Anche i filosofi sbagliano! Ed è per
questo che ho qui raccolto una serie di loro
errori, spesso veniali, ma talvolta sconcertanti.
Si tratta per lo più di errori concettuali
e di contraddizioni: voglio dire, non intendo
discutere se Hobbes avesse ragione o no a sostenere
lo Stato assoluto, poichè sarebbe naturalmente
un parere personale, che chiunque altro potrebbe
non condividere. Intendo piuttosto mettere in
luce gli errori commessi nei passaggi argomentativi
dai vari filosofi, che, bene o male, siamo tutti
costretti a riconoscere.
Protagora e Gorgia
Gorgia e Protagora sono accomunati
dalla convinzione che non vi sia verità alcuna e che, in assenza di essa, la
parola possa tutto. Tuttavia, se per Protagora ogni cosa è vera, per Gorgia,
invece, ogni cosa è falsa. Con l'espressione " l'uomo è misura di tutte le
cose , di quelle che sono in quanto sono , e di quelle che non sono in quanto
non sono " Protagora intende appunto sottolineare l'assoluta relatività
della verità, facendo notare come ciascuno veda le cose alla sua maniera e in
modo diverso rispetto agli altri: se io dico che una bevanda è dolce ed un altro
dice che è amara, chi ha ragione dei due? Bisognerebbe avere un parametro che
dica la verità, il che è impossibile; si può magari chiedere il parere di
un'altra persona, ma anche questo è un parere personale, privo di validità
universale. Tuttavia, se in assenza di una verità si può dire che tutto è vero
(come fa Protagora) o che tutto è falso (come fa Gorgia), nasce un'aporia,
sottolineata già da Platone: egli obietta a Protagora che, se tutte le opinioni
sono vere, é vera anche l'opinione che sostiene che non tutte le opinioni sono
vere e, di qui, anche quella che sostiene che la tesi di Protagora é falsa; allo
stesso modo, se tutte le opinioni sono false, allora anche l'opinione di Gorgia,
secondo cui tutto è falso, è falsa. A supportare le tesi di Platone è il suo
allievo Aristotele, il quale fa notare che con i sofisti, a rigor di logica, non
si può neppure discutere perchè, sostenendo che tutto sia vero o che tutto sia
falso, nel momento stesso in cui un sofista discute, smonta le sue stesse tesi
perchè in un certo senso ammette la distinzione tra vero e falso, la possibilità
dell'errore: se infatti ci fosse solo il vero o il falso, nota Aristotele, che
motivo ci sarebbe di discutere?
Carneade e degli Scettici
La questione si risolve qui molto in
fretta: Carneade e gli Scettici dicono che non si può sapere nulla con certezza,
ma allora non si potrebbe nemmeno sapere di non sapere nulla con certezza. In
altri termini, essi sanno con certezza che non si può sapere nulla con certezza,
ma già per il fatto di sapere che non si può sapere hanno una certezza. In
parole povere, se non posso sapere niente, allora non posso sapere neanche di
non sapere niente. Questa è la contraddizione di fondo che serpeggia nella
filosofia scettica, ma non è l'unica. Infatti, Carneade é il fondatore del
cosiddetto "probabilismo", ossia della teoria secondo la quale,
nell'impossibilità di conoscere la verità, si possono comunque tracciare gradi
di conoscibilità: ci saranno, cioè, cose più vere e cose più false, anche se la
verità in assoluto resta irraggiungibile. Il concetto di probabilismo risulta
però inaccettabile, poichè indisgiungibilmente legato a quello di certezza: per
poter dire che una cosa é più probabile rispetto ad un'altra, infatti , devo per
forza avere una pietra di paragone; in altri termini, se conosco con certezza
alcune cose, allora sì che posso parlare di probabilità. Ma se non conosco nulla
con certezza (come di fatto sostengono gli Scettici) , allora non posso neanche
parlare di probabilità.
Anselmo da Aosta
Anselmo da Aosta rientra nel novero di
quei pensatori medioevali che si sforzarono di dimostrare, spesso con
argomentazioni spericolate, l'esistenza di Dio. Egli elaborò la cosiddetta
prova ontologica , ovvero dimostrò l'esistenza di Dio basandosi
esclusivamente sulla sua essenza; la prova, che fu considerata valida fino al
Settecento prima che Kant la confutasse (Hegel la riterrà invece valida), si basa sulla nozione stessa che di Dio
hanno sia il credente sia l'ateo. Si tratta di una dimostrazione "pura" dell'
esistenza di Dio, sgancita dalle esperienze sensibili: é una dimostrazione che
parte dal puro concetto di Dio. Venendo al dunque, Anselmo immagina un discorso
con un ateo, ossia con una persona che in cuor suo nega l'esistenza di Dio; per
negare qualcosa si deve sapere per forza che cosa sia, altrimenti non lo si può
negare: per negare l'esistenza di un drago devo pur sapere che cosa sia, il che
implica che c'é differenza tra esistenza ed essenza. Dunque l'ateo deve sapere
che cosa é Dio: Dio é ciò di cui nulla si può pensare di maggiore. Il drago, pur
non esistendo nella realtà, ha un suo tasso di essere in quanto ente
immaginario, pensato ; certo il suo tasso di essere sarà inferiore rispetto a
quello di un cavallo, che esiste sia come ente pensato sia come ente reale.
Immaginiamo per un attimo che il drago esista: al tasso di essere che ha in
quanto pensato, si aggiunge quello che ha in quanto esistente. Ora passiamo a
Dio come puro concetto e ammettiamo che Egli esista: prendiamo in esame il Dio
come puramente pensato, che é quello che ha in mente l' ateo: Dio é ciò di cui
nulla si può pensare di maggiore, ma se lo si vede come esistente avrà un tasso
più elevato di essere e quindi sarà maggiore: rispetto all'essere di cui nulla
si può pensare di maggiore si può pensare qualcosa di maggiore, il che è
contradditorio. Il ragionamento dell'ateo cade in contraddizione, Dio deve per
forza esistere. In fondo, il ragionamento di Anselmo può così riassumersi:
l'essere perfettissimo, per essere tale, non può mancare di esistenza,
altrimenti non sarebbe il più perfetto. Un contemporaneo di Anselmo, tale
Gaunilone, in un trattatello Pro insipiente in cui assumeva la difesa
dell'ateo, attaccò la dimostrazione di Anselmo, muovendole essenzialmente due
critiche: in primo luogo, la dimostrazione dovrebbe valere per ogni forma di
perfezione, vale a dire che se parliamo di un'isola felice, perfetta, allora, a
rigore, secondo Gaunilone, seguendo il ragionamento di Anselmo, si dovrebbe
arrivare a dire che essa esiste. E questo dovrebbe valere per tutti gli enti
perfetti. Ma Anselmo fa notare che il suo ragionamento vale solo per l'essere
perfetto in assoluto, Dio, e non per i "perfettissimi" di ogni categoria
(l'isola perfetta, la casa perfetta, ecc): infatti, per fare un esempio,
nell'essere perfetto assoluto ci sarà la sapienza, nell'isola perfetta non ci
sarà. La seconda critica mossa da Gaunilone (alla quale Anselmo non fu in grado
di controbattere) consiste nel fatto che, anche ammesso che funzioni, il
ragionamento di Anselmo deve partire da un concetto corretto di Dio che solo chi
ha fede può avere; il ragionamento anselmiano, dunque, funziona, ma solo per chi
già ha la fede, non per l'ateo. Anselmo riconobbe che Gaunilone aveva ragione e
ammise che il suo ragionamento serviva solo a chiarire al credente i fondamenti
della sua fede. La prova ontologica chiarisce al credente che Dio é "causa sui"
(ossia non é creato ma crea), e che in Lui (e solo in Lui) l'essenza implica
l'esistenza. Tuttavia la prova ontologica verrà smascherata come errore da Kant
in L'unico argomento possibile per una dimostrazione di Dio (1763):
l'esistenza non può a nessun titolo far parte dell'essenza e il concetto di Dio
è perfetto di per sè, indipendentemente dal fatto che Dio esista o meno. Per
smascherare Anselmo, Kant si serve di un esempio molto efficace: immaginiamo di
avere in tasca cento talleri. I cento talleri esistenti che io porto nelle mie
tasche non sono affatto più perfetti dei cento talleri pensati, poichè, se così
fosse, pur avendo cento talleri in tasca, dovrei averne in mente di meno, visto
che, per Anselmo, l'essenza "vale meno" dell'esistenza. Il che sarebbe assurdo:
ne consegue che non è vero che una cosa esistente è più grande della medesima
cosa pensata come inesistente.
Cartesio
Senz'ombra di dubbio, Cartesio è uno
di quei filosofi che si propone di dare una veste rigorosa e razionale alla
filosofia ma che poi, paradossalmente, forse perchè preso da una foga eccessiva
nel razionalizzare ogni cosa, scivola spesso nell'irrazionalismo. A ragion
veduta, egli proclama di voler mettere in forse ogni cosa, poichè non vi è nulla
di certo: così come il remo immerso in acqua pare spezzato in virtù di un
effetto ottico, cosa vieta di ipotizzare che i sensi ci ingannino anche quando
pensiamo di avere di fronte a noi un mondo? Allo stesso modo, anche la
matematica è suscettibile di un giudizio analogo: chi mi dice di non essere
stato creato da un genio maligno che mi fa credere che 2+2 dia 4, mentre in
realtà dà 5? E tuttavia, nota Cartesio, posso (e devo) dubitare di ogni cosa,
fuorchè di una: nel momento stesso in cui dubito, penso e se penso, allora
esisto ( cogito ergo sum ). Fin qui il ragionamento fila liscio: dopo di
che, però, Cartesio fa il passo più lungo della gamba e finisce laddove non
voleva finire, ossia nell'irrazionalismo. Infatti, giunto legittimamente alla
certezza di esistere per il fatto di pensare, egli da ciò deduce di esistere
come pensiero ( res cogitans ), ossia come anima priva di corpo. E'
infatti il pensare che mi ha portato ad avere la certezza di esistere, dice
Cartesio, e posso tranquillamente ipotizzare di esistere come cosa pensante
priva di corpo. E commette un errore grossolano: dire che esisto per il fatto di
pensare non significa che io esista solo come entità pensante; sicuramente come
entità pensante esisterò , ma magari avrò un corpo, un' esistenza materiale e
non solo spirituale. L' errore di Cartesio, in altri termini, sta nel passare da
una cosa che pensa a una cosa pensante, che come unica caratteristica ha il
pensare. Dell' esistenza del mio corpo non ho certezza (il cogito ergo
sum mi dimostra l'esistenza intellettuale), ma non ho neanche certezza dell'
inesistenza del corpo per dire che sono un pensiero senza corpo! Perchè mai devo
essere un pensiero invece che un essere materiale che pensa? Cartesio si
dimostra meno razionale del previsto: questa é l'aporia cartesiana, il non
prendere nulla per certo (neanche l' esistenza del proprio corpo) per poi finire
col prendere per certa l' inesistenza del proprio corpo! Locke, da buon
cristiano, riprenderà le tesi di Cartesio ma non accetterà l'esistenza come mero
pensiero, bensì dirà di essere un'entità materiale la cui prerogativa
fondamentale sta nel pensare. Questo è probabilmente il più ecclatante degli
errori di Cartesio, ma non è l'unico. Il pensatore francese sostiene
l'onnipotenza della ragione umana e in ciò si rivela profondamente irrazionale,
quasi come se assumesse un atteggiamentop fideistico verso la ragione, senza
istituire quel "tribunale" di cui si avvarrà Kant per valutare le possibilità e
i limiti della ragione. La stessa adesione totale al meccanicismo fa sì che
Cartesio incappi in errori madornali: primo fra tutti, il rifiuto dell'azione a
distanza e, in ultima istanza, della forza di gravità, che a Cartesio puzzava
troppo di animistico, quasi come se i pianeti girassero intorno al Sole perchè
vivi. L'unico movimento che Cartesio può ammettere è quello per contatto, come
avviene su un tavolo da biliardo per cui ogni palla è mossa dall'urto con
un'altra palla: il meccanicismo porta Cartesio a negare, in primis, l'esistenza
del vuoto. L' estensione é, infatti, per Cartesio sinonimo di spazio e la
materia é sinonimo di estensione, quindi la materia é sinonimo di spazio; ma se
la materia é lo spazio, ne consegue che il vuoto non esiste perchè sarebbe uno
spazio senza contenuto fisico, il che è inaccettabile. Dall' inesistenza del
vuoto deriva una particolare concezione del movimento: non si può ipotizzare uno
spazio vuoto, come abbiamo visto, e quindi non si può definire il movimento come
spostamento "da qui a lì" nel vuoto; dunque, se un libro lo spostiamo da qui a
lì, Newton dice che nello spazio si sposta da una parte all' altra, per
Cartesio, invece, significa che il libro viene traslato dalla vicinanza di
alcune parti di materia alla vicinanza di altre parti di materia. Con il suo
meccanicismo radicale, tra l'altro, non poteva neanche spiegare che un oggetto
cade perchè attirato dalla forza di gravità, ma doveva ricorrere a bizzarre
interpretazioni: una penna cade al suolo, dice Cartesio, perchè sente una sorta
di pressione esercitata dall'alto, dall'infinita quantità di materia sopra di
noi. Non si tratta, pertanto, di un processo di attrazione a distanza, ma di un
autentico processo di schiacciamento. Ben si può notare come il "sistema"
cartesiano sia rigurgitante di errori spesso anche grossolani: due meritano
ancora di essere sottolineati. In primo luogo, l'interpretazione che Cartesio dà
del funzionamento del cuore. In un'ottica in cui ogni movimento avviene per
contatto, egli respinge la teoria secondo la quale è il cuore a far muovere il
sangue, poichè altrimenti il cuore sembrerebbe essere un organo vivente e ciò
sarebbe in antitesi con il meccanicismo. Per Cartesio, al contrario, essendo il
cuore un organo caldissimo, é il sangue che, surriscaldandosi per via del calore
presente nel cuore, si dilata e per questo dilatarsi schizza via dando luogo
alla circolazione che riporta il sangue raffreddatosi al cuore, dove si riscalda
nuovamente, si dilata, schizza via e il processo ricomincia: il cuore è
concepito da Cartesio come un motore a scoppio. L'altro grande errore commesso
dal filosofo risiede nel tentativo di spiegare il rapporto tra spiritualità e
materialità, dopo che egli ha ammesso, nonostante i tentennamenti iniziali,
l'esistenza del corpo. Diventa difficilissimo spiegare come l'anima muova il
corpo e viceversa, visto che l'anima, per definizione, é sostanza spirituale e
non é riconducibile ad estensione. Nell' ottica meccanicistica cartesiana, ogni
movimento é causato da urti fisici, ma come fa il corpo materiale ad urtare
l'anima immateriale per farla muovere a sentire il calore quando appoggiamo la
mano su una superficie calda? Come può esserci movimento per contatto tra una
realtà fisica e una spirituale? E' una contraddizione parlare di movimento e di
urti a riguardo dell' anima. Ecco allora che Cartesio tenta di fornire una
spiegazione ipotizzando proprio un contatto tra anima e corpo, una spiegazione
non molto convincente già all'epoca; i problemi sollevati da Cartesio in merito
finiscono più per essere ampliati che risolti; che rapporto ci sarà mai tra
anima e corpo, due realtà diverse e inconciliabili che nell' uomo trovano il
loro punto di contatto? Per spiegare il rapporto anima-corpo Cartesio si serve
di due realtà fisiche: la ghiandola pineale e gli spiriti animali. Supponiamo
che Cartesio debba spiegare il rapporto anima - corpo quando con la mano si
tocca una superficie calda e il calore viene dal corpo trasmesso all' anima.
Cartesio dice che la superficie calda mette in moto le particelle dei
polpastrelli della mano e fin qui siamo ancora in un ambito puramente materiale
e corporeo; dopo di che egli tira in ballo il reticolo nervoso (lo si era da
poco scoperto in medicina : esso si concentra soprattutto alla base del
cervello); Cartesio individua nel reticolo nervoso la via per la quale gli
impulsi vengono trasmessi dalla periferia al centro e viceversa: attraverso i
nervi la sensazione di calore che si ha quando si tocca con mano una superficie
calda viene trasmesa dai polpastrelli verso il cervello. Da notare che Cartesio
evita appositamente di servirsi di spiegazioni chimiche ed elettriche: egli
accetta e si serve solo di spiegazioni meccanicistiche: contatti fisici che
causano il movimento. Ipotizza che all'interno dei nervi ci siano degli spiriti
animali : non dobbiamo farci ingannare dal nome; si chiamano spiriti non perchè
sono realtà spirituali (il che sarebbe assurdo) ma per via della loro estrema
sottigliezza (sono talmente sottili da stare nei nervi); si chiamano poi animali
perchè trasmettono gli impulsi dell' anima. Grazie alla loro sottigliezza questi
spiriti animali vengono urtati dal calore della superficie e trasmettono questo
moto fino al cervello; fin qui siamo ancora in un ambito puramente materiale e
lo stesso avviene tanto negli animali quanto negli uomini. Da questo punto in
poi, però, negli animali l'impulso arrivato al centro (il cervello) in modo
meccanico genera una reazione meccanica: ad ogni imput corrisponde un output; se
prendo una zampa ad un gatto e la metto su una superficie calda, gli spiriti
animali dalla zampa si muovono fino al cervello e generano una reazione
meccanica (il miagolare nel caso del gatto); tutto questo avviene senza la
mediazione di un organo che genera sensibilità: ricordiamoci che per Cartesio
gli animali sono macchine. Nell' uomo invece il processo si differenzia: il
centro dell' uomo é la cosiddetta ghiandola pineale, una delle ghiandole che sta
alla base del cervello: essa, spiega Cartesio, é il centro della sensibilità e
gli animali, proprio perchè macchine prive di sensazioni, ne sono sprovvisti. A
questo punto avviene un fenomeno misterioso e inspiegabile: nella ghiandola
pineale l'impulso nervoso guidato dagli spiriti animali incontra l'anima, che
nel corpo ha la sua dimora provvisoria e nella ghiandola pineale trova il suo
punto di incontro e di rapporto con il corpo: qui dall'incontro con gli spiriti
animali viene generata la sensazione. Evidentemente, quella di cartesio è una
soluzione che soddisfa poco ed è anzi clamorosamente sbagliata.
Hobbes
Thomas Hobbes si propone di affrontare
e risolvere il difficile problema sul rapporto tra spiritualità e materialità
lasciato in eredità da Cartesio; la soluzione che egli prospetta è molto
semplice e, per molti versi, drastica: essa consiste nell'eliminazione di una
delle due res . E Hobbes non si fa scrupoli a dire che ad esistere è solo
la materialità, eliminando così la res cogitans , la spiritualità: essa
viene da lui intesa come una manifestazione secondaria (epifenomeno) della
materialità stessa. Tuttavia, la soluzione avanzata da Hobbes finisce per
generare nuovi problemi irrisolvibili: tutto ciò che esiste é materia, dice
Hobbes, e le sensazioni stesse sono una forma di movimento microscopico.
L'errore di Hobbes sta nel fatto che per lui le sensazioni non sono prodotte da
movimento, bensì sono movimento, il che é davvero assurdo. La sensazione é
sensazione, non é un movimento, ce ne accorgiamo tutti bene o male! Hobbes dice
che esiste solo ciò che può fare o subire un'azione, quindi esiste solo la
res extensa (la materia); la nostra stessa coscienza é riconducibile a
materia, a corpo e a movimento: movimenti che dal centro (cuore o cervello)
vanno verso la periferia e viceversa. E' evidente come Hobbes, per risolvere le
aporie cartesiane, ne abbia create di nuove.
Spinoza
L'errore o, meglio, la contraddizione
in cui scivola Spinoza è la tipica contraddizione in cui son scivolati tutti
quei pensatori che, dagli Stoici in poi, hanno negato l'esistenza della libertà
a favore della necessità: Spinoza dice che tutto, per definizione, va come deve
andare, razionalmente, necessariamente e quindi giustamente e, anche ciò che ai
singoli uomini sembra sbagliato o ingiusto, se visto dal punto di vista del
tutto ( sub specie aeternitatis ) è positivo. E' dunque assurdo il
pentimento, poichè non ha senso alcuno provare dispiacere per aver fatto o per
non aver fatto una determinata cosa: non poteva andare diversamente, poichè
tutto avviene secondo necessità. Fin qua il discorso di Spinoza ha una sua
logica: tuttavia, la contraddizione in cui egli incappa sta nel fatto che, dopo
aver proclamato che non vi è libertà e che tutto avviene in modo rigorosamente
deterministico, egli impartisce degli insegnamenti etici. In altri termini, come
é possibile che mi si dica come comportarmi, quando tutto procede secondo
necessità e non vi é libertà alcuna? L' etica di Spinoza é accettabile fin tanto
che il pensatore ebreo si limita a descrivere il comportamento necessario
dell'uomo, ma diventa autocontradditoria nel momento in cui dà indicazioni sulle
modalità di comportamento da seguire, quando cioè invita l'uomo a porsi dal
punto di vista della res divina per poter così guardare le cose sub
specie aeternitatis . La contraddizione, banalizzando un pò il discorso, sta
nel fatto che Spinoza indichi come comportarsi, come se si avesse la libertà di
scegliere. La teoria etica spinoziana comporta poi un altro paradosso, derivato
dal primo: il dirmi di comportarmi così non implica solo la possibilità di una
scelta, ma anche la condanna di certi comportamenti che vanno evitati. Ma se non
c'é libertà di scelta perchè tutto é determinato, non c'é nemmeno la possibilità
di condannare certi comportamenti: tutto avviene, infatti, necessariamente (non
c'é libertà), quindi tutto ciò che avviene é un bene e comportamenti negativi,
per definizione, non ce ne possono essere. Come é quindi possibile che Spinoza
condanni il pentimento, la rabbia e le passioni, visto che tutto ciò che avviene
é un bene? Se tutto avviene razionalmente, poi, é evidente che però le passioni
sono (per definizione) qualcosa di irrazionale e ci sono perchè Spinoza dice che
vanno eliminate: ma se ci sono le passioni vuol dire che forse non tutto va poi
così razionalmente e il sistema spinoziano vacilla.
Kant
Anche Kant ha commesso degli errori,
anche se probabilmente più ingenui e meno grossolani rispetto a quelli di
Cartesio. Il primo che esaminiamo risiede in quelle che Kant definisce forme
a priori della sensibilità , ovvero lo spazio e il tempo. Lo spazio è la
forma del senso esterno , il tempo quella del senso interno. Spazio e tempo non
sono dunque né rappresentazioni astratte dall' esperienza, né concetti costruiti
discorsivamente dall' intelletto, ma intuizioni pure, le quali costituiscono le
condizioni a priori di qualsiasi rappresentazione sensibile e quindi sono
precedenti ad ogni esperienza possibile. In altri termini, tutto ciò che è dato
nell'intuizione, viene necessariamente rappresentato nello spazio e nel tempo. A
causa di questo processo di spazializzazione e di temporalizzazione noi non
conosciamo gli oggetti come essi sono in sé, ma soltanto come ci appaiono ,
ovvero come fenomeni. Più precisamente, lo spazio è l' intuizione pura dei
fenomeni del senso esterno, il tempo è l' intuizione pura dei fenomeni del senso
interno. In parole povere, Kant dice che lo spazio e il tempo non appartengono
alle cose come esse sono in sè (noumenicamente), bensì appartengono alle cose
così come esse ci appaiono (fenomenicamente), quasi come se avessimo davanti
agli occhi delle lenti amovibili che ci impediscono di vedere le cose come sono
per davvero, ma ce le fanno vedere inevitabilmente sotto colorazioni che non
appartengono alle cose in sè. Tuttavia Kant, che tende sempre a dimostrare
rigorosamente ogni cosa, non dimostra che lo spazio e il tempo non appartengono
alle cose in sè, ma lo accetta passivamente, quasi come un postulato. Non c'è
nulla, del resto, che mi obblighi a negare che lo spazio e il tempo appartengano
alle cose come sono in sè, o se anche c'è, Kant non l'ha dimostrato. Voglio
dire, se sugli occhi abbiamo delle lenti verdi, è ovvio che ogni cosa ci
apparirà colorata di verde anche se in realtà non lo è, ma tuttavia, quando
vediamo una pianta o un prato, li vediamo verdi perchè abbiamo le lenti, ma se
anche non le avessimo li vedremmo allo stesso modo, poichè sono verdi in sè. Non
c'è dunque nulla che mi vieti di ammettere che lo spazio e il tempo appartengano
alle cose come sono in sè, e non alle cose come ci appaiono. Un altro grande
errore commesso da Kant risiede nella cosa in sè , quell'entità
misteriosa e inconoscibile da cui deriva il materiale dell'esperienza che il
soggetto conosce. Kant ha affermato che si può avere conoscenza solo dove vi è
un'associazione di materiale empirico all'attività categoriale, dove cioè
l'intelletto lavora e riorganizza materiale ricevuto dall'esperienza sensibile.
La categoria di causalità sarà, pertanto, applicabile legittimamente solo in
ambito empirico, quando ad esempio, dopo aver visto il fumo, dirò che è stato
causato dal fuoco; eppure Kant ha fatto un uso meta-empirico della categoria di
causalità, applicandola alla cosa in sè: dicendo che la conoscenza altro non è
se non il frutto dell'elaborazione del materiale d'esperienza, a sua volta
frutto della cosa in sè , non è forse vero che Kant ha fatto un uso della cosa
in sè come causa? La cosa in sè è infatti intesa come un qualcosa che causa, in
maniera oscura, l'emergere dell'esperienza. Se la cosa in sè modifica i nostri
organi di senso poichè da essa ricevono il materiale dell'esperienza, vuol dire
che la cosa in sè agisce causalmente su di noi. Il paradosso (già colto dal
filosofo Enesidemo, pseudonimo di Schulze) è che la cosa in sè resta
inconoscibile, ma attorno ad essa Kant costruisce l'intero processo conoscitivo
nella Critica della ragion pura . Altro paradosso: Kant dice che si può
conoscere solo se si unificano dati dell'esperienza con l'intelletto, con la
conseguenza che dove non c'è esperienza non c'è conoscenza; tuttavia egli
ammette la conoscibilità delle categorie, le forme a priori dell'intelletto,
riconoscendo dunque che si può avere conoscenza anche senza l'apporto della
sensibilità. L'intera Critica della ragion pura è proprio questo, un
tentativo di conoscere le forme della conoscenza, quando Kant ha spiegato,
paradossalmente, che le forme prive di dati sensibili sono inconoscibili!
Fichte
Il grande errore di Fichte affiora
quand'egli, ormai surclassato dall'astro nascente di Schelling, si rifugia nella
religione ed elabora la Filosofia dell'Assoluto. Dopo aver negato l'esistenza
della cosa in sè kantiana con la conseguenza che è il soggetto a crearsi
quel mondo che vede a sè contrapposto, Fichte ha anche asserito che l'Io,
l'attore del processo, dopo aver posto il non-Io (il mondo) per poter esprimere
tutta la propria potenza confrontandosi con degli ostacoli che esso stesso si è
posto, è uno slancio infinito. Ora però, con lo slittamento verso la deriva
religiosa, Fichte si rende conto che è assurdo parlare di uno "slancio infinito"
se non si ammette un essere infinito, poichè uno slancio è per davvero infinito
se tende verso una realtà infinita: Dio. Tuttavia, con l'ammissione di una
sostanza autonoma (Dio) che sta a fondamento dello slancio infinito dell'Io,
Fichte fa un passo falso e cade in contraddizione, reintroducendo una cosa in sè
(Dio appunto) e mettendo in crisi il suo sistema filosofico, basato interamente
sull'inesistenza di cose in sè e sul libero atto dell'Io.
Marx
L'errore di Marx sta nel fatto che ciò
che egli aveva profetizzato non si è avverato: era convinto che il sistema
capitalistico, a lungo andare, sarebbe tramontato, poichè il capitale si sarebbe
ammassato nelle mani di sempre meno uomini, con la conseguenza che la società
avrebbe assunto una forma piramidale, con pochi ricchi al vertice, e una miriade
di proletari alla base. Marx era convinto dell'esistenza di una "legge
tendenziale di caduta del saggio di profitto", con la conseguente progressiva
concentrazione del capitale in poche mani. E questo, a sua volta, formava ai
suoi occhi un binomio indisgiungibile con l'immiserimento crescente degli
operai: con l'avvento delle macchine, che possono sostituire il lavoro di molti
operai, aumentano i disoccupati e, quindi, anche l'offerta di forza-lavoro sul
mercato, cosicchè anche per questo aspetto i salari tendono a diminuire: aumenta
la povertà e il numero dei disoccupati, di conseguenza il capitalista può tenere
più bassi i prezzi dei salari e guadagnarci di più. In questa situazione si
genera la massima contraddizione tra il carattere privato della proprietà dei
mezzi di produzione e il carattere sociale sempre più rilevato della produzione,
tra lo sviluppo delle forze produttive (il proletariato) e il numero sempre più
ristretto di capitalisti: e Marx può affermare che " la produzione
capitalistica genera essa stessa, con l'inevitabilità di un processo naturale,
la propria negazione ". Come sappiamo, però, questo non c'è stato: anzi,
negli anni successivi a Marx, la società non ha assunto una forma piramidale, ma
romboidale, con pochi capitalisti al vertice, pochi proletari sul fondo e
un'infinità di borghesi nel mezzo. Si può però spezzare una lancia in favore di
Marx e dei suoi pronostici: è vero che non si è verificata la polarizzazione
profetizzata da Marx ed è anche vero che l'operaio del Novecento vive meglio di
quello dell'Ottocento, ma è anche vero che la differenza di reddito tra
proletario e "padrone" si è notevolmente accentuata, come se la forbice si fosse
aperta. L'operaio sta meglio rispetto ai tempi di Marx, ma il divario col
"padrone" è aumentato! Bisogna poi tenere a mente che il capitalismo si è
mondializzato a tal punto che vi è una classe mondiale di sfruttatori (i Paesi
ricchi) e una classe mondiale di sfruttati (i Paesi del 3° mondo), cosicchè
anche i proletari dei Paesi sfruttatori stanno al tavolo dei "divoratori", pur
accontentandosi delle sole briciole.
Popper
Il primo volume di The Open Society
and Its Enemies, The Spell of Plato (La società aperta e i suoi nemici, I,
Platone totalitario) è quasi interamente dedicato a un violento attacco contro
il platonismo filosofico e politico. Per società chiusa , Popper intende la
società tribale, che interpreta se stessa come naturale, sacra e immutabile, ed
è collettivista, gerarchica, organica, fondata sulle relazioni faccia a faccia.
In essa gli individui non godono di nessuna libertà, ma ciascuno conosce
concretamente la proprio posizione e i propri doveri. La società aperta , di
contro, è consapevole di essere una costruzione culturale soggetta al
cambiamento, ed ospita relazioni astratte ed individualistiche. Platone, pur
essendo allievo dell'individualista Socrate, è un nostalgico della società
tribale, sia perché è di famiglia aristocratica, sia perché vede nell'incertezza
e nella mutevolezza della società aperta una fonte di infelicità: tutto il suo
pensiero politico, afferma Popper, può essere ridotto a un progetto totalitario
di restaurazione della società chiusa. Nella Repubblica Platone proponeva uno
stato di stampo comunistico, caratterizzato dall'abolizione di ogni forma di
proprietà privata. Infatti, Popper critica di Platone l' aver creato uno stato
totalitario, che vuole organizzare totalmente la vita dei singoli, la cui vita
non conta nulla di per sè, se non in funzione dello stato. Popper, con le sue
posizioni liberali, criticava la società di Platone, perfetta e totalitaria , ed
era in favore di una società aperta, che avesse la possibilità di correggersi e
di migliorare. Popper era del parere che creare una società perfetta fosse
impossibile perchè l'uomo stesso è imperfetto per natura. La società aperta è
inferiore a quella totalitaria platonica, ma ha conoscenza della propria
inferiorità e sa correggersi cambiando in continuazione. Una società perfetta
non ha motivo di fare questo. Platone insiste invece sull'immutabilità: la
società per lui è perfetta così com'è e non deve assolutamente cambiare. Popper
ha però commesso un errore dimenticandosi, nella foga, che Platone parla di
un'idea statale e un'idea, per definizione, non è mai realizzabile. E' solo un
punto verso cui muovere. Nelle Leggi Platone delineerà lo "stato
secondo": dal momento che quello delineato nella Repubblica è puramente
ideale, Platone ne tratteggia uno attuabile, dove prende gli aspetti migliori di
ogni governo in modo tale da creare il miglior stato tra quelli attuabili. Il
ragionamento di Popper è dunque in parte fuori luogo: se ipotizzassimo la
società perfetta, perchè mai dovremmo cambiarla? Perchè cambiare qualcosa di
perfetto? Potrebbe cambiare solo in peggio. Lo stato delineato nella "
Repubblica " è un'utopia e, in quanto tale, non potrà mai essere attuato. In
altri termini, "utopistico" è un qualcosa di negativo che si pretende
realizzabile, ma che per fortuna non lo è; "utopico" è, invece, un concetto
tipicamente progressista che induce a vedere il mondo, che molti credono buono
così com'è, imperfetto e migliorabile: il progressista ha un atteggiamento
sempre volto al cambiare. Si può dire che il concetto di "utopistico" si
avvicini molto a Platone, che nelle Leggi fa notare che lo stato così com'è non
va bene e ne propone uno "misto", dal momento che quello ideale-aristocratico è
inattuabile. Popper ha invece preso l'idea di Platone utopica di stato per
utopistica, e qui sta il suo errore.
Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d'altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo; facendo quindi del tempo di lavoro superfluo - in misura crescente - la condizione (question de vie et de mort) di quello necessario. Da un lato esso evoca, quindi, tutte le forze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e delle relazioni sociali, al fine di rendere la creazione della ricchezza (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa. Dall'altro lato esso intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro, e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore già creato. (K. Marx, "Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica")
|
|
|
|