Antonio Vigilante e La barchetta di Virginia, Manifesto per una scuola improbabile

di Antonietta Pistone

 

 

La realtà della scuola necessiterebbe, oggi più che mai, di spiriti critici, capaci di rompere con il passato che domina incontrastato nelle nostre istituzioni. Vivi interlocutori della verità problematica e sofferta, che vuol dire ricerca, dialogo, interrelazione, incontro, cammino da fare insieme. Senza nascondersi le insidie, le difficoltà, gli inganni, la menzogna sempre in agguato. Mentori virili di nuovi orizzonti. Navigatori accorti dell’ignoto. Non per ridimensionare e sminuire il buono che ancora c’è nella realtà educativa scolastica, ma con il preciso intento di aprire nuove strade alla conoscenza e alla formazione. Senza divenire preda di un troppo facile autocompiacimento. Un coraggioso impenitente, acuto osservatore dello stato dell’arte è Antonio Vigilante, che nel suo Manifesto per una scuola improbabile[1] compie un’analisi spietata e disincantata della situazione formativa contemporanea, confessandosi con semplicità al lettore, prima in quanto studente, poi come professore liceale. «Si discute su cosa insegnare, un po’ meno su come farlo; per nulla su dove farlo. Eppure questa sarebbe l’unica vera riforma della scuola. Una riforma strutturale»[2]. Le scuole sono luoghi di formazione per eccellenza. Non sfugge però all’occhio che sono brutte. Edificate male, senza criteri antisismici, e prive delle più elementari norme di sicurezza. Tanto che insegnare ed imparare, stare a scuola, ormai diviene paradossalmente un mettere seriamente a repentaglio la propria vita. Poi, ma non meno secondariamente, le nostre scuole sono anche esteticamente brutte, costruite con scomodissime e niente affatto salutari sedute, in ambienti squallidi e indecorosi, provvisti di arredi antiquati, sempre uguali da troppo tempo. Con colori smorti, che fanno assimilare gli edifici scolastici più ad ospedali e carceri che a luoghi di gioia e di crescita della persona umana. E tutto questo, accade evidentemente perché l’educazione non è sentita più, ormai, come una nobile scienza formativa, quanto piuttosto come un’imposizione eteronoma all’uomo. La prima evidenza che emerge dalla lettura de La barchetta di Virginia è, difatti, proprio la disillusione dell’autore nei confronti della pedagogia, scienza tanto venerata nel passato, quanto oggi brutalmente umiliata dalla realtà educativa dominante, «Non sono più un grande ammiratore della pedagogia. In questi anni l’ho vista offesa troppe volte. Qualcosa mi è rimasto, però, dell’antica fede. Due o tre massime […] La prima è un verso di Danilo Dolci. “Ciascuno cresce solo se sognato”. La seconda è di tanti e di nessuno. Dice, più o meno: la bellezza educa»[3]. Se crediamo che la bellezza sia uno degli elementi fondamentali dell’educazione, non possiamo accettare che i luoghi deputati alla formazione dei giovani siano spogli e tristi, e che ricordino più lo stato d’abbandono di un day after, che la rinascita dello spirito alle arti e alle scienze dello scibile umano. Non si comprende, poi, come si dovrebbe conciliare il sogno che l’insegnante immagina possa un giorno diventare realtà per il suo allievo, guardando nel profondo della sua anima come nessuno potrebbe fare, con gli improperi che alcuni insegnanti rivolgono ai propri alunni. Le classi difficili sono un problema per tutti. E tenuto conto della difficoltà reale per i docenti, anche quelli più motivati, nel proporre con alcuni ragazzi più complicati una relazione profonda e costruttiva, che si fondi sulla effettiva conoscenza della personalità, spesso gli stessi presidi, sempre l’intero consiglio di classe all’unanimità, ritengono di doversi disfare al più presto di questi soggetti che rompono le scatole, promuovendoli, così, tanto per alleggerire la zavorra della scuola. Questi bastardi, generalmente ragazzi difficili perché provenienti da situazioni familiari o sociali border line, sono poi considerati «materiale umano scadente»[4]. L’autore si sente, a questo punto, in grande imbarazzo nel suo compito di educatore. Diventa sempre più complessa la scelta tra educare o abituare a stare al mondo. Perché educare vuol dire formare la persona umana, nella sua globalità olistica di anima e corpo. «Quelle parole erano stranamente, dolorosamente in contrasto con le parole di cui mi ero riempito la testa all’università, quando ero un fedele seguace della pedagogia. Molto contava, per dire, la parola persona. Indicava l’uomo, considerato nel modo più pieno possibile, nell’interezza delle sue possibilità, nella sua apertura a sé stesso, all’altro, all’alto; l’uomo come essere degno di un rispetto sacro»[5]. Entro questa concezione della scuola l’attenzione ai saperi che formano l’intelletto hanno la stessa importanza dei luoghi che i corpi degli adolescenti in crescita andranno ad occupare per gran parte del loro tempo. Perciò le scuole dovrebbero essere belle, belle perché capaci di infondere negli animi amore e passione per la cultura; belle perché costruite con i criteri della gioiosa abitabilità e funzionalità, oltre che con tutti i crismi dell’edilizia contemporanea antisismica, e messe a norma per garantire contro ogni eventuale incidente che possa sciaguratamente verificarsi al loro interno. «Un professore non ha un posto nel quale incontrare singolarmente lo studente per discutere dei suoi problemi o anche solo dell’andamento didattico. Con un po’ di buona volontà, si trova il modo di farlo nel corridoio»[6]. Personalmente trovo il problema della carenza di spazi a disposizione per dialogare a dir poco vergognoso, per la trascuratezza con la quale è superficialmente snobbato. Il divario con il docente universitario, già per tanti versi iniquo e profondamente umiliante della competenza professionale dell’insegnante liceale, qui si fa abisso incolmabile, che di necessità finisce per penalizzare il già precario e superficiale rapporto con gli studenti, spesso bisognosi di maggiore cura e di dialogo interpersonale. Danneggiati dalla carenza di strutture edilizie seriamente orientate al migliore svolgimento possibile dell’attività didattica, questi giovani, che sono persone, e che rappresentano il futuro dell’umanità, vengono tenuti in aula, nell’immobilità fisica e psichica, mummificati dallo spettro della scolarizzazione, che è silenzio, passività, non reattività. L’alunno scolarizzato è quello che non risponde mai all’insegnante, che non crea mai il caso, non accende polemiche, subisce tutto, anche l’ingiustizia, per totalizzare il massimo voto in condotta. E gli insegnanti, che pretendono il doveroso rispetto formale ed il lei del distacco gerarchico, che segna la distanza e l’asimmetria della relazione di docenza, sono ben felici di poter contare su questi non troppo rari esemplari, che aumentano il loro livello di gloria personale, promuovendo la metodologia didattica dell’insegnamento da loro praticato, e convincendoli sempre più che l’attività di docenza sia più simile ad un lavoro di guardia feroce e di controllo poliziesco, che a una serena esperienza di crescita, senza veli e senza maschere di comodo. Oggi materiale umano domani forza lavoro, questa scuola delle bestie da soma è più vicina ad un circo in cui gli insegnanti fanno la parte dei domatori. E tutto questo è ritenuto all’unanimità perfettamente normale. Nessuno si chiede perché mai si debba essere spietati esecutori di ordini dall’alto, piuttosto che ricercatori euristici di nuove metodologie per la didattica. «L’altro, l’alunno non scolarizzato, è invece uno che risponde, che protesta, che si muove, che parla. È un essere umano che sta cercando di resistere all’opera con la quale  si vuole fare di lui un materiale umano, per ora; una forza lavoro in futuro»[7]. Questa tipologia di giovane rifiuta l’immobilità della morte che domina incontrastata la realtà delle nostre istituzioni scolastiche. Nietzsche parlava delle chiese come dei cimiteri di dio. Ma credo che alcune realtà scolastiche abbiano ormai di gran lunga superato i cimiteri religiosi. Divenendo tempi della cultura dogmatica, perché indiscussa e indiscutibile, le nostre scuole sono scadute a nuovi sepolcri dello spirito, in cui si commemorano ogni giorno, per almeno duecentocinquanta giorni all’anno, nient’altro che defunti. «Non è un caso che la cultura scolastica si sia ridotta ad un culto dei morti, ad una santificazione che sfiora in modo grottesco il vilipendio di cadavere. Sappiamo di vivere in un’epoca di profonda crisi culturale. Abbiamo la consapevolezza di essere dei nani, ed è questo che ci fa apparire  come giganti gli autori del passato»[8]. Una scuola dei morti, perciò, esaltati per di più come giganti sulle cui spalle ci arrampichiamo disperatamente noi nani odierni. Dimenticando che «I giganti, in realtà, non sono mai esistiti. La terra è stata sempre e solo solcata da uomini»[9]. Viene così da pensare che non resti altro che adeguarsi e, abbandonando ogni velleità educativa in senso forte, rassegnarsi ad abituare a stare al mondo. Non disdegnando il compromesso, la possibilità dell’illecito, la sporcizia o il groviglio, che dir si voglia. Perché la vera immondizia, feccia dell’umanità scolarizzata, non è il lerciume delle strade di Napoli; né il disastro ecologico ambientale che abbiamo vergognosamente provocato al pianeta. Il male è l’illegalità profonda dei comportamenti, che è sfiducia abissale nello stato e nelle istituzioni, nella scuola, nella famiglia, divenuta ormai l’epicentro della violenza sociale. Nelle situazioni problematiche la società, la scuola, le istituzioni tutte, dovrebbero sostenere il peso della formazione che la famiglia non è in grado di assumere per sé. Ma, poiché la scuola e lo stato sono realtà fantasma, l’abbandono e la deprivazione culturale vengono compensati dalla Mafia, che è la sozzura della società, difficilmente accettabile come scusa solutiva delle incongruenze. Non ci si rassegna a lasciar passare l’illecito mafioso come “normale”. Non si può dire società una realtà che sia profondamente e costantemente segnata dall’indebito. Vigilante si rende però anche perfettamente conto di non poter spiegare alla luce della filosofia buddhista la sporcizia della società a tutti i giovani che, prima o poi, ce ne chiedono il senso. E si sente terribilmente solo e smarrito di fronte a tale interrogativo. Chi potrebbe dargli torto? Cosa può dire di sensato un docente in risposta ad un alunno che gli chieda conto di ciò che impara, del mondo di carta che la scuola propone, quando lo si mette spietatamente a confronto con l’amara e dura realtà che tutti abbiamo oggi davanti agli occhi, e con la quale siamo chiamati più o meno sistematicamente a misurarci? I valori che si vogliono impartire, che dovrebbero rappresentare la misura dell’orientamento di vita, non reggono alla profonda scossa, sin dalle fondamenta. E si rischia di formare uomini semplici, ingenui, incapaci di resistere alle prove del mondo. E cosa dire di fronte alla realtà del suicidio degli adolescenti, in costante aumento per i motivi più apparentemente futili ed insignificanti? Forse gli educatori sottovalutano il disagio giovanile. O questi giovani hanno una fragilità emotiva di gran lunga superiore al nostro livello di soglia stimato accettabile. Perciò la scuola, la famiglia, hanno già fallito, in entrambi i casi. La diagnosi è già troppo problematica. Il correttivo è in via sperimentale. Dire di aver individuato una soluzione accettabile sarebbe proferire un autentico non senso. Dunque, siamo al punto di partenza. L’educazione è un metodo euristico. E nel tentare, di errori se ne commettono troppi. Bisognerebbe correggere almeno il numero degli sbagli ritenuti possibili, per configurarsi buoni educatori. Ma anche questa è una falsa questione, che pare un sofisma già in partenza. L’adolescenza resta di per sé un’età complessa, resa ancora più difficile dagli esemplari educativi imposti dalla società e dalla scuola. Lo stesso parlare di modelli formativi  metterebbe in difficoltà qualunque vero educatore, che sappia come si può crescere in maniera più consapevole camminando insieme al maestro, che è alla ricerca di un’idea di formazione al pari del suo proprio allievo. Laddove il modello educativo si pone come punto di riferimento eteronomo e distante dalla realtà dell’educando. Quando penso all’educazione mi vengono in mente i fiori, perché ritengo che formare voglia dire far crescere, veder sbocciare, cogliere la fragranza e il profumo dell’essere. Il fiore, curato dal giardiniere, non si muta in rosa se è tulipano. Il giardiniere cura semplicemente il boccio del tulipano per vederlo sbocciare in tutta la sua bellezza. Ogni educatore è come un bravo giardiniere che curi con la stessa attenzione la rosa e il tulipano. Non ama più l’una e meno l’altro. Il suo intento è quello di veder fiorire la bellezza in tutti i suoi colori e profumi. Non potrebbe, nemmeno se lo volesse, mutare un fiore in un altro. L’educatore che voglia cambiare le persone, che si voglia proporre come modello da imitare pedissequamente, correrebbe il rischio di far appassire i suoi fiori, bruciando le occasioni più belle di crescita e di formazione che, coltivate, potrebbero diventare momenti di bellezza e di stupore nella fioritura. La meraviglia di cui Aristotele[10] tesseva le lodi, ponendola come origine di ogni atto del filosofare, diventa qui rispetto profondo dell’alterità, dell’unicità, dell’originalità della persona umana, di cui ci si prende cura attraverso l’educazione e la formazione. Purtroppo la nostra scuola violenta l’adolescenza in boccio, costringendo per decine di anni i  giovani all’immobilità passiva, abituandoli a gongolare sulle spalle dei genitori, per annichilirne ogni ruolo produttivo, dal punto di vista sociale. L’adolescente, soprattutto se di buona famiglia, deve studiare. L’esperienza del lavoro viene così ritardata. E la condizione di infanzia prolungata dei ragazzi determina una paralisi economica e produttiva che si estende a macchia d’olio a tutta la società, amplificando ulteriormente l’iniziale danno educativo. Complici di questo parassitismo la tv, oltre che la famiglia, luogo dove prospera la violenza. «La televisione, che ha denaro, acquista i drammi veri o finti delle famiglie e li mette in scena davanti a milioni di telespettatori. Non è solo questione di cattivo gusto. È un attacco alla dignità dell’essere umano. La televisione arriva nell’intimo delle relazioni, dove è costretto ad arrestarsi anche il peggiore dei totalitarismi; strappa il  pudore, acquista le storie personali, la narrazione di sé. La televisione celebra sé stessa come forma attuale della Provvidenza. Tutto le è possibile»[11]. La tv trasforma così i giovani in un popolo di fruitori passivi, incapaci di riflessione e di senso critico. «La famiglia, come la scuola (e come la Chiesa), è il luogo in cui si preserva l’inesauribile riserva di moralismo e di ipocrisia degli italiani […] Il fascismo italiano – perché il fascismo non è un accidente storico, ma qualcosa che appartiene radicalmente all’anima italiana, frutto marcio di secoli di educazione cattolica, di servilismo, di crasso maschilismo – celebra qui il proprio trionfo»[12]. Insomma, le istituzioni che dovrebbero garantire il rispetto di quei valori di educazione e di democratica convivenza civile finiscono per diventare un ulteriore strumento di perversione e di dittatura, luoghi dell’ipocrisia e della menzogna. E le cose non vanno poi molto meglio ai docenti, che si dibattono con la democrazia parodistica dei collegi, con le loro fasulle e pilotate votazioni, che vedono pendere la bilancia sempre dalla parte del dirigente scolastico proponente, e con la farsa dei consigli di classe, nei quali vengono sistematicamente silurati da tutto il corpo docente i rappresentanti degli studenti che tentino timidamente di affrontare le effettive problematiche del gruppo classe. Risultato, il silenzio amaro e deprimente dei docenti, durante i collegi, e dei giovani rappresentanti durante i consigli di classe. Eppure la scuola, che scolarizza e normalizza i “bastardi” per portarli dalla barbarie alla civiltà, si riconosce anche obiettivi elevati, dal punto di vista pedagogico, che risultano però ancora utopici, perché tuttora irrealizzati. Il lusso cui si vuole tendere è «Il mondo in cui la cultura non è uno strumento di competizione, ma la gioia di conoscere e creare, in cui il lavoro non è una maledizione, ma la costruzione comune di un mondo a misura d’uomo»[13]. Salta immediatamente all’occhio che questa aspirazione è condannata a rimanere una chimera a scuola, in cui la didattica è pensata proprio come strumento di competizione. Sembra di ritrovarvi una Castalia minore, quella provincia pedagogica che Hesse immaginava nel Gioco delle perle di vetro. Una sorta di attività culturale globale, che racchiudesse in sé la totalità dei linguaggi, dalla matematica alle scienze, dalla storia alla geografia, dalla filosofia all’arte e alla musica. Questo gioco perverso, del rincorrere un senso trasversale che porti ad un percorso interdisciplinare, lo si può apprezzare in tutto il suo splendore durante l’ultima farsa della scuola-diplomificio (la chiamo così perché, giunti all’ultimo anno bisogna davvero impegnarsi molto per farsi bocciare). I candidati devono mostrare alla commissione di aver saputo legare tra loro le pillole di saggezza ricevute in dono dai loro docenti durante i cinque anni di studio liceale. E presentano tesine, percorsi o mappe concettuali che evidenzino le reciproche interconnessioni tra i vari ambiti del sapere appreso. Spesse volte sono costretti a veri e propri voli pindarici. Ma il risultato finale è garantito comunque anche grazie all’apporto non indifferente fornito dai docenti del corso. Se questa operazione di costruzione di un sapere totale fosse reale, e corrispondesse alla formazione appresa e significante dei discenti, sarebbe davvero sintomo di maturità e di crescita consapevole. Il problema è che le tesine (i percorsi) sono il frutto di un vero e proprio rastrellamento di informazioni tratte da internet, attraverso il copia-incolla. E risultano quasi sempre una frettolosa operazione di raccordo su nozioni raccogliticce e niente affatto assimilate, che di significativo, nel senso pedagogico della parola, hanno dunque assai poco. Ma come può il docente indurre quella fame di cultura che ormai è quasi del tutto assente negli alunni liceali? La professionalità insegnante dovrebbe possedere gli strumenti e i metodi per indurre nei giovani questo appetito del sapere, per poterlo sostituire all’attuale anoressia delle conoscenze. Anche qui si lavora per approssimazioni. Le ultime riforme della scuola chiedono di introdurre tra le metodologie didattiche tutti quegli strumenti elettronici di cui normalmente i giovani fanno uso sin dalla prima infanzia. Cellulari, computer, internet, tv, cinema. Assai meno accattivante è la stampa, che invece risulterebbe molto più educativa. L’abitudine a leggere il quotidiano in classe induce il dibattito su argomenti di cronaca e storia contemporanea, formando negli adolescenti quel senso di cittadinanza e quella ragione critica, tanto importanti oggi più che mai in un mondo in cui domina l’appiattimento dei valori e delle culture. Gli ausili informatici sono, appunto, strumenti vuoti, che necessitano di essere riempiti dall’interno, con i contenuti tradizionali del sapere. Il problema resta dunque identico. Come far innamorare i giovani della cultura? Come far loro comprendere che spesso proprio quelle attività che vengono ritenute inutili ed insignificanti sono i migliori strumenti della crescita personale? Inevitabile che prima o poi questi adolescenti demotivati debbano riconoscere la verità di tali affermazioni. Ma quando ciò avverrà sarà spesso troppo tardi, se il piacere degli studi non è stato coltivato prima dalla scuola. Invece sempre più frequentemente gli insegnanti si comportano come i genitori di un anoressico, e credono che la patologia si possa risolvere con grandi scorpacciate nozionistiche che vengono, immancabilmente, rigettate con la stessa velocità con la quale si credeva di poterle introdurre. Un piatto invitante deve essere arricchito anche da un nuovo sapore. Se la minestra è sempre la stessa, e per di più riscaldata, al nostro allievo passerà anche quel poco di fame che gli era ancora rimasta. È ovvio che il problema principale del tempo che ci appartiene si delinea essenzialmente come perdita dei valori culturali del passato, con i quali non ci troviamo più, ormai, a fare i conti. Una volta dominavano i modelli crociano e gramsciano, l’uno orientato al recupero di una cultura umanistica in senso classico, l’altro alla lotta intellettuale che vedeva nella cultura uno strumento di riscatto e di crescita per la democrazia, la giustizia e la libertà. Oggi l’unico valore riconosciuto alla cultura è quello che viene definito strumentale. Una cultura strumentale è una cultura che serve a qualcosa; e che per servire a qualcosa deve essere direttamente indirizzata alla ricerca di un’occupazione. Deve perciò specializzarsi, ed essere settoriale. E il docente diventa il freddo depositario della cultura specialistica. «Il docente che coinvolge è quello che ha una vera passione ideale, che ha valori in cui credere, che ama la polemica ed il confronto. Ma un docente del genere è un ospite sgradito nelle asettiche scuole di oggi. Crea problemi, suscita inquietudini – fa politica. Lo stato seleziona docenti burocrati, più che intellettuali. Puoi aver pubblicato dieci libri, ad esempio: non costituiscono un titolo valido. Non è in alcun modo incoraggiata la ricerca autonoma. Non esistono contributi ministeriali per i docenti che vogliano pubblicare libri. Non c’è contatto diretto tra docenti ed università […] Quello che abbiamo perso è il senso collettivo e non strumentale della cultura. La cultura come ricerca comune della verità e del bene, come un pensare, un fare che non appartiene né a me né a te, ma è di tutti e che quindi non può giustificare alcuna competizioneuelloQQqqqqq»[14]. La nostra scuola, inoltre, non permette nemmeno di socializzare davvero in modo libero, sia perché mancano le strutture idonee, sia perché anche la socialità è stata settorializzata e ghettizzata nei luoghi del puro e semplice divertimento senza contenuti culturali. Al di fuori dei quali resta la solitudine del mezzo televisivo vissuto in maniera solipsistica. Bisogna prendere atto che i giovani non leggono, ed è per questo che sanno scrivere sempre meno. Le loro distrazioni, perciò, non comprendono mai (o quasi) la lettura impegnata di un testo filosofico. Gardner sosteneva che l’intelligenza non è una facoltà unitaria. E che esistono ben otto tipologie differenti di intelligenza, tra le quali vi sono la memoria, la capacità riflessiva, l’interazione dialogica, l’adattamento cognitivo. La scuola che pretende di ridurre tutti gli apprendimenti a meccanismi mnemonici è una scuola che ha fallito i suoi obiettivi formativi in partenza. L’insegnante deve saper leggere dentro gli alunni, per individuare il loro stile cognitivo, la loro intelligenza individuale, senza pretendere di fossilizzare la conoscenza su uno standard già fissato in anticipo. La divergenza mentale è la piena capacità di apertura al nuovo, che implica anche la ricerca dell’originalità. Ma per lavorare in questo senso c’è bisogno di acquisire una flessibilità mentale non indifferente, che viene spesso temuta ed osteggiata, soprattutto dai docenti con più anni di servizio alle spalle, che interpretano le nuove metodologie della didattica come un attacco destabilizzante ai loro metodi pedagogici. Una volta nelle scuole esisteva quella educazione del cuore che interpretava la relazione di insegnamento come relazione umana ed affettiva. Non si insegna se non ciò che si ama. E non si insegna se non a chi si ama. Ed è crescendo nell’amore del docente che l’allievo matura la sua spiritualità intellettiva. Egli viene sognato dal suo insegnante per ciò che potrebbe essere e non è ancora. E impara a guardare se stesso con lo stesso sguardo amorevole del suo docente. Diventando infine quel sogno incarnato nel suo futuro. Una scuola che non sogna, che non pensa, che non progetta, non ha nulla di buono da insegnare. Il lavoro del docente, quando è vero impegno, si fa missione di tutta una vita, che rifugge la monotonia del quotidiano nella creatività dirompente del nuovo che si fa ogni giorno a cominciare dall’attimo dell’ascolto e della riflessione. Invece le nostre aule sembrano campi di battaglia in cui stia per scoppiare la bomba da un momento all’altro. La disposizione dei banchi e dei posti tradisce la necessità della classe di sottrarsi allo sguardo del docente, di fuggirgli quanto più possibile verso il muro, che è l’agognato approdo rassicurante cui tutti aspirano, proprio come gli ultimi posti indietro delle file. Un altro schermo è rappresentato dal manuale, àncora di salvezza durante le verifiche. Bisognerebbe limitare l’uso del libro di testo, con intelligenza. Non si può chiedere all’insegnante di rinunciare ad un suo punto di riferimento, che sembra anche essere pedagogicamente uno strumento positivo per l’adolescente. Nei prossimi anni, però, si parla di libri on line, scaricabili direttamente da internet, e visualizzabili in classe dalle lavagne interattive, strumenti di ultima generazione che andranno a sostituire, in un tempo non troppo remoto, la classica lavagna di ardesia. Forse, attraverso queste nuove classi laboratorio, si potrà cominciare a sviluppare la didattica in rete, approfondendo qualsivoglia tipo di contenuto all’istante, per estrapolarlo, facendolo diventare elemento vivo e significativo del personale lavoro del docente o dell’allievo. Come c’è bisogno di stimolare il lavoro di ricerca, ugualmente è necessario abituare i giovani a coltivare l’arte e la passione per un lavoro manuale. Era d’accordo sull’importanza del valore del lavoro anche Locke, educatore del gentleman. Pensiamo a Spinoza che intaglia le lenti, a Gandhi che fila e a Tolstoj che fa il calzolaio. Lo stesso Don Milani credeva che i giovani dovessero essere istruiti alle attività pratiche, e il metodo della Montessori è tutto rivolto al fare creativo del fanciullo, che acquisisce, così, l’abitudine alla concentrazione indispensabile al lavoro intellettivo, tanto difficile da raggiungere per i nostri allievi, abituati alla distrazione annichilente dei mezzi informatici e della tv. La scuola è lo specchio della società che la ospita. La nostra scuola dovrebbe essere laica, perché la nostra società è democratica e non confessionale. Ciò significa che non deve operare discriminazioni di alcun tipo, e deve educare alla Costituzione e all’antifascismo. Mostrando tolleranza per le differenti fedi religiose dei propri allievi e insegnanti. Così come non deve fomentare odi e violenze di tipo politico. E non sostenere alcuna appartenenza se non quella di tutti alla cultura del proprio paese e della propria storia. Se la relazione educativa è ciò che conta davvero «per quanto ferito tu possa essere, per quanta rabbia tu possa avere, per quanto forte possa essere il tuo odio della vita, non puoi restare lo stesso, una volta che qualcuno sia giunto a sognarti»[15]. Vigilante conclude così il suo pamphlet, che prende il nome da una barchetta realizzata e regalata al suo professore dall’alunna Virginia, con alcuni punti del manifesto della scuola, che si possono sintetizzare nei principi generali, nelle strutture, nell’intellettualità, nel lavoro, nel presente, nella laicità, in una scuola per tutti, nel territorio e nella relazione, «La scuola non deve condurre le nuove generazioni al livello attuale della società, ma andare oltre […] La critica della cultura le appartiene per essenza. La scuola improbabile educa alla ricerca di sé, all’orgoglio, alla verità, non alla timidezza, alla paura, all’ipocrisia. La scuola improbabile lavora per la decostruzione dell’identità italiana, vale a dire per l’antifascismo […] La scuola improbabile è strutturalmente rispettosa delle persone che accoglie. Occorre che le scuole siano belle come le chiese e come le banche, perché ciò che si fa in una scuola non è meno sacro di ciò che si fa in una chiesa o in una banca […] La scuola improbabile è il luogo in cui la cultura non viene semplicemente trasmessa, ma creata, elaborata, approfondita […] ogni scuola diventa anche un centro di ricerca […] Nella mia scuola improbabile tutti, figli di operai e figli di ingegneri, devono apprendere un’arte manuale in un laboratorio di falegnameria, di ceramica, di elettronica […] La scuola improbabile sviluppa in primo luogo la capacità di attenzione e di interpretazione del proprio mondo […] La scuola improbabile è laica […] Dalla scuola improbabile escono persone che pensano alla cultura come uno strumento, sì, ma a disposizione di tutti, un mezzo di elevazione collettiva e non individuale […] La scuola improbabile è un pezzo vivo di città, non un recinto chiuso, non una provincia pedagogica […] Da una parte, gli studenti vivono la città, frequentano i luoghi del potere, quelli del lavoro e quelli della bellezza; dall’altra i cittadini entrano nelle scuole per imparare, per discutere, per festeggiare […] La scuola improbabile favorisce i rapporti umani profondi e significativi, crea le condizioni per una relazione educativa – cioè erotica, nel senso che s’è detto – reale. Sono abolite le gerarchie, sono aboliti il lei ed il voi. È abolita l’autorità»[16].

Antonietta Pistone

Articolo pubblicato sulla rivista Pianeta Cultura



[1] A. Vigilante, la barchetta di virginia, manifesto per una scuola improbabile, Rainone editore, Bergamo 2006

[2] Ivi, pag. 8

[3] Ivi, pag. 9

[4] Ivi, pag. 14

[5] Ivi, pag. 13 e seg.

[6]Ivi, pag. 11

[7] Ivi, pag. 15

[8] Ivi, pag. 17

[9] Ibidem

[10] Aristotele, La Metafisica, libro primo

[11] A. Vigilante, la barchetta di virginia, rainoneeditore, Bergamo 2006, pag. 25

[12] Ivi, pag. 27 e seg.

[13] Ivi, pag. 34 e seg.

[14] Ivi, pag. 41 e seg.

[15] Ivi, pag. 52

[16] Ivi, pag. 54-60



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