ROUSSEAU, KANT, HEGEL



Stiamo affrontando il problema della shoà come "anomalia paradigmatica": come è noto, Kuhn scrive un’opera - destinata a godere di grande fortuna – dal titolo La struttura delle rivoluzioni scientifiche, in cui dice che le singole scoperte che di volta in volta sono fatte non sono atti che si succedono puntualmente, ma, piuttosto, costituiscono un quadro interpretativo che viene poi rimpiazzato da un altro maggiormente euristico. Ora, con Auschwitz pare che il bagaglio concettuale con cui storicamente si è interpretato il male imploda su stesso e si configuri come totalmente inadeguato, come se, con una rivoluzione, cambiasse il paradigma interpretativo: la macchina ermeneutica si inceppa e, con essa, saltano tutte le modalità con cui la nostra cultura si è confrontata con il male. Fino ad Auschwitz i filosofi si erano affaticati per eliminare il caso dalla storia, consapevoli di come esso costituisse un rompicapo enigmatico oltre che un insormontabile ostacolo alla costruzione di una filosofia della storia. Così per Rousseau il caso è uno "scandalo sociale": a suo dire, l’autentico peccato originale dell’uomo sta nell’essere entrato in società abbandonando il primitivo e innocente stato di natura, ove regnava il sentimento e non era ancora prevalsa l’istanza razionale. In una società funzionante con le regole dell’ingiustizia (e non della natura), in forza delle quali vi è chi ha tutto e chi non dispone di nulla, tali regole vengono a coincidere col caso: nascere ricchi anziché poveri, in America anziché in Uganda è un qualcosa di meramente casuale, che ben può essere inquadrato con l’etichetta esistenzialista della "gettatezza": con un’espressione alquanto efficace, Heidegger sostiene che "non siamo padroni delle nostre origini". Non è un caso che, sui presupposti fissati da Rousseau, prenda il via l’indagine filosofica di Marx, il cui ambizioso obiettivo si risolve nell’annullamento dell’ingiustizia e, dunque, del caso. Se per Rousseau il caso è uno scandalo sociale, esso si configura invece agli occhi di Kant come "scandalo antropologico": nella sua Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico il male è riconosciuto e addomesticato mediante una teodicea di sapore leibniziano tale per cui, alla fine, esso finisce per essere inteso come involontario fattore di progresso. Gli uomini sono esseri anfibi tra il divino e l’animale, proprio perché dotati di ragione ma, al contempo, equipaggiati di impulsi animaleschi (non sono né "santi" né "api o castori", dice Kant); situati in questa condizione mediana, essi vengono colti da un profondo senso di smarrimento allorché scorgono nel mondo "infantile malvagità" e "infantile stoltezza": al filosofo, pertanto, non resta aperta altra via all’infuori del cercare di scoprire se, nel contraddittorio flusso delle azioni umane, v’è un progetto della natura, quasi come se esistesse un più alto livello tale da conferire un senso compiuto laddove, a tutta prima, non ve n’è uno. Inutile dire che Kant è alla ricerca di questo livello perché non può accettare che possa dominare il "caso sconfortante". Da qui nasce la sua celebre dottrina della "insocievole socievolezza", secondo la quale il male non è che concime finalizzato al proliferare del bene (è in certo senso una ripresa della tematica di Mandeville dei vizi privati che diventano pubbliche virtù). Tuttavia, per poter vedere le cose di questo mondo in maniera tale che essi risultino dotate di un senso devo situarmi alla fine della storia, giacchè è solo a giochi fatti che si potrà dire se anche il male era funzionale al trionfo del bene: in questa prospettiva, pare vera la bella immagine di Hegel della nottola di Minerva che spicca il suo volo sul fare della sera. Sicché – nota Kant – se si riesce a posteriori a ravvisare un senso nella storia, si può avere una "visione confortante dell’avvenire", di contro allo sconforto del presente. Anche in Kant, non meno che in Voltaire, si trovano in forma secolarizzata quei pilastri che abbiamo visto esser tipici della tradizione cristiana: ciò non toglie, tuttavia, che per Kant sussista quello scandalo antropologico per cui l’uomo, creato da Dio a Sua immagine e somiglianza, è a tal punto imperfetto che Kant arriva ad asserire che "da un legno storto come l’uomo non si creerà mai nulla di buono". Anche per Kant resta vera la concezione dicotomica per cui, accanto ad una natura procedente in maniera regolare, vi è una storia - agita dagli uomini – nella quale regna il caos più totale: di fronte a questo spaesamento, si deve per Kant assumere un punto di vista particolare con cui leggere la storia in modo tale da poterle conferire un senso; per far ciò – egli nota – si deve necessariamente intendere il male alla stregua di un imprevisto occasionale ma indispensabile per il progresso del bene (è il modello leibniziano della teodicea che ritorna). Più complesso è, forse, il caso di Hegel, il quale di fatto non ha praticamente mai scritto nulla di filosofia della storia, benché sull’argomento abbia tenuto ben cinque corsi (poi pubblicati dai suoi allievi). Anche il suo pensiero è costantemente percorso dall’esigenza – quasi un’ossessione - di espungere il caso dalla storia: laddove gli occhi umani registrano il caso, quelli più fini del filosofo scorgono coscienza e libertà. A differenza degli storici, i cui interessi storici orbitano esclusivamente intorno al presente (giacché essi leggono la storia solo in funzione di esso), il filosofo della storia ha obiettivi di altro genere: egli "non ha altro intento se non l’eliminazione dell’accidentale". Ciò in virtù del fatto che: a) egli "mira a farsi una ragione del male nel mondo" e b) "assicura che il male non riuscirà ad imporsi alla fine". Ma, prima di descrivere la realtà storica quale appare all’occhiuta ragione del filosofo della storia, Hegel tratteggia lo scenario che si presenta agli occhi umani, un "panorama di peccato e di dolore", come un "banco del macellaio" su cui, prima o poi, passano tanto i grandi imperi quanto le eccelse personalità individuali: che senso può avere che tutti – chi prima e chi dopo - vengano a cadere miseramente? Dalla constatazione di questa triste sorte a tutti riservata, nascono una profonda tristezza e un intenso senso di sconforto morale. Ma – si domanda Hegel – esiste un antidoto, un modo con cui porsi al riparo? Una prima soluzione (Hegel la scarta subito dopo averla presentata) è quella di Goethe, il quale, mentre passeggiava su quell’autentico regno della morte che era il campo di battaglia dopo lo scontro di Jena, pensava che era destino che le cose andassero così e che, pertanto, non avesse senso volersi ribellare. Hegel rigetta duramente siffatta posizione assunta da Goethe ma, a sua volta, frutto di una lunga tradizione che può essere fatta risalire a Lucrezio e alla sua metafora (De rerum natura, II) dello spettatore che assiste da riva all’altrui naufragio e trae godimento dall’essere immune da quel male. E’ dunque interessante come, da Hegel fino ad Auschwitz, la posizione lucreziana e goethiana dello spettatore che assiste al naufragio diventi impossibile: il teatro, dove si assiste allo spettacolo come meri spettatori, non più una posizione che possa essere assunta, perché non v’è nessuno che si trovi realmente sulla terra ferma, al riparo dai perigliosi flutti del mare. Scrive a tal proposito Burkhardt: "conosceremmo volentieri le onde che ci portano sul mare della vita; ma queste onde siamo noi stessi". Oltre alla posizione del naufragio con spettatore, Hegel ripudia anche quella – tipicamente romantica – della lamentazione per il mancato concretarsi degli ideali: in merito, egli dice che "la filosofia deve condurci a capire che il mondo reale è come deve essere […]. Sparisce l’idea che il mondo è un susseguirsi di fatti assurdi e irrazionali"; e, ancora, egli insiste sul fatto che "non si deve essere migliori della propria epoca, ma si deve essere la propria epoca nel modo migliore". Rigettata tanto la posizione di Goethe quanto quella degli odiati Romantici, Hegel ne propone una sua: egli non si rassegna dinanzi alla "noia" e alla "litania", convinto che il pensiero debba di necessità chiedersi quale sia il fine cui mira la storia. La risposta che egli propone è, ancora una volta, una ripresa in forma secolarizzata dell’antico motivo religioso della teodicea: "dobbiamo farci una ragione del male nel mondo" – egli dice – e, per far ciò, dobbiamo conferire un senso al male dilagante, concependolo come momento necessario all’interno di un processo nel quale, alla fine, trionfa il bene: nell’economia di tale processo, quello che inteso come a sé stante era il male, viene a configurarsi come una tappa necessaria (e quindi positiva) per la realizzazione del bene.


INDIETRO