L'INTERPRETAZIONE DEGLI STORICI |
Per capire l’unicità di Auschwitz, ci rivolgeremo ora direttamente agli storici. Nella misura in cui parlo di "unicità", mi riferisco evidentemente ad una scala di misura tale che mi permetta di dire che quell’evento è unico rispetto agli altri: ma, nel caso di Auschwitz, in che cosa consiste siffatta scala? Nei morti? Se così fosse, ne conseguirebbe che Auschwitz è un evento unico perché, tra tutte le catastrofi, è quella che ha causato il maggior numero di morti: eppure, ragionando in questi termini, i conti non tornerebbero, poiché è l’AIDS – e non la shoà – a detenere tale triste primato. Dovremo allora riferirci alla qualità dei morti? Ma, allora, si dovrà riconoscere che esistono morti che pesano più di altri? I cadaveri ebrei "valgono" di più rispetto a quelli dei Gulag o di Hiroshima? Tanto più che, all’interno dei lager, non vi erano solo gli ebrei, ma anche i comunisti, i pazzi, gli handicappati, gli omosessuali, i prigionieri. Come mai, allora, tutti parlano dei caduti ad Auschwitz e in pochi ricordano quelli della città di Dresda, distrutta dagli anglo-americani per pura vendetta, o quelli di Hiroshima o del Vietnam? Una prima risposta, che però non soddisfa pienamente, è che a scrivere la storia sono i vincitori e non i vinti. Se, come nota Michel Serres, il potere non è che un modo di dare la morte ai sudditi, allora Hiroshima – e non Auschwitz – segna il vero punto di rottura con il passato, in quanto per la prima volta nella storia la morte di massa è data con il semplice gesto con cui si preme un pulsante che sgancia una bomba; quanto dice Serres pare del resto avvalorato dal fatto che, per tutta la "Guerra fredda", la grande minaccia è quella della bomba atomica e non quella dei campi di sterminio. La drammatica vicenda di Hiroshima ci insegna poi che non solo le dittature (siano esse di stampo comunista o di stampo fascista) fanno massacri: anche la democrazia può vantare tale macabro privilegio. Ma c’è anche chi sostiene posizioni diverse da quelle di Serres: nel 1999 Fennell scrive un’opera dal titolo La condizione postoccidentale, in cui sostiene che con Auschwitz siamo entrati nel postoccidentale; l’epoca occidentale – dai Greci a Hiroshima – è segnata dal tabù di non uccidere gli innocenti, ma con Auschwitz esso viene violato, cosicché – nota Fennell – dopo Auschwitz si impone l’imperativo di non architettare mai più campi di sterminio (il che però legittima pienamente i bombardamenti). Un’altra teoria che ha goduto e gode tuttora di una certa popolarità presso gli storici è quella dei "totalitarismi gemelli", stando alla quale non vi sarebbe differenza alcuna tra il nazismo e il comunismo, totalitarismi gemelli in quanto parimenti portatori di disgrazie e di morte. Già Primo Levi, però, si opponeva con fermezza a questa teoria, mettendo in luce come un nazismo senza i lager sia inconcepibile, mentre un comunismo senza i gulag è possibile. Come del resto nota con acutezza Norberto Bobbio, i fini stessi per cui comunismo e nazismo sono sorti sono diversissimi: nato per eliminare quell’ingiustizia sociale per cui v’è chi ha tutto e chi invece muore di fame, il comunismo mira a raggiungere la felicità dell’umanità; viceversa, l’obiettivo che fin dalla nascita il nazismo si pone è la distruzione del diverso, l’annientamento dell’umanità allo scopo di far vivere solamente chi è degno di tale privilegio. Sul piano della fisica dei poteri, poi, pare evidente che il solo fine dei lager fosse quello di procurare morte: ciò in realtà non è del tutto vero, giacché nei lager si utilizzavano i detenuti come manodopera coatta per produrre manufatti, quasi come se ci trovassimo dinanzi a delle macchine capitalistiche con cui sfruttare il lavoro dei soggetti umani fino alla loro morte. Ben diversa è la situazione per quel che concerne i gulag, dove la morte dei reclusi non era l’obiettivo primario: il vero scopo che permeava tali terrificanti luoghi di sofferenza era il lavoro disumano (come quando si trattava di costruire una ferrovia in pochi giorni) e, accanto ad esso, la rieducazione dei "nemici di classe". La storia del genere umano ha conosciuto fin dalla sua nascita i massacri di Stato: tali sono stati, ad esempio, quelli compiuti con tanta efferatezza dai Romani o quelli prodotti con un impareggiabile spirito di intolleranza dai Crociati; eppure v’è qualcosa che distingue nettamente Auschwitz da ogni altro massacro realizzatosi nella storia, a partire dai Romani per giungere fino ai gulag: gli storici paiono concordi nel rispondere che la vera unicità della shoà risieda nel fatto che, per la prima volta nella storia, lo sterminio su vasta scala di un popolo è avvenuto non già in vista del conseguimento di qualche obiettivo (come la conquista di determinati territori per i Romani o la rieducazione dei nemici di classe per i Sovietici), bensì è stato fine a se stesso. Detto in altre parole, Auschwitz non era il mezzo per conseguire un dato fine, ma era esso stesso il fine da aggiungere e in ciò sta la sua assoluta unicità. "Non serviva a nulla", dice Hannah Arendt, rilevando in ciò il carattere profondamente "antiutilitaristico" della shoà. Ad Auschwitz si decide chi deve vivere e chi invece è condannato a morire: la progettualità che si cela dietro a questo terribile evento è l’utopica creazione di un mondo migliore, cosicché – benché a tutta prima possa parere assurdo – i nazisti agivano, in cuor loro, a fin di bene, al pari di quei Crociati che, massacrando gli infedeli, ritenevano di agire in nome di Dio; da ciò si può evincere come il male indossi sempre la maschera del bene. Quella che si è verificata ad Auschwitz è – per dirla con l’efficace immagine che Zygmunt Bauman usa in Modernità e Olocausto – la fantasia del giardiniere, che progetta un giardino meraviglioso e che, per realizzarlo, si sbarazza delle erbacce che qua e là lo infestano e che sono di impaccio.