine traduce il termine greco akatonomastos, avendo quindi in mente il preciso testo greco di Aristotele. Tale termine greco, d’altronde, è presente anche nella testimonianza di Clemente Romano, inserita nel fr. 27. E’ significativo che mentre di questa dottrina aristotelica troviamo un palese riflesso in Epicuro, della dottrina dell’anima propria del periodo di scuola non si trovi alcun riferimento, neppure polemico. Ciò conferma, nuovamente, che per lungo tempo di Aristotele si conobbero solo le opere essoteriche, e che Epicuro avversò appunto queste opere, le sole che ebbe modo di leggere.

Concludendo la sua ricerca sull’anima quinta natura, Bignone sottolinea nuovamente come la dottrina dell’endelecheia del primo Aristotele non ha nulla a che fare con quella della maturo Aristotele dell’anima entelécheia, e deriva da quella platonico-accademica dell’anima come autokineton. Il concetto dell’anima endelecheia, abbandonato da Aristotele stesso in quanto designava continuità di esistenza, verrà soppiantato da quello di entelécheia, quale forma e atto del corpo organico, in accordo con la dottrina matura dell’anima, che non può sopravvivere alla dissoluzione del corpo nella morte. L’anima entelécheia, infatti, non può far parte che di un solo corpo, del suo corpo, e non passare di corpo in corpo.

Un contributo alla comprensione della nuova dottrina esposta nel De philosophia fu in seguito offerto dagli studi di S. Mariotti. L’accostamento dell’anima agli astri ("quintum genus, e quo essent astra mentesque ..."), - presente in un’altra testimonianza di Cicerone, il fr. 27 Ross del De Phil.-, aveva fatto pensare che il quinto genere, di cui l’anima è costituita, fosse l’etere, già nominato in altri frammenti ed introdotto come elemento del cielo e degli astri.

Poiché l’etere è di natura materiale, anche se particolarissima, l’anima, qualora sia composta di questo elemento, sarebbe materiale.

L’identificazione dell’anima con l’etere avrebbe così comportato notevoli difficoltà, segnando una fase materialista nell’evoluzione della psicologia di Aristotele, che sarebbe in contrasto non solo con la sua filosofia della maturità, ma anche con quella delle opere giovanili, in particolare con quella dell’Eudemo dove l’anima è detta eidos ti, forma semplice. Tale incongruenza fu evidenziata, appunto, dal Mariotti, il quale credette di poter dimostrare che i passi che accennano alla quinta natura propria dell’anima e quelli che si riferiscono all’etere quinto elemento espongono due differenti dottrine. Secondo lo studioso, infatti, le due dottrine sono diverse e facilmente distinguibili: "da un lato la quinta natura vacans nomine, introdotta soltanto per giustificare i fenomeni spirituali (v. fr. 27), dall’altro il quinto elemento aither (etere), sostanza eterna del cielo e dei corpi celesti (v. frr. 21 e 26)".

I due gruppi di testimonianze sarebbero segno, così, non solo di una diversa designazione dell’elemento, detto akatonomaston nel primo gruppo e aither nel secondo, ma anche di un’essenziale differenza dottrinale.

L’akatonomaston e l’etere sarebbero, a parere di Mariotti, due differenti formulazioni della dottrina della pempte ousia (quinta essenza), presente già nell’Accademia negli ultimi anni di vita di Platone. Esse "debbono rispecchiare due momenti diversi dell’evoluzione di Aristotele nei confronti della quinta essentia". ( S. Mariotti) Egli, così, conclude che possa appartenere al De Philosophia solo la dottrina dell’etere e che le testimonianze sull’anima endelecheia e akatonomaston si riferiscano molto probabilmente all’Eudemo, ritenendo quest’opera anteriore al De philosophia, in base alla datazione dello Jaeger.

A tale interpretazione si oppose Berti, sottolineando l’attendibilità delle testimonianze di Cicerone e ritenendo le espressioni quintum genus e quinta natura riferimenti all’etere: "ha senso parlare di un quinto solo nell’ambito di un genere unico che comprenda altre quattro specie, ossia i quattro elementi tradizionali". L’etere deve essere quindi inteso come un principio materiale. Poiché l’anima non può essere un principio materiale, Berti crede che l’identificazione di anima ed etere, attribuita ad Aristotele, sia una deviazione di alcuni elementi già visti del Timeo platonico e che la dottrina della quinta essenza non sia genuinamente aristotelica.

Un testo fondamentale ancor oggi per la completezza e la vastità dei riferimenti è lo studio condotto sulla quinta essentia da P. Moraux, apparso nel 1963 nella famosa Pauly-Wissowa.

Già nella prima pagina del suo testo, Moraux, - dopo aver ricordato come Aristotele presenti la dottrina della pempte ousia come propria -, affronta subito il problema dell’interpretazione materialistica della psicologia, che deriverebbe dall’identificazione della sostanza dell’anima con l’etere. Egli crede poco probabile l’attribuzione ad Aristotele di una simile psicologia materialistica, sottolineando come "negli ultimi anni si è pensato, sulla base di informazioni antiche poco affidabili, di poter trovare quest’identità (tra sostanza dell’anima ed etere) già nei dialoghi giovanili di Aristotele, oggi andati perduti". Egli, infatti, ritiene quest’identità della sostanza dell’anima con la sostanza celeste uno sviluppo della dottrina della quinta essenza avutosi subito dopo Aristotele.

"La speculazione ellenistica sull’origine divino-celeste dell’anima e sul suo ritorno agli dei astrali dopo la morte, con la particolare miscela di elementi platonici, stoici e popolari, sembra aver influenzato gli antichi scrittori e storiografi, spingendoli ad attribuire ad Aristotele una forma posteriore della dottrina della quinta essenza". Lo studioso, inoltre, rammenta come molti peripatetici, avvicinandosi al materialismo stoico, considerassero l’anima un corpo etereo. Chi esamina, invece, lo sviluppo della dottrina del nous in tutto il Corpus aristotelico si rende conto che il carattere immateriale delle operazioni psicologiche non viene mai messo in dubbio. Lo Stagirita ha basato, infatti, la sua noetica sempre sull’immaterialità del pensiero, pur ammettendo relazioni tra il pensiero e le altre attività dell’anima condizionata dal corpo. Ritenendo possibile l’esistenza di una fase materialistica nella psicologia aristotelica, si negherebbe conseguentemente il presupposto fondamentale in Aristotele dell’immaterialità del pensiero. Moraux, quindi, in base a tutti questi elementi ha sostenuto l’impossibilità di un’identificazione delle sostanze dell’anima con l’etere, sostanza celeste.

Dopo aver esaminato le teorie di Feracide di Siro, dei pitagorici in generale e di Filolao in particolare, secondo alcuni studiosi precursori della dottrina della quinta essenza, egli esamina il passo 53 e sgg. del Timeo, su cui la speculazione posteriore si è basata per dichiarare Platone stesso fondatore di questa teoria. Secondo Timeo 53 e sgg. le molecole dei quattro elementi tradizionali hanno le forme dei quattro poliedri regolari: il fuoco ha la forma del tetraedro, l’aria quella dell’ottaedro, l’acqua quella dell’icosaedro e la terra quella del cubo. Del restante poliedro regolare, il dodecaedro, al passo 55 c 6 si dice che il dio se ne servì per decorare l’universo. Platone nel Timeo si era avvalso degli sviluppi della stereometria, - della cui condizione deplorevole in Rep. VII, 528 a-d si lamentava -, e della prova definitiva, fornita dal matematico Teeteto (415-369 a.C.), sull’esistenza di soli cinque poliedri regolari. Proprio la tarda datazione di questa scoperta potrebbe essere una prova, secondo Moraux, del fatto che i pitagorici erano impossibilitati a formulare una dottrina del quinto elemento. Egli concede tutt’al più che "se la dottrina dei cinque elementi risale ai primi pitagorici, si è sviluppata del tutto indipendentemente da ogni riflessione matematica" .

Poiché sembra che Platone non si riferisca alla formazione delle molecole di un eventuale quinto corpo e che egli poco prima abbia nominato solo i quattro elementi tradizionali, Moraux non è d’accordo con quei studiosi che vogliono vedere nel brano del Timeo un insegnamento sul quinto elemento. Egli se mai concede che Platone possa aver indicato la strada verso questa dottrina, ma non averla percorsa interamente. Solo nell’Epinomide, infatti, scritto da Filippo di Opunte, l’etere, che non era noto a Platone come elemento a se stante ( nel Timeo, al passo 58 d, Platone afferma che, come del fuoco, ci sono numerose specie anche dell’aria, di cui la parte più pura è chiamata "etere"), diventa un quinto elemento, ripristinando, come appare al passo 981 b, la corrispondenza tra gli elementi naturali e i poliedri.

Il fatto che nell’Epinomide vi sia un quinto elemento prova, secondo Moraux, che nell’Accademia vi fossero innumerevoli discussioni su tale questione. Egli, quindi, non ritiene opportuno considerare il De Philosophia come il primo testo in cui sia presente la dottrina del quinto elemento, non considerando molto probabile, inoltre, che qui Aristotele abbia definito l’etere come pempton soma (quinto elemento).

Lo studioso, quindi, prosegue il suo lavoro esaminando la natura dell’etere negli scritti del Corpus aristotelico che ci sono giunti, per poi farne una trattazione in quelli perduti, in modo specifico nel De Philosophia.

Egli innanzitutto afferma che "gli sforzi dei commentatori antichi, che volevano ricostruire da queste osservazioni sparse una teoria sistematica, sono partiti dal presupposto sbagliato che Aristotele avesse concepito una dottrina organica della quinta essentia". Moraux sostiene, infatti, che Aristotele abbia sostenuto nei dialoghi andati perduti una forma del tutto diversa della quinta essenza rispetto a ciò che apprendiamo dalle opere tramandateci.

Mentre nel De caelo, infatti, Aristotele ha dedotto l’esistenza di un primo corpo, dell’etere, considerandolo la materia degli astri o delle sfere astrali, nel De philosophia sembra aver parlato di una quinta natura, raffrontata ai quattro elementi tradizionali, come sostanza dell’anima o della ragione. Tuttavia, l’espressione caeli ardor, traduzione latina di aither, presente nel fr. 26 del De philosophia stesso, mostra come già qui si parlasse di una sostanza degli astri, - l’etere -, che Aristotele considerava dio o almeno divina, più o meno come egli dirà più tardi nel De caelo. Poiché, però, dal fr. 21 risulterebbe che il movimento degli astri sia volontario, il caeli ardor, o etere, del quale sono composti gli astri, sarebbe allora una specie di sostanza spirituale o dell’anima con una divina capacità di percezione ("caeli divinus ille sensus"). Nel De caelo, infatti, Aristotele, modificando la sua concezione precedente, considererà l’etere la causa del movimento degli astri, negando ad esso i fenomeni di coscienza dell’anima.

Egli, inoltre, non crede possibile trovare nelle testimonianze ciceroniane la benché minima prova che l’etere sia una sostanza spirituale o una sostanza dell’anima, poiché non viene mai detto che quel divinus ille sensus degli astri sia riconducibile all’etere. Moraux, quindi, conclude affermando che nel De Philosophia "è altamente probabile che l’etere non era concepito come sostanza dell’anima, bensì come un elemento molto sottile e mobile, che causava proprio grazie alla sua sottigliezza e mobilità l’alta intelligenza degli esseri viventi, cioè degli astri, che hanno origine in esso".

Egli, infine, sottolineando l’eterogeneità della dottrina sulla sostanza dell’anima e di quella sull’etere, esclude che le nuove posizioni nel campo psicologico e in quello fisico si trovino in uno stesso dialogo. "Poiché la dottrina dell’etere viene riferita esplicitamente al De philosophia, si può presumere che la dottrina psicologica dell’akatonomaston era riferita nel dialogo Eudemo".

Moraux in questo modo concorda su questo punto con le tesi del Mariotti, già delineate, ricordando anche che i dossografi e le fonti più tarde spesso hanno scambiato le due dottrine l’una con l’altra. I peripatetici tra Statone ed Andronico, prendendo spesso conoscenza dell’aristotelismo dalla tradizione piuttosto che dalle opere dello Stagirita, correvano il rischio di sostenere idee fortemente influenzate da concezioni contemporanee.

Le nuove forme, che la dottrina della quinta essenza assumeva sotto l’influsso della Stoa e del Neoplatonismo, venivano, così, spesso attribuite al fondatore della dottrina.

Unterstainer, ad esempio, concordando con le teorie di Luck, crede accettabile l’ipotesi secondo cui Cicerone abbia ricevuto la dottrina aristotelica attraverso il filtro di Antioco di Ascalonia, che a sua volta trasse determinati motivi da Posidonio.

Secondo lo studioso i risultati delle ricerche, quindi, sembrerebbero essere a sfavore della tesi dell’identità di sostanza dell’anima e corpo astrale negli scritti giovanili di Aristotele.

2. Protreptico

2.1. Ricostruzione del testo

Il Protreptico o Esortazione alla filosofia è stato il più letto ed apprezzato di tutti gli scritti pubblicati di Aristotele. La sua sorte, tuttavia, è stata alquanto singolare: pur essendo, infatti, una delle opere di cui si è conservato un minor numero di frammenti sicuri, la ricostruzione del suo testo ha avuto un’estensione maggiore degli altri scritti pubblicati.

Originariamente si disponeva solo dell’indicazione nei cataloghi di un’opera dal titolo Protreptico e di due testimonianze, rispettivamente di Zenone stoico, riportato da Stobeo, e di Alessandro d’Afrodisia. Decisiva fu a tal proposito l’ipotesi avanzata da Bywater nel 1869, che credette possibile trovare ampi brani del Protreptico aristotelico nell’omonimo libro di Giamblico, - in cui essi erano insieme a numerosi estratti da dialoghi platonici -, dal capitolo V al capitolo XII.

Le tesi di Bywater, che non si era reso conto della basilare scoperta fatta per un nuovo approccio alla ricostruzione dell’opera aristotelica, furono in seguito accolte pressoché nella loro interezza. Lo stesso Jaeger ha ritenuto derivante dal Protreptico aristotelico tutta la parte dello scritto di Giamblico considerata da Bywater, eccezioni fatta per il capitolo V e l’ultima parte del capitolo XII.

L’autenticità degli estratti di Giamblico sarebbe stata definitivamente acquisita, se il Rabinowitz non fosse intervenuto nel dibattito apportando teorie del tutto opposte a quelle ormai accettate dalla maggior parte degli studiosi. Egli, innanzitutto, ha eliminato la possibilità di utilizzare l’Hortensius ciceroniano, - di cui si era servito Bernays come opera modellata sul Protreptico aristotelico -, per ricostruire l’opera perduta dello Stagirita. Quindi ha fatto altrettanto con il Protreptico di Giamblico, mostrando l’originalità di questo autore nell’esposizione delle fonti e sottolineando come il capitolo VI della sua opera derivi da vari dialoghi platonici e dall’interpretazione di certe dottrine avanzate da Speusippo e da altri Accademici. Il risultato finale del suo studio, perciò, è stato l’impossibilità di poter effettuare una ricostruzione sufficientemente sicura del Protreptico aristotelico.

Düring, tuttavia, attraverso un’analisi metodologica, stilistica e linguistica, ha avversato l’ipotesi del Rabinowitz, ribadendo la possibilità di interpretare il Protreptico sulla base degli estratti di Giamblico. Questi, inoltre, ha insistito nell’affermare che tutti i testi rilevanti di Giamblico offrono l’impressione che questi non solo avesse diretto accesso al Protreptico di Aristotele, ma che egli avesse anche copiato verbatim tutti i passaggi direttamente dall’originale aristotelico. Düring ha verificato, infatti, che fra circa settecento termini particolarmente significativi usati da Giamblico nelle parti attribuite ad Aristotele, solo dodici non compaiono nell’Index aristotelicus del Bonitz.

2.2. La datazione

Il primo frammento del Protreptico è contenuto in un brano tratto Dall’epitome degli scritti di Telete, riportato da Stobeo, il quale riferisce una testimonianza di Zenone stoico, secondo la quale il cinico Cratete avrebbe letto nella bottega del calzolaio Filisco "il Protreptico che Aristotele indirizzò a Temisone, re di Cipro, in cui si diceva che nessuno altro più di lui si trovava ad avere un maggior numero di buone qualità per filosofare: possedeva infatti grandi ricchezze per poterne spendere in queste cose, e per di più godeva di ottima reputazione (...)" ( Protr., fr. 1 Ross).

Cercare di determinare il più possibile l’identità di Temisone, a cui appunto l’opera era dedicata, sarà di aiuto per collocare cronologicamente il Protreptico. Nel testo si legge semplicemente che questi era ton Kyprion Basilea (re dei Ciprioti); poiché poco prima del coinvolgimento di Cipro nella guerra contro i Persiani esistevano nell’isola nove grandi città, è probabile che Temisone regnasse su una di queste. Verosimilmente Aristotele entrò in contatto con Temisone, di cui forse divenne amico, tramite Eudemo, - a cui era dedicato l’omonimo dialogo -, suo amico originario di Cipro.

"In questo caso – scrive Berti -la composizione del Protreptico, dedicato o indirizzato a Temisone, dovette avvenire in un periodo non lontano da quello dell’amicizia fra Aristotele e Eudemo, quindi non molto tempo dopo la morte di Eudemo, accaduta nel 354".

Un’ulteriore ipotesi potrebbe essere che la relazione tra Aristotele e Temisone fosse iniziata in seguito ai contatti sia culturali che politici venutisi ad instaurare tra i prìncipi ciprioti ed Atene verso la metà del IV secolo a.C. Per quanto riguarda, infatti, l’aspetto culturale è noto che Isocrate scrisse tre opere esortative ai prìncipi di Salamina, in Cipro. Questa notizia e il fatto che anche Aristotele indirizzò la sua opera ad un principe di Cipro sono elementi da non sottovalutare. Si può dedurre, infatti, da ciò che Aristotele, riprendendo la polemica contro la scuola isocratea ed il suo programma, - iniziata con il Grillo e qui estremizzata -, volesse portare il pensiero accademico dove era penetrato quello isocrateo.

Per quanto riguarda, invece, l’aspetto politico, dobbiamo ricordare la guerra, sopra citata, in cui fra il 351 e il 350 a.C. Cipro fu coinvolta contro i Persiani. È probabile, quindi, che prima di tale conflitto le relazioni fra Atene e Cipro si fossero intensificate notevolmente.

In ogni modo la conseguenza di tali ipotesi è che il Protreptico verosimilmente fu composto verso il 351-350 a.C., quindi durante il periodo accademico di Aristotele.

Tale datazione, inoltre, trova conferma dal fatto che nel fr. 12 del Protreptico stesso, - come vedremo meglio in seguito -, pare sia contenuta una risposta di Aristotele all’Antidosis di Isocrate. Ciò offre, così, un termine post quem per la collocazione dello scritto aristotelico, ossia l’anno 353 a.C., in cui appunto fu composta l’Antidosis, o il 352, anno in cui l’opera dovette essere nota in tutti gli ambienti culturali di Atene. È probabile, quindi, che Aristotele abbia scritto la sua esortazione poco dopo, altrimenti la sua polemica antiisocratea avrebbe perso la sua efficacia. Anche in base a questa notizia, di nuovo, si arriva all’anno 351 a.C., come data probabile di composizione, confermando i risultati precedenti.

2.3. Il contenuto

Il Protreptico non è un dialogo, ma più propriamente un’esortazione alla filosofia. Esso è una proclamazione entusiastica dell’ideale platonico della vita filosofica, il bios theoretikos, quale valore supremo e guida orientatrice anche della vita pratica. Così, una serie di argomentazioni dimostrative mira a sostenere ed a giustificare questa tesi centrale.

Aristotele chiarisce questo concetto nel fr. 5, proponendosi di mostrare che la scienza, la fronesis, è il più grande dei beni. Questa tesi era già stata sostenuta da Platone e molto significativo è che qui Aristotele usi il termine fronesis per designare appunto il concetto di scienza, come aveva fatto il suo maestro.

Nella seconda parte di questo frammento lo Stagirita, volendo riportare la discussione sulla filosofia, introduce il termine sofia (sapienza, filosofia), che egli considera sinonimo ed aspetto teoretico di fronesis.

Con tono esortativo, quindi, il filosofo afferma che la sofia è fra i massimi beni e dunque non bisogna fuggirla se si desidera vivere bene e far seguire agli altri non le opinioni dei più ma il vero sapere. La scienza che ha per fine supremo la theoria, ossia la pura speculazione, inoltre, è scienza più di quelle che hanno per fine qualche altra cosa, ossia le scienze poietiche, perché ha come scopo lo stesso conoscere, ed è più desiderabile delle altre, perché ha come fine se stessa, mentre le altre hanno per fine qualcosa di diverso.

Anche il capitolo VII del Protreptico di Giamblico è dedicato alla dimostrazione del valore supremo della filosofia rispetto a tutte le altre attività umane, mettendo in rilievo che il filosofare è desiderabile per se stesso, che esso è utile alla vita e che rende felici. La dimostrazione ha inizio col fr. 6, il quale si avvia con una famosa divisione delle parti dell’uomo e dell’anima: "e inoltre una parte di noi è l’anima e una parte è il corpo, l’una comanda e l’altra è comandata, l’una si serve dell’altra e l’altra sottostà come uno strumento. E l’uso di ciò che è comandato e di ciò che è strumento è sempre disposto in relazione a ciò che comanda e ne fa uso. Nell’anima poi ciò che comanda e giudica per noi è la ragione, mentre il resto ubbidisce e per natura è comandato. (...) Dunque l’anima è migliore del corpo (infatti è più adatta al comando) e nell’anima quella parte che possiede la ragione e il pensiero (...)" (Protr., fr. 6 Ross).

Da questo brano emergono due nozioni fondamentali: la concezione strumentalistica dei rapporti tra anima e corpo e la bipartizione dell’anima.

Del primo punto si è occupato per primo Nuyens, evidenziando come alla netta opposizione fra anima e corpo presente dell’Eudemo si sia sostituita nel Protreptico una collaborazione fra questi elementi. Qui il corpo, infatti, non è più un impedimento, ma uno strumento per l’azione dell’anima. Tale concezione, a suo avviso, segnerebbe un passo avanti nell’evoluzione di Aristotele dal platonismo verso una propria filosofia, che per quanto riguarda la psicologia è stata caratterizzata nel De Anima da una concezione ileomorfica.

Questa teoria è stata in seguito criticata da vari studiosi, i quali hanno osservato che lo stesso Platone nella Repubblica, reputando l’anima parte egemonica, implicava una concezione strumentalistica dei suoi rapporti col corpo. Tutto questo potrebbe significare che l’opposizione fra anima e corpo stabilita nell’Eudemo – per usare un’affermazione di Berti - "può dipendere dall’intento consolatorio del dialogo, naturalmente rivolto ad accentuare la finalità ultraterrena dell’anima, e comunque non può implicare un’adesione speculativamente impegnata ad una concezione contrastante con quella esposta nel Protreptico e con quella dello stesso Platone".

Anche per quanto riguarda il secondo punto, cioè la bipartizione dell’anima, è possibile trovare dei precedenti in Platone.

Pur essendo l’anima tripartita in razionale (logistikon), animosa (thymoeides) e appetitiva (epithymetikon), come appare chiaramente in Repubblica, IV, 435 b sgg., in Fedro 246 a sgg. e in Timeo 69 c-71 a, vi è in Platone una certa tendenza a trasformare la divisione tripartita in quella bipartita, assumendo il thymoeides nell’epithymetikon. In Repubblica X, 608 d sgg. egli distingue la parte razionale dalle altre due unite insieme, in virtù della sua immortalità, ed in Timeo 65 a, 72 d afferma che questa è la divisione più importante.

La bipartizione dell’anima, caratteristica del Protreptico, è stata comunque abbandonata e criticata nel De Anima, specificatamente al passo 432 a 24-26, opera di intento prettamente scientifico, assente nei dialoghi giovanili.

Proseguendo nel ragionamento, discutendo sulla virtù Aristotele sottolinea come l’anima sia migliore del corpo, - poiché è più capace di comandare -, e come la ragione, o il pensiero, sia la parte migliore dell’anima. Aristotele, quindi, stabilendo attraverso la distinzione fra le parti dell’uomo e dell’anima una gerarchia di valori, consistenti nelle virtù proprie delle singole parti, pone al suo vertice la virtù della parte razionale, ossia della fronesis. La supremazia della parte razionale dell’anima viene ribadita da Aristotele, anche se in un’altra ottica, anche nel fr. 10 c. Qui, infatti, si legge: "nulla vi è di divino o di beato per gli uomini, se non ciò che è solo degno di attenzione e di cura, e cioè quanto vi è in noi di intelligenza e di saggezza; solo questo di noi sembra infatti essere immortale e solo questo divino (...)".

Tale passo, in cui chiaramente si attribuisce l’immortalità al solo nous, è stato utilizzato da alcuni studiosi, tra cui Berti, come prova del fatto che nelle opere perdute, e nell’Eudemo in particolare, Aristotele considerasse immortale non l’intera anima, ma solo la parte razionale di essa come nel trattato della maturità, il De Anima. Questo brano, infatti, costituirebbe un riscontro di alcune affermazioni sul nous che nell’Eudemo si trovano,- come si è già avuto modo di sottolineare -, esclusivamente in un frammento, il fr. 2. Secondo tale testimonianza gli argomenti più degni di credito intorno all’immortalità dell’anima in Aristotele potrebbero adattarsi facilmente alla sola mente. Di diverso avviso è lo Jaeger, che crede che l’immortalità sostenuta nell’Eudemo sia da riferirsi all’intera anima. Tuttavia, per quanto riguarda il Protreptico riconosce il maggior valore che viene dato al nous.

Circa l’affermazione secondo cui noi siamo soltanto la parte razionale dell’anima, - affermazione interpretata dal Nuyens come residuo della psicologia dualistica dell’Eudemo, coesistente ma irriducibile alla nuova psicologia strumentalistica del Protreptico -, si deve notare che Aristotele pone questa alternativa accanto a quella che noi siamo soprattutto, ma non solo, la parte razionale, senza decidersi per nessuna delle due.

Particolarmente interessante è l’osservazione fatta da Aristotele verso la fine del fr. 6, - dopo aver individuato l’ergon (opera) proprio dell’uomo nella conoscenza al più alto grado, nella theoria -, a proposito della parte conoscitiva dell’anima. Essa, sostiene il filosofo, può essere sia separata sia unita alle altre.

Su quest’affermazione si è basato Berti, - che considera il Protreptico come la sintesi della filosofia del primo Aristotele ed il programma di tutta la sua attività futura -, per dire che "con queste parole Aristotele mostra chiaramente che fra la psicologia dell’Eudemo, che considera la parte razionale dell’anima, cioè il nous, come sostanza autonoma, e la psicologia del De Anima, che considera l’anima forma del corpo, inseparabile da esso, non c’è contraddizione. Quella che nell’Eudemo è sostanza separata non è l’intera anima, ma solo la parte razionale, e quella che nel De Anima è inseparabile dal corpo non è la parte razionale, ma il resto dell’anima. Pertanto la parte razionale può stare sia separata che unita al resto dell’anima e, con questa, al corpo".

Ancora in un altro testo, il fr. 10 b, Aristotele affronta il rapporto fra anima e corpo, con un profondo pessimismo, che caratterizza anche il precedente brano, il fr. 10 a. Il filosofo, infatti, avendo terminato le argomentazioni razionali per dimostrare il valore della filosofia, conclude la sua esortazione mediante un richiamo all’esperienza vissuta di ogni uomo.

Se ben guardiamo, ricorda lo Stagirita, ci rendiamo conto che le cose ritenute grandi dagli uomini sono solo illusorie, o più letteralmente, sono solo un gioco d’ombre (skiagrafian).

"Onde opportunamente si dice che nulla è l’uomo e che nulla è saldo tra le cose umane". ( Protr., fr. 10 a Ross)

É in questo contesto che Aristotele riguardo all’unione dell’anima al corpo afferma: "noi siamo soggetti ad un supplizio analogo a quello di coloro che in altri tempi, quando cadevano nelle mani dei pirati Etruschi, erano uccisi con meditata crudeltà: i loro corpi ancora vivi erano infatti congiunti a cadaveri facendo combaciare con la massima esattezza possibile fronte a fronte le varie parti. Così le nostre anime sono riunite con i corpi, come i vivi sono congiunti con i morti". (Protr., fr. 10 b Ross)

Le considerazioni espresse in questi due testi sono state spesso interpretate come manifestazione di un profondo pessimismo. Soprattutto "il richiamo, quale paragone, alla tortura che i pirati etruschi infliggevano ai prigionieri (...) è di una espressività icastica orripilante. Platone non ha mai trovato un’immagine così efficace precisa e impressionante. La convinzione dell’immortalità e la sete dell’al di là è più bruciante ancora che nell’Eudemo; il pessimismo sulla vita terrena si è espresso in accenti e con immagini che sarà raro ritrovare nella storia dell’umanità". (G. Soleri)

Eppure, in altri casi, il riconoscimento della vanità e della fuggevolezza delle cose terrene e l’infelicità della condizione umana dovuta ai legami dell’anima col corpo sono stati interpretati come richiami all’insufficienza dei beni terreni in relazione alla felicità dell’uomo e in confronto con la grandezza e l’eternità dei valori cui mira la filosofia. Ancora una volta, quindi, la filosofia è intesa quale mezzo per una piena comprensione del mondo e quale massimo bene.

Il fr. 11 del Protreptico contiene delle nozioni che saranno decisive nel successivo pensiero aristotelico; vi è presente, infatti, in nuce la dottrina teleologica sulla natura. Qui Aristotele prosegue la dimostrazione del valore sommo della fronesis, mostrando come la tendenza che ciascuna cosa possiede è in virtù della natura. "Delle cose che sono generate, - si legge -, alcune sono generate da una certa intelligenza e arte, per esempio, la casa e la nave (la causa di entrambe è infatti un’arte determinata e l’intelligenza); altre sono generate non per arte alcuna ma per natura: degli esseri viventi e delle piante, infatti, la causa è la natura e per natura sono generate tutte le cose di tal specie; altre però sono generate anche per caso, e sono tutte quelle che non sono generate né per arte, né per natura, né da necessità, e tutte queste cose, molto numerose, noi diciamo che sono generate per caso (...)". ( Protr., fr. 11 Ross)

La tripartizione delle cause per cui si generano le cose ritorna costantemente nelle opere della maturità, ad es. nei passi VII, 7, 1032 a 12 e XII, 3, 1070 a 6 della Metafisica, ma, come sottolinea lo Jaeger, mai con tanta chiarezza ed energia come in questo luogo.

Se si continua ad andare avanti nell’esame di questo frammento, risulterà evidente innanzitutto l’esclusione di ogni finalità dal caso e per converso il ritrovamento di una finalità nell’arte. Proprio sulla presenza della finalità nell’arte, che Aristotele ritiene una nozione ormai già assunta, si basa la dimostrazione della finalità della natura. Le nozioni fondamentali in questo passo, dunque, sono essenzialmente l’imitazione della natura da parte dell’arte ed il finalismo della natura.

Come si è già ricordato nel precedente capitolo, un segno della presenza di questa nuova nozione in Aristotele si ha già nel De Philosophia, precisamente nel fr. 21 e soprattutto nel fr. 17. Qui i concetti di kata fysin (secondo natura) e para fysin (contro natura) equivalgono rispettivamente a quelli di kosmos (ordine) e akosmia (disordine), per cui la fysis è intesa come ordine razionale. Anche nel Protreptico ciò che è conforme a natura (to kata fysin) si genera in vista di un fine. La natura è allora la direzione, l’orientamento, verso un fine, l’ordine avente come suo principio un fine a cui tendere, l’organizzazione degli enti in vista del fine proprio.

Basandosi su ciò, Aristotele potrà ribadire il valore della fronesis, evidenziando come il fine naturale dell’uomo sia il fronein e mostrando nuovamente come tutto l’ordine naturale, organizzato secondo una successione gerarchica ascendente, sia regolato dalla razionalità.

Finora Aristotele ha mostrato che la filosofia è possibile, vantaggiosa e buona. Ora, secondo la consuetudine delle esortazioni, egli dimostra che essa è anche utile alla vita pratica e piacevole. A tale scopo è dedicato il resto del Protreptico.

Nel fr. 12, tuttavia, Aristotele pone una pregiudiziale, dichiarando che la filosofia, prima che utile, è buona, ossia vale per se stessa, il che conta più dell’utilità. "Ma il ricercare di ogni scienza un qualche risultato che sia diverso dalla scienza stessa e che questa scienza debba essere utile è proprio di chi assolutamente ignora la distanza che c’è, fin dall’origine, tra le cose buone e le necessarie: questa distanza è la maggiore possibile. Infatti alcune cose, senza le quali è impossibile vivere, le amiamo in vista di qualcosa di diverso da esse: e queste bisogna chiamarle necessarie e cause concomitanti; altre invece le amiamo per se stesse, anche se non ne consegua nulla di diverso, e queste dobbiamo chiamarle propriamente beni. Non è possibile infatti che una determinata cosa meriti di essere scelta in vista di un’altra, questa in vista di un’altra ancora e così proseguendo andare all’infinito: a un certo momento, invece, questo passaggio si ferma. Sarebbe quindi del tutto ridicolo cercare di ogni cosa un’utilità diversa dalla cosa stessa, e domandare: "che cosa ci è giovevole?", "che cosa ci è utile?". Giacché in verità, così ritengo, colui che ponesse queste domande non assomiglierebbe in nulla ad uno che conosce ciò che è bello e buono né ad uno che sa riconoscere che cosa è causa e che cosa è concomitante (...)". ( Protr., fr. 12 Ross) Il tono chiaramente polemico del passo fa supporre che Aristotele qui stia criticando una posizione ben definita, contro la quale difendere l’ideale di vita puramente teoretica. Quasi sicuramente tale posizione non può che essere quella di Isocrate e della sua scuola.

Nel Protreptico Aristotele, a differenza di quanto fatto nel Grillo, cerca di battere Isocrate non criticando il modello su cui si basa la retorica dell’avversario, ma mostrando il valore primario della filosofia, su cui poggia tutta la paideía platonica. E Isocrate nell’Antidosis, - scritto nel 353 a.C. -, aveva attaccato aspramente proprio questo valore. Egli nel testo aveva affermato che le discipline degli Accademici non hanno nulla di utile né agli affari privati né a quelli pubblici, e non giovano all’azione pratica. Questi, infatti, riponeva il valore del sapere nella sua sola utilità pratica.

La coincidenza fra questa posizione e quella attaccata da Aristotele nel fr. 12 del Protreptico è perfetta, per dubitare che qui egli si riferisca appunto al Isocrate.

In base alle ultime cose evidenziate ed al tono generale dell’opera, concludendo, si può ribadire che il Protreptico sottolinei la superiorità della teoresi sulla prassi e il valore autonomo della contemplazione speculativa, tesi fondamentale del pensiero aristotelico.

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