INTRODUZIONE



Siamo dell’idea che non si possa considerare Auschwitz semplicemente come un evento catastrofico tra i tanti che hanno punteggiato il corso della storia, uno tra i tanti che, dopo essersi drammaticamente verificati, sono stati - rapidamente o meno – digeriti: ciò che intendiamo sostenere è l’unicità di Auschwitz, concependolo come un fatto assolutamente unico in duemila anni di storia. Ma dobbiamo allora domandarci che cos’è che giustifica tale unicità e, per rispondere a tale quesito, ci rivolgeremo ai teologi, agli scrittori, agli storici e, da ultimo, ai filosofi. E’ evidente che per i teologi la presenza di un male così radicale come Auschwitz è assai ingombrante e imbarazzante; le domande che immediatamente, una dopo l’altra, si sollevano sono: dov’era Dio quando è accaduto quel male? Esso si è verificato come punizione inflitta da Dio stesso? O, piuttosto, quel male si giustifica all’interno del bene complessivo che impera nel mondo? Ma la teologia non è il solo ambito investito da un numero incredibile di domande arrovellanti: anzi, si può facilmente notare come, da qualsiasi angolatura (teologica, storica, filosofica) si guardi ad Auschwitz, subito nasca una serie interminabile di quesiti. Ad esempio, perché mai un popolo colto e raffinato quale era quello tedesco negli anni ’30 del Novecento (un popolo che, in quanto a prestazioni culturali, non temeva rivali in tutto il mondo), decide di sterminare una minoranza ben integrata quale erano gli ebrei? Perché pressoché nessuno seppe opporsi con fermezza? Non appena solleviamo tali interrogativi, subito ci troviamo in quella che Wittgenstein era la condizione propria del filosofo, il quale non si raccapezza dinanzi al problema, come la mosca che, chiusa in una bottiglia, continua a sbattere contro le pareti di vetro senza trovare quella via di uscita che sta alla filosofia indicare. Di fronte ad un evento come Auschwitz non si può essere soltanto "spettatori", privi di emozioni e di coinvolgimento, tant’è che chi cerca di spiegarlo come mero effetto determinato da una sequenza causale è subito etichettato come empio; in questa prospettiva, si può parlare di Auschwitz come di un "tabù laico". Del resto Giorgio Agamben, nel suo scritto su Quel che resta di Auschwitz, nota come gli stessi superstiti dei campi di concentramento non sono che "falsi testimoni", giacché "veri" sono quelli morti in loco. Ciò non toglie che vi sia anche stato chi ha tentato di trattare Auschwitz come "cosa normale", come evento fra i tanti: così Martin Walser, in maniera fortemente provocatoria, asserisce che "è ora di finirla di usare Auschwitz come una clava morale contro i Tedeschi", a sottolineare quanto sia assurdo, dal suo punto di vista, eternizzare la loro colpa; e Walser non si ferma qui: egli si spinge fino a sostenere che le altre nazioni strumentalizzerebbero Auscwitz per fini politici diretti contro la Germania, quasi come se, ogni qual volta lo stato tedesco osasse prendere qualche iniziativa, subito venisse ad esso rinfacciata la colpa. Così ad esempio pare essere accaduto quando, nel ’98, si parlava a gran voce di Euro come moneta valida per tutta l’Europa e la Germania, già di per sé fortissima col Marco, non poteva che non avere interessi alla questione, ma ha dovuto piegarsi sotto le minacce della "clava morale" di Auschwitz. Su posizioni ben più radicali di quelle di cui è alfiere Walser sono i "negazionisti" come Robert Faurisson (ossia coloro che sostengono che la shoà sia un’invenzione degli ebrei) e anche i "revisionisti", cioè coloro che – come Ernst Nolte – negano l’unicità della shoà, mettendo in luce come non meno terribile sia stato lo stalinismo e arrivando a sottolineare come il nazismo sia esistito semplicemente come reazione al comunismo dilagante (come a dire: se il comunismo non ci fosse mai stato, non ci sarebbe mai stato neppure il nazismo). Foriero di posizioni altrettanto "forti" è Norman Finkelstein, autore di un testo significativamente intitolato L’industria dell’olocausto: qui egli nota (in veste di ebreo coi genitori scampati per miracolo ad Auschwitz) che per l’intero corso della "Guerra fredda" di shoà non si parla mai, fino a quando – nel ’67 -, all’esplodere del conflitto di Israele, la shoà diventa un eccellente strumento a vantaggio di Israele e degli USA: creando una vera e propria "industria dell’olocausto", Israele entrerebbe nella sala dei bottoni a Washington; sicchè la shoà non è se non una colossale menzogna finalizzata a minimizzare l’altrui sofferenza e a ingigantire quella ebraica. Gli ebrei – prosegue Finkelstein – desiderano ottenere denaro e potere, e, per far ciò, gonfiano clamorosamente i numeri dei deportati nei lager per poter così rimpossessarsi dei loro presunti beni confiscati dai nazisti. Il problema sollevato da Walser ruotava intorno alla domanda: "fino a quando graverà sui Tedeschi la colpa?"; la domanda che invece agita l’indagine di Finkelstein è di segno opposto: "quanto a lungo potrà durare l’impunità di Israele?". Se in Germania la questione di Auscwitz è affrontata da uno scrittore come Walser e in America da un ebreo fortemente critico come Finkelstein, in Italia è presa in esame in maniera pagliaccesca da Roberto Benigni e dal suo film La vita è bella, vincitore del premio Oscar. Per la prima volta nella storia, con Benigni Auschwitz è presentato come luogo di cui ridere, come un luogo di divertimento per bambini (che, nella realtà, erano spesso uccisi sui treni dagli stessi genitori affinché non vivessero le atrocità dei lager). Cercando di rendere tollerabile l’intollerabile, egli infrange il "tabù laico": forse se Adorno e Horkheimer avessero potuto vedere La vita è bella l’avrebbero qualificata come grandioso prodotto dell’industria culturale.


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