Austin è noto come l'autore della teoria degli atti linguistici . Più che l'aspetto descrittivo del linguaggio, a cui la filosofia ha dato molto spazio, essenziale è lo studio delle funzioni, cioè degli usi linguistici. Ogni parola o proposizione ha, infatti, più usi, ciascuno dei quali va considerato distintamente. La tesi di Austin è che si debba evidenziare non solo il carattere descrittivo del linguaggio, ma anche quello operativo. Egli parla, quindi, della necessità di valorizzare adeguatamente la funzione di prestazione ("performance") del linguaggio, quella, cioè, nella quale esso si configura come un fare, legato all'azione, all'esecuzione di atti. Austin distingue, così, gli "enunciati constativi" dagli "enunciati performativi" o operativi: gli enunciati constativi constatano dei fatti e come tali li descrivono; gli enunciati performativi compiono azioni e, in tal modo, tendono a realizzare modifiche nella situazione esistente. I primi possono essere veri o falsi, i secondi possono essere efficaci o inefficaci, cioè avere o non avere successo, realizzarsi o meno, senza che ci si debba chiedere se siano veri o falsi. Essi non descrivono un evento o un'azione, ma servono proprio a compiere quell'azione. Successivamente, Austin accantona tale distinzione e sviluppa la tesi della funzione operativa, attiva, del linguaggio mediante una teoria degli atti linguistici, secondo la quale ogni espressione linguistica è un atto: anche l'enunciato ritenuto constativo è un'azione (ad esempio, dire "domani vado a…" equivale a un impegno, a un atto, è enunciazione performativa e non solo indicativa e descrittiva). Così, egli distingue tre possibili e distinti aspetti di un atto linguistico, entro i quali classifica gli enunciati inizialmente descritti come constativi e performativi:
Queste distinzioni sono ormai patrimonio comune della Filosofia analitica,
così come lo è il senso del suo appello al linguaggio ordinario e la visione
della finalità dell'analisi.